Protagonisti, deuteragonisti, antagonisti: Mangiafoco
L’ingresso di Pinocchio nel Teatro dei Burattini rappresenta la sua vera epifania, la sua manifestazione nel teatro del mondo. Quando entra la rappresentazione è già iniziata, ma il suo arrivo sul palco è rivoluzionario, sconvolge l’ordine dello spettacolo, il pubblico e gli attori “di quella compagnia drammatico-vegetale”. Con loro Pinocchio è introdotto ad un grado diverso della realtà: dalla semplice percezione fisica del mondo (un tronco che prova solletico e dolore) alla coscienza di un Io individuale (con il Grillo e con Geppetto che rientra in casa dall’alto) ad un primo passo verso la consapevolezza di un Io sociale, che si relaziona con gli Altri.
Primi tra tutti coloro che sono come lui, burattini di legno, i quali infatti lo riconoscono immediatamente come fratello. Interessante è qui la sequenza delle modalità con cui avvengono i saluti: “gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza”, una progressione che allude forse ad una vera e propria ritualità iniziatica...
Ma per continuare il cammino nella Via, Pinocchio deve sottoporsi ad un’altra prova, l’incontro con una figura il cui intervento è provocato proprio dallo sconvolgimento da lui causato: il burattinaio Mangiafoco, che Collodi descrive come una sorta di demone, di orco, ma che “nel fondo poi non era un cattiv’uomo”. Le sue prime parole sono molto minacciose: egli vede in Pinocchio “un burattino fatto di un legname molto asciutto”, che “darà una bellissima fiammata all’arrosto”. Lo stesso pensiero di Maestro Ciliegia: “E’ un pezzo di legno da caminetto come tutti gli altri e a buttarlo sul fuoco c’è da far bollire una pentola di fagioli”.
E non a caso Marcello Carosi interpreta la figura di Mangiafoco come quella di un terzo elemento paterno, dopo Maestro Ciliegia (rifiutato da Pinocchio in quel ruolo, in quanto lo avrebbe condannato alla staticità di una gamba da tavolo, o alla distruzione) e dopo Geppetto (che gli aveva dato un corpo fisico capace di movimento, sensazioni, percezioni, relazioni). Pinocchio aveva accettato quest’ultimo, ma aveva rotto con lui il patto fondato sull’accettazione di norme pre-stabilite (obbedienza, rispetto, studio). L’esigenza di darsi principi autonomi lo spinge ora all’incontro con un altro Padre, il Padre Originario, il Padre-Saturno, il dio all’origine degli dei.
L’antico dio italico Saturno, padre dell’agricoltura, signore dell’Età dell’Oro, corrisponde nel mito greco a Cronos – colui che divorò i suoi figli, Estia, Demetra, Era, Ade, Posidone, e al quale solo Zeus sfuggì, perché sostituito con una pietra dalla madre Rea – etimologicamente distinto ma simbolicamente affine a Chronos, il Signore del Tempo.
Si segnala inoltre che in alcuni testi dell’ermetismo Cronos è raffigurato come un vecchio afflitto da una evidente zoppia…
Pinocchio rischia qui nuovamente (dopo la minaccia di Maestro Ciliegia, dopo la stufa di Geppetto) la distruzione nel fuoco, ad opera di Mangiafoco, ma poiché in fondo costui “non era un cattiv’uomo”, a lui spetta il compito di introdurre Pinocchio nel tempo reale, con un gesto di magnanimità che manifesta con un sonoro starnuto, che replica due volte, e poi altre tre. Un gesto non casuale (anche nel numero), in quanto gli antichi Greci (e dopo di loro i Romani) vedevano nello starnuto un presagio divino ricollegabile alla situazione in cui esso avveniva ed Aristotele, in particolare, riteneva che, essendo prodotto da una parte sacra del corpo, il capo, fosse esso stesso divino.
Si legge nell’Odissea (c. XVII):
[Penelope] Finito [di parlare] non avea,
che il figlio ruppe
In un alto starnuto, onde la casa
Risonò tutta. La Regina rise,
E, Va, disse ad Euméo, corri, e il mendico
Mandami. Starnutare alle mie voci
Non udisti Telemaco? Maturo
De’ Proci è il fato, nè alcun fia che scampi.
A questo punto inizia veramente la storia di Pinocchio come storia di un cammino di realizzazione del Sé: Pinocchio riconosce Mangiafoco nel suo ruolo di Padre Originario, chiamandolo “illustrissimo”, “signor Cavaliere”, “signor Commendatore”, ed infine “Eccellenza”, colui che eccelle, che si spinge fuori, al di sopra. Quindi, dopo il riconoscimento da parte dei suoi “fratelli”, dopo aver salvato dal fuoco Arlecchino con un gesto (il primo) di altruismo, si allontana dalla comunità dei suoi simili, in quanto Altro rispetto a loro.
Divagazioni verso il Sol Levante
Aveva scritto il maestro buddhista Dogen Zenji nel Giappone del XIII secolo:
“Studiare la Via del
Buddha è studiare se stessi.
Studiare se stessi è dimenticare se stessi.
Dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose.
Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri”.
Una maschera inquietante
Nel gruppo dei burattini di Mangiafoco spicca il personaggio di Arlecchino: è il primo che viene citato da Collodi; è già sul palco all’ingresso di Pinocchio; è il primo a riconoscerlo, e lo fa citando gli dei – “numi del firmamento…quello laggiù è Pinocchio”; è quello che rischia di essere bruciato nel fuoco (per arrostire la carne). La figura di Arlecchino rinvia immediatamente al demoniaco, al mondo infero (non a caso sta per essere gettato nel fuoco…): la radice del suo nome è germanica: Hölle König (re dell'inferno), traslato in Helleking, poi in Hellequin, Harlequin…
L'origine del personaggio è molto antica, legata alla ritualità agricola: si sa per certo, infatti, che Arlecchino è anche il nome di un demone ctonio. Già nel XII secolo, Orderico Vitale nella sua Storia Ecclesiastica racconta dell'apparizione di una familia Herlechini, un corteo di anime morte guidato da questo demone/gigante.
È una forma del rito dello charivari, comune presso le società rurali, che potrebbe avere un'origine demologica antica, relativa al rapporto tra morti e vivi e al mito delle "anime non placate" (di persone decedute anzitempo). Processioni di persone nel ruolo di anime purganti erano inscenate al fine di allontanare il pericolo dell'ira del defunto.
Dante Alighieri riprese il nome di quel demone, già antico nella sua epoca, chiamandolo Alichino, e lo inserì tra i Malebranche, un gruppo di diavoli presenti nell'Inferno (canti XXI, XXII e XXIII), deputati a controllare che i dannati della quinta bolgia dell'ottavo cerchio, quello dei fraudolenti, non uscissero dalla pece bollente. Essi erano dotati di uncini dolorosi (male-branche) con i quali graffiavano e squartavano tutti coloro che osavano affacciarsi.
“Tra' ti avante, Alichino, e Calcabrina / cominciò elli a dire, e tu, Cagnazzo; / e Barbariccia guidi la decina. / Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo, / Cirïatto sannuto e Graffiacane / e Farfarello e Rubicante pazzo”.
La maschera di Arlecchino nella commedia del ‘600 evocherà il ghigno nero del demonio presentando sul lato destro della fronte l'accenno di un corno.
E ben presto Pinocchio incontrerà molto da vicino gli aspetti demoniaci dell’esistenza, le divinità ctonie e le tentazioni a cui lo sottoporranno.
Inoltre, Pinocchio, grazie a Mangiafuoco, prende per la prima volta coscienza di un ulteriore elemento, assolutamente fondamentale nella sua ricerca e nel testo di Collodi: il femminile, la Madre.
“E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? – Gli domandò Mangiafoco.
Il babbo sì; la mamma non l’ho mai conosciuta”. Il che, come si vedrà, non significa che non l’avesse.
Un altro passo sulla Via: la tentazione
Subito dopo l’ingresso nella Via (l’uscita dal Teatro, dove invece rimangono gli altri fratelli) Pinocchio è sottoposto ad una prova molto gravosa, come d’altra parte accade ad ogni altro asceta nel corso del suo cammino, come il Buddha, tentato da Mara, o il Cristo, o Antonio nel deserto.
O ad ogni essere nel corso del proprio transito terrestre.
Si legge ad esempio nei Vangeli sinottici che dopo il battesimo di Gesù, cioè la discesa dello Spirito in lui sotto forma di colomba (bianca, nell’iconografia classica), Egli ebbe l’incontro con il Tentatore. Si veda Matteo IV, 1-11:
Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, di' che questi sassi diventino pane”. Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.
Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”. Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo”.
Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”. Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”. Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano.
Nel caso di Pinocchio la tentazione consisterà nel risvegliare la sua brama di beni materiali, con la promessa di moltiplicare il dono ricevuto da Mangiafoco (5 monete d’oro) senza alcuna fatica.
Scrive Marcello Carosi:
“Quando ci sentiamo spinti ad accennare un sorriso di scherno di fronte a questa che potremmo definire la dabbenaggine di Pinocchio dimentichiamo che nel corso dei tempi e ancor oggi e sempre di più, si è stimolati a realizzare la propria esistenza secondo questo aspetto: ridurre più che possibile l’attività personale, abolire semmai il lavoro e riuscire ciononostante ad ottenere agiatezza e ricchezza nel senso fisico-materiale”. Esempi: i giochi d’azzardo (cui era dedito Collodi) legali o meno, le vincite facili, i successi che escludono lo studio e la fatica, il desiderio di interessi, profitti e guadagni smisurati, anche certe proposte nelle forme dell’organizzazione del lavoro, talune rivendicazioni sociali, la pretesa di diritti che prescindono da ogni dovere ecc.
È’ la conseguenza di una interpretazione in senso esclusivamente materialistico di ciò che avvenne dopo la fuoriuscita dell’uomo dalla soggezione al Padre:
All'uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Genesi, III)
In tal senso le figure che Pinocchio incontra e dalle quali è tentato, sono emissari di un ambito demoniaco, diabolico nel senso letterale del termine.
Da evitare è qui il restringere l’attenzione ad una dicotomia Male/Bene, che sarebbe non errata ma comunque semplicistica e riduttiva.
In Genesi il serpente dell’Eden è detto essere non un demone ma “il più astuto di tutti gli animali della campagna che il Signore Dio aveva fatto”.
E si veda il ruolo del Satan (etimologicamente: oppositore in giudizio, pubblico ministero) nel Libro di Giobbe (Giobbe, I):
Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra, che ho percorsa». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male». Satana rispose al Signore e disse: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!». Il Signore disse a Satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui». Satana si allontanò dal Signore.
Protagonisti, deuteragonisti, antagonisti: la Volpe e il Gatto
La Volpe e il Gatto sono due animali che possiedono una forte valenza simbolica: appartengono alle famiglie dei canidi e dei felini, esseri carnivori, voraci, predatori; non a caso volpe e leone, un canide e un felino, sono gli animali che Machiavelli nel Principe (1513) cita quali modelli da seguire da parte di un Sovrano che intenda perseguire la sopravvivenza dello Stato e del proprio potere:
Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi.
L’accostamento del Gatto e della Volpe al demoniaco è provata anche dal fatto che essi conoscono bene non solo Pinocchio ma anche Geppetto. Così come i demoni riconoscono sempre Cristo ed il Padre. Come nota anche il Card. Biffi:
“Gli apostoli del male parlano frequentemente del Padre”. Non per nulla il comandamento recita: Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Essi sono abili mentitori: le loro stesse infermità, peraltro simulate, rimandano immediatamente al loro rapporto con il mondo infero: la Volpe è zoppa da un piede, il Gatto è cieco da entrambi gli occhi. Della zoppia si è detto. E la cecità è il simbolo evidente dell’ignoranza, del buio interiore: infatti il primo anello del pratityasamutpada buddhista, l’ignoranza-avidya, origine della sofferenza, è raffigurata da un cieco che cammina sull’orlo dell’abisso.
Il Gatto ripete sovente le stesse parole della Volpe, quasi fossero un’unica entità. Si legga Marco, V:
Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo…Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse: «Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». Gli diceva infatti: «Esci, spirito immondo, da quest'uomo!». E gli domandò: «Come ti chiami?». «Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti». E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. E gli spiriti lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare.
Quando un Merlo bianco appollaiato su una siepe consiglia a Pinocchio di non dar retta a quei cattivi compagni, il Gatto gli salta addosso e lo mangia. Sopraffacendo così una voce che viene dall’Alto, da sfere superiori, in una veste candida (come la colomba, immagine dello Spirito che discende sul battezzando, su colui che è candidato ad essere iniziato).
Altro indizio è la sceneggiata che il Gatto e la Volpe allestiscono per tentare Pinocchio: gli consigliano infatti di recarsi in un “campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei Miracoli”, di sotterrare le monete in una buca e annaffiarla “con due secchie d’acqua di fontana” e di gettarvi “sopra una presa di sale”. Una vera e propria parodia di un rito religioso e dei suoi simboli: l’acqua, simbolo della rinascita, della benedizione; il sale, simbolo della saggezza e della purificazione dal male; la terra benedetta, il campo dei miracoli. Il sacrificio, il fare ciò che è sacro, è rovesciato in una sua forma caricaturale; una sorta di rito satanico, dove i simboli sono rovesciati, utilizzati in maniera oscena, ob-scena. Così come il demone è una forma caricaturale e parodistica di Dio: diabolus est simia Dei, è detto in tutta la tradizione cristiana a partire da Tertulliano. E patetiche scimmiottature dell’opera divina sono le sue azioni.
Ma Pinocchio cede alla tentazione, e il primo segno della caduta è una regressione: dal bianco del Merlo ucciso dal Gatto al rosso dell’osteria in cui si reca a cena con i tentatori: l’Osteria del Gambero Rosso; il gambero, l’animale il cui movimento genera un cammino all’indietro, una involuzione; il rosso, la rubedo del procedimento alchemico (nigredo – rubedo – albedo), a cui Pinocchio regredisce non avendo prestato ascolto alla voce dell’albedo, il Merlo bianco. L’osteria, il luogo degli appetiti insaziabili, come quelli degli spiriti famelici che affollano i reami tra i più dolorosi nei quali si può rinascere secondo le dottrine orientali.
E dopo il rosso, il nero, l’opera al nero dell’Alchimia: il buio profondo della mezzanotte, rotto a malapena dalla voce fioca di un fantasma, l’ombra del Grillo-parlante, che nuovamente predice a Pinocchio le sventure nelle quali incorrerà: gli assassini e la guazza (si ricordi che il pantano, le paludi, sono simboli della decomposizione dello spirito che in esse si verifica per la mancanza dei due principi attivi - aria e fuoco - e per la fusione di quelli passivi, acqua e terra).
Ed altrettanto nere sono le “due figuracce…tutte imbacuccate in due sacchi da carbone”, come “se fossero due fantasmi”: nere nel nero, il nero della notte, del carbone che proviene dalle profondità della terra, dei due esseri fantasmatici che sembrano scaturire dall’aldilà. Sono gli assassini profetizzati dalla voce del Grillo, ovvero la Volpe e il Gatto, che nell’oscurità rivelano il loro autentico volto di demoni travestiti da animali, occultato invece dalla luce del giorno.
Nella notte nera, quindi, diviene evidente ciò che la luce aveva permesso di scorgere solo attraverso quegli indizi che Pinocchio aveva ignorato.
Da questo punto il suo cammino si manifesta in modo evidente come una vera e propria discesa agli inferi, una catabasi. E Pinocchio è qui Ulisse, è Orfeo, Eracle, Enea, Dante, Maometto. E il Cristo.
Da notare che durante la lotta tra Pinocchio e gli assassini, il burattino riesce a mordere la mano di quello più piccolo e addirittura a staccargliela di netto. Qui si rivela (ma non ancora a Pinocchio) l’identità dei due: infatti il burattino sputa a terra quella che credeva essere una mano e si accorge trattarsi di una zampa di gatto. Abbiamo dunque ora, dopo Geppetto, dopo Pinocchio stesso, dopo la Volpe, anche la zoppia del Gatto.