Alcune domande possono
legittimamente sorgere durante lo studio della storia della filosofia, quali:
fino a che punto la biografia di un pensatore può influire sul suo sistema
filosofico, e fino a che punto è corretto giudicarne il pensiero anche sulla
base degli eventi della sua storia personale?
Ad esempio, si può
studiare Giovanni Gentile prescindendo dalla sua totale fedeltà al fascismo,
che gli costò la vita? La relazione adulterina che l’autore del Capitale intrattenne con Helene Demuth,
proletaria governante di casa Marx, è solo gossip?
E l’episodio torinese di Nietzsche che abbraccia un cavallo difendendolo dalle
frustate del vetturino, ha a che fare con la sua filosofia o è solo un sintomo
di follia? Innumerevoli sono gli esempi possibili.
Arthur Schopenhauer |
Proprio secondo
Nietzsche, un pensiero filosofico “è
sempre la confessione autobiografica del pensatore che lo enuncia”[1].
Per Schopenhauer, poi, “ogni biografia è
una patografia”[2]!
La vita e il pensiero di Arthur Schopenhauer sono in effetti un
perfetto esempio di ciò di cui si sta parlando. Per lui si può dire, meglio che
per ogni altro filosofo, che “la sua
filosofia è in gran parte la sua stessa vita”[3]
(per ora accettiamo quest’ultima affermazione, ma con beneficio d’inventario).
Egli stesso scrisse nel
1832: “A diciassette anni, digiuno di
qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio
della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della
malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava
in modo così chiaro e manifesto dal mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi
giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo
siffatto non poteva essere l’opera di un essere infinitamente buono, bensì di
un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei
loro tormenti”[4].
Lo strazio di cui Schopenhauer parla è riferito alla morte del padre,
un ricco commerciante di origini tedesche, che nel 1805 si era suicidato,
lasciando il diciassettenne Arthur (era nato a Danzica[5]
nel 1788) alle cure della giovane madre,
una scrittrice di scarso talento interessata più alla letteratura che alla
propria famiglia, la quale ben presto si staccò da Arthur e dalla figlia minore
per trasferirsi a Weimar, dove fondò un salotto letterario frequentato anche da
Goethe e dai fratelli Grimm.
Danzica |
Dopo la morte dell’amato
padre il giovanissimo Arthur iniziò a dedicarsi agli studi classici, prima a
Gotha e poi a Weimar. Studiò anche molte materie scientifiche, ma soprattutto
filosofia, in particolare Platone e Kant, che rimasero per lui punti di
riferimento fondamentali. Si laureò con una tesi in filosofia (Sulla quadruplice radice del principio di
ragion sufficiente), della quale la madre disse che le sembrava trattarsi
di un testo per farmacisti. Al che il figlio rispose con una profezia che
descrive molto bene il loro rapporto: “Sarà
ancora letta quando dei tuoi romanzetti non esisterà neppure una copia nei
solai”[6].
Dopo di allora non si rividero mai più.
Fino al 1851, anno in cui
il suo lavoro cominciò ad essere apprezzato, non solo in Germania ma anche in
Italia, dove viaggiò a lungo, e in Inghilterra, la vita di Schopenhauer fu un
susseguirsi di problemi economici (la banca dove aveva tutti i suoi depositi
fallì), di insuccessi e delusioni nell’ambito culturale e lavorativo, di
difficoltà nei rapporti umani.
Alla fine del 1818
pubblicò la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione[7],
ma fu un tale fallimento che quasi tutte le copie finirono al macero.
Ebbe profonde divergenze
con Goethe, e poi con Hegel, suo imbattibile competitore nelle docenze
universitarie. Secondo Schopenhauer, quest’ultimo
era “spacciato [..] come un grande
filosofo”, ma in realtà era “un
ciarlatano piatto, privo di spirito, nauseante, disgustoso, ignorante”, la
cui influenza ha prodotto “la corruzione
intellettuale di tutta una generazione erudita” [8].
Una relazione
sentimentale con un’italiana finì nel nulla, poi dal 1820 al 1826 ebbe una
burrascosa liaison con una corista
dell’opera di Berlino, che in quegli anni gli diede un figlio, di cui però non
era il padre. Si dice anche che, essendo in attesa di un figlio dalla
domestica, lasciò alla propria sorella il compito di risolvere il problema (il
bambino poi nacque morto)[9].
Durante una lite con una
donna che faceva rumore nell’anticamera, la spinse e le procurò delle lesioni.
Ne nacque un procedimento civile, e Schopenhauer le dovette pagare un vitalizio
fino alla morte.
Inoltre, a causa di una
lunga malattia rimase per un anno rinchiuso in una stanza, e ne uscì sordo da
un orecchio.
Intanto aveva pubblicato
diverse opere filosofiche, che però non riscuotevano il riconoscimento sperato
nel mondo accademico e nell’editoria. Fino, come accennato, alla svolta
positiva del 1851, quando uscirono i due volumi dei Parerga e paralipomena[10],
che finalmente gli valsero un notevole successo editoriale e schiere di
discepoli. Il suo capolavoro di trent’anni prima, Il mondo, fu ampiamente rivalutato e ripubblicato più volte, e la
critica si accorse finalmente di Schopenhauer, compreso Francesco De Sanctis,
che nel 1858 scrisse un saggio comparandone il pensiero con quello di Leopardi.
Ma pochi anni dopo, nel 1860, morì per una improvvisa malattia
polmonare.
Il mondo come volontà e rappresentazione
Alcuni temi sommariamente
accennati nella citazione del 1832 stanno a fondamento della sua opera del 1818,
Il mondo: la sofferenza della vita,
che si impone come verità al di sopra della dogmatica giudaico-cristiana, ormai
divenuta una inaccettabile mitologia; l’impotenza dell’uomo, e ancor più del
filosofo, sul mondo; l’impossibilità della coesistenza della vita e della
verità; e soprattutto, per quanto qui ci interessa, la costante presenza in
Schopenhauer del pensiero orientale, in particolare gli insegnamenti delle Upanishad [11]
e dei testi buddhisti.
Schopenhauer riprende da
Platone il tema dell’interiorità dell’anima come “sede” della verità: è
necessario rivolgersi a se stessi per avvicinarsi alla verità, la quale risulta
però separata dal mondo e dalla felicità. Una vita ospitata dalla verità è
possibile, ma senza felicità. E la felicità è possibile, ma senza vita, in un
altro mondo.
Per Schopenhauer il mondo è quindi rappresentazione: il mondo è la mia rappresentazione, questa è l’affermazione
perentoria con cui si apre la sua opera; l’uomo sa “di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede
il sole e una mano che sente il contatto d’una terra”[12].
Conoscere è un evento dell’anima, che “crea
il mondo come noi lo conosciamo, e il mondo è il suo sogno”[13].
Come nel capolavoro di Caldéron de la Barca, La vida es sueño (1653), nel quale è
inconsapevolmente riproposta la storia della vita del principe Siddhartha, il
futuro Buddha…[14]
Schopenhauer è molto netto: “tutto ciò che esiste per la conoscenza, e
cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto, la
percezione per lo spirito percipiente; in una parola: rappresentazione”[15].
Da un lato il soggetto, quindi, che
non può essere oggetto di conoscenza, al di fuori dello spazio e del tempo,
indiviso in ogni essere capace di avere rappresentazioni. Dall’altro l’oggetto, condizionato dalle forme del
tempo e dello spazio che ne producono la molteplicità.
La rappresentazione è ordinata dalle connessioni instaurate dall’intelletto: il tempo, lo
spazio, e la causalità, che
costituisce la realtà della materia, realtà che è azione dell’oggetto sugli altri oggetti. La conoscenza è
fondamentalmente intuizione dei
rapporti causali tra gli oggetti, mentre la ragione è discorsiva ed ha a che
fare con concetti astratti.
La realtà non si riduce interamente alla
rappresentazione, che è soltanto fenomeno.
Il mondo ha un noumeno, un’essenza,
una cosa in sé, costituito dalla volontà[16].
Alle spalle dell’intelletto e del mondo
che si rappresenta c’è una volontà assoluta che, proprio in quanto viene prima della ragione, è cieca pulsione.
Si ritiene comunemente che le azioni del corpo siano effetto della volontà. Per
Schopenhauer sono la volontà stessa
nella sua manifestazione oggettiva. Il corpo è la volontà divenuta
rappresentazione: la volontà è la cosa in sé di cui la rappresentazione è la
manifestazione. La volontà, egli scrive, “si
manifesta in ogni cieca forza naturale, si manifesta anche nella meditata
condotta dell’uomo. La differenza che separa la forza cieca dal procedere
riflessivo concerne il grado della manifestazione, non l’essenza della volontà
che si manifesta”[17].
Essa, in quanto noumeno, si sottrae
alle forme del fenomeno (la causalità, lo spazio, il tempo) che individuano e
moltiplicano gli esseri (principium
individuationis, lo chiama Schopenhauer). Non partecipando del principium individuationis, la volontà è unica in tutti gli esseri; non
essendo sottoposta alla causalità, è assolutamente libera, cieca nel suo agire.
È l’insieme delle forze, anzi, la
forza che agisce in natura sotto nomi diversi: gravità, magnetismo, elettricità,
stimoli ecc., tutte manifestazioni di un’unica forza, la volontà di vivere, che
opera ad ogni livello, nella materia inorganica, nel mondo vegetale, animale,
umano. Nei livelli più bassi è impulso cieco, nell’animale è impulso intuitivo,
nell’uomo è ragione che agisce spinta dalla motivazione, ma pur sempre schiava
della volontà.
Diviene pertanto chiaro
il senso del titolo – e del contenuto – del capolavoro di Schopenhauer: “la rappresentazione è il mascheramento
razionale della volontà”[18],
ciò che appare come razionale è invece volontaristico, l’ordine che scorgiamo
nel mondo è solo espressione della cieca volontà di vivere. Per Leibniz questo
è il migliore dei mondi possibili, per Schopenhauer è il peggiore, ai limiti
della stessa possibilità di esistenza. È il pessimismo
per cui il suo pensiero è ricordato nella storia della filosofia occidentale ed
è stato paragonato a quello di Leopardi. Per lui, “la [..] vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il
dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi”. “Nella vita borghese [la noia] è rappresentata dalla domenica, come il
bisogno [ovvero il dolore] dai sei
giorni di lavoro”[19].
Infatti, volere è desiderare un oggetto assente, e l’assenza è dolore. Ma se l’oggetto del desiderio è
conseguito, allora subentra la noia,
a causa dell’estinzione del desiderio. In ultima analisi, la vita è dolore, e
la volontà di vivere costituisce la causa del dolore.
Una possibile via di liberazione dalla condizione di
sofferenza è costituita dalla contemplazione
estetica, che è disinteressata rispetto al possesso dell’oggetto, e non
segue le regole della razionalità, è priva di scopo. In particolare,
l’espressione più alta dell’arte è secondo Schopenhauer la tragedia, nella quale si rivelano al meglio “il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della
perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e
degli innocenti”[20].
Ma la liberazione attraverso l’arte è momentanea e parziale, procura soltanto
un temporaneo sollievo, una forma di conforto.
Un altro rimedio consiste nel riconoscimento
dell’unità della volontà in tutti gli esseri, ovvero il riconoscimento
dell’altro come me stesso. È il tat tvam
asi, “Questo sei tu”, dell’India vedica. Il pensiero di essere separati
dagli altri, e dal dolore, è solo apparenza, inganno: è il velo di Maya, la dea dell’attività creatrice che nasconde la realtà
dell’assenza di separazione, l’illusorietà del principium individuationis. Di tale riconoscimento, la giustizia è il primo passo, il secondo è
costituito dalla compassione (nel suo
significato etimologico) che lacera il velo di Maya[21].
Questa forma di empatia è solo però un patire-insieme, che annulla ogni
interesse per ciò che è stato riconosciuto. La conoscenza dell’esse (la volontà irrazionale che è
fondamento della rappresentazione) non produce alcun inter-esse.
L’unica via d’uscita è
data dall’ascesi, della rinuncia alla vita. Non nel senso del
suicidio, che al contrario ne costituisce una affermazione, in quanto nega solo
la particolare condizione di vita in cui si trova chi lo commette. Ma nel senso
di rinuncia ai bisogni e alle soddisfazioni che la ragione presenta
ingannevolmente come motivazioni e finalità dell’agire. I motivi sono sostituiti dai quietivi,
la voluntas dalla noluntas.
La prima delle rinunce è
la perfetta castità, in quanto
rinuncia alla fondamentale manifestazione della volontà, l’impulso alla
generazione. Per Schopenhauer l’amore è sempre sotto la spinta degli interessi
alla riproduzione. La scelta sessuale non è mai individuale, ma sempre compiuta
nell’interesse della specie. Allo stesso scopo, liberarsi dalla volontà di
vita, tendono poi le altre forme della rinuncia: la povertà, il sacrificio,
ecc.
Al termine del percorso
l’uomo diviene libero. Nelle sue stesse parole, “quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero,
per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per
gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo
nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il
nulla.”[22].
L’Oriente di
Schopenhauer
Un passo interessante de Il mondo è quello che precede
immediatamente la citazione di cui sopra. Qui esorta a non temere il nulla, senza fare però come gli Indiani,
che lo ammantano “in miti e in parole
prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti”[23].
Queste parole
costituiscono una ulteriore prova del fatto che Schopenhauer conosceva bene le
tradizioni della spiritualità estremo orientale, soprattutto Induismo e
Buddhismo, con l’ovvio limite della quantità di testi a quel tempo pervenuti in
Europa e della qualità delle traduzioni. Schopenhauer li lesse, li studiò a
fondo e ne fu profondamente influenzato, come dimostrato da molti aspetti
specifici della sua filosofia e dal suo complesso, nonché dalla terminologia
utilizzata. Benché ciò sia di immediata evidenza, molti testi di storia della
filosofia vi accennano solo en passant,
o non ne parlano affatto[24].
Mentre molti intellettuali dell’epoca privilegiavano la cultura greco-romana e
quella giudaico-cristiana ed erano al più semplicemente incuriositi da ciò che
cominciava a sorgere ad Est, Schopenhauer ruppe decisamente con l’eurocentrismo
dominante, criticando quello che chiamava il “pregiudizio classico” e studiò seriamente i testi della
spiritualità dell’India che aveva a disposizione, fino ad identificare in essa
“il bacino originario cui attinsero sia
l’Egitto, Pitagora, Platone, il Neoplatonismo e tutta la mitologia greco-romana
sia il vero Cristianesimo neotestamentario”, visto come un riflesso della
luce dell’Asia caduto purtroppo sul suolo giudaico[25].
Auspicò addirittura – ed in parte fu buon profeta – un benefico influsso delle
culture indiane sull’Occidente, che avrebbe potuto produrre un rinascimento
europeo dello spirito orientale. Le grandi tradizioni del Brahmanesimo e del
Buddhismo avrebbero potuto consentire di “salvare
quel che di eternamente valido v’è nel Cristianesimo, riuscire a separare di
nuovo dal nucleo essenziale di verità che è in esso ciò che vi è stato
congiunto dall’esterno”[26],
cioè i dogmi e le mitologie ebraiche. Corretto appare quindi un giudizio
espresso su Schopenhauer da uno studioso, che lo definì “l’ultimo eretico del cristianesimo e il patriarca del buddhismo
occidentale”[27].
Il Buddha di Schopenhauer |
Anche dai dettagli della
sua biografia si evidenziano l’interesse e l’intimità di Schopenhauer con la
cultura indiana e cinese: la sua biblioteca orientale era ricchissima di testi[28],
e già è stata citata la similitudine da lui stesso proposta tra la sua giovinezza
e quella di Siddhartha Shakyamuni. Nel suo salotto faceva mostra di sé una
statua di bronzo del Buddha di cui era orgoglioso, e negli anni della maturità
si rivolgeva ai conoscenti dicendo “noi
Buddhisti”. Inoltre, il suo cane barbone si chiamava Atman, in sanscrito essenza, spirito vitale, anima individuale…
Al di là degli aneddoti
biografici, Schopenhauer non perdeva mai l’occasione “per tessere le lodi della filosofia e della religiosità indiane e per
sottolinear[ne] l’intima conformità
con il proprio pensiero”[29].
Egli stesso definì prima “paradossale”
e poi “prodigiosa” la corrispondenza
tra la sua filosofia e il Buddhismo, non solo nell’etica o in altri aspetti
specifici, ma nell’insieme delle loro dottrine[30].
Poco prima della morte scrisse: “Buddha,
Eckhart[31] e io insegniamo nella sostanza la stessa
cosa”[32].
Ed infatti le sue opere,
a partire dal 1814, sono sempre più ricche di riferimenti ai testi orientali –
dalle Upanishad al Tao Te Ching, dai Purana all’I Ching, dalla
Bhagavadgita ai Sutra
buddhisti – e soprattutto alla visione dell’uomo e del suo essere nel mondo che
essi propongono e che Schopenhauer afferma sostanzialmente di accogliere e di
fare sua.
In
sintesi, gli elementi-base della corrispondenza Schopenhauer/Oriente possono
essere così riassunti:
- la rappresentazione (il mondo come illusione, sogno) e il velo di Maya;
- la volontà e il Brahman o il tian dei Cinesi (il principio di
tutte le cose) – per cui la sua opera maggiore potrebbe intitolarsi Il mondo
come Brahman e Maya;
- l’ateismo (il non-teismo) e il pessimismo del Brahmanesimo e del Buddhismo
(definizioni peraltro molto discutibili);
- i miti della metempsicosi (reincarnazione) e della rinascita, collegati alla
sussistenza metafisica della volontà;
- samsara (esistenza ciclica condizionata) e nirvana (estinzione
della sofferenza) come affermazione e negazione della volontà;
- sul conseguente piano etico: il tat tvam asi, il non-io, e la
compassione.
Per
concludere, è però altrettanto doveroso individuare le rilevanti discordanze
tra le due concezioni, e quindi i limiti oggettivi e soggettivi (dottrinali e
personali) dell’orientalismo di Schopenhauer.
Per
citare solo un paio di pareri, secondo René Guénon Schopenhauer ha “ridicolamente
distorto il Buddismo riducendolo a una specie di moralismo ‘pessimista’ e [ha]
dato la giusta misura del suo livello intellettuale cercando ‘consolazioni’
nel Vedanta”[33].
Per Von Glasenapp, poi, “si può dire che l’interpretazione schopenhaueriana
della storia del pensiero metafisico indiano e le relative concezioni del
Vedanta e del Buddhismo siano oggi [1960] per molti aspetti superate e
forniscano un quadro dei fatti senza dubbio interessante ma tutt’altro che
fedele”[34].
Tra le molte possibili,
ecco alcune delle contestazioni:
- l’impossibilità di definire complessivamente ateistiche o anti-teistiche le
scuole filosofiche indiane, in molte delle quali è presente la figura del dio
personale (Ishvara, Krishna), Signore del cosmo;
- la
mancata distinzione tra Brahmanesimo e Buddhismo, in generale e all’interno
delle singole scuole (es. Buddhismo Hinayana
e Mahayana), e, conseguentemente
- l’appiattimento
delle filosofie indiane in una sorta di hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere; più nel dettaglio:
- l’errore dell’identificazione del Brahman
del Vedanta con la volontà, in quanto
il Brahman non ha nulla a che vedere
con la brama (nonostante l’intrigante
assonanza dei termini), non è pulsione cieca, e quindi fondamento della
sofferenza, bensì spirito puro, Sat-Cit-Ananda,
Essere-Coscienza-Beatutidine Supreme;
- la
totale incompatibilità tra la dottrina brahmanica dell’atman quale substrato durevole dell’apparenza e gli insegnamenti
buddhisti su anatman (non-sé), anitya (impermanenza), sunyata (vacuità), pratitya samutpada (co-produzione condizionata di tutti i fenomeni,
compreso l’io).
Un altro punto fondamentale,
l’accentuazione degli aspetti pessimistici delle concezioni indiane,
soprattutto del Buddhismo, ci porta direttamente ad una considerazione finale,
che riguarda complessivamente il pensiero e la biografia di Schopenhauer.
L’insegnamento del Buddha sulle Quattro
Nobili Verità inizia sì con le verità della sofferenza (duhkha-satya)
e della sua origine (samudaya-satya), ma prosegue con
l’esposizione della cessazione della
sofferenza stessa (nirodha-satya) e
della Via che porta alla cessazione (marga-satya), ovvero l’Ottuplice
Sentiero. Non può pertanto essere definito come una concezione pessimista. Esso
costituisce invece una visione del tutto realistica, non per un cieco atto di
fede nelle parole del Buddha o di altri Maestri, ma per la verificabilità su se
stessi della validità del Dharma.
Schopenhauer, come si è
visto all’inizio, ha paragonato la sua sofferenza a quella del Buddha, ne ha
studiato la vita e gli insegnamenti, ma si è come arrestato sulla soglia: ha
riconosciuto il proprio dolore, ha compreso come il dolore permei di sé
l’esistenza di tutti gli esseri e quali ne siano le cause. E infine ha
intravisto nelle parole del Buddha o delle Upanishad
la concreta possibilità di una via di liberazione, attraverso la messa in
pratica di tali parole – in particolare attraverso la meditazione –, ma di questo passo decisivo, del passaggio dalla
teoria alla prassi, non v’è traccia nelle sue opere, né soprattutto nella sua
vita reale, trascorsa alla ricerca di gratificazioni accademiche, di successi
editoriali, di denaro, di fama, di amori insoddisfacenti, pur continuando a
definirsi “buddhista” con i
conoscenti. E nel contempo crogiolandosi nel proprio dolore e creando così ulteriore
sofferenza, per sé e per gli altri. Forse, rivolgendo di tanto in tanto uno
sguardo afflitto alla sua amata statuina del Buddha, in un angolo del salotto. Del
perché, non è dato sapere.
Magari, vedere il
Sentiero e scegliere di non percorrerlo è stato un gesto coerente, la vittoria
finale di una volontà cieca ed irrazionale votata al dolore…
D’altra parte, il tempo
del fare filosofia, del vivere la
filosofia come concreto esercizio
spirituale che porta all’evoluzione di sé, all’autentica liberazione, era
ormai troppo lontano.
[1] Cit. in M. Onfray,
Buddha,
il cane e il flauto, in: http://letterainternazionale.it/testi-di-archivio/buddha-il-cane-e-il-flauto/
[2] Id. – Per patografia si intende la “ricostruzione delle patologie psichiche di
personaggi celebri fondate sulle informazioni biografiche e sull’esame delle
loro opere”, in: http://www.treccani.it/enciclopedia/patografia/
[3] Z. Zini, Schopenhauer,
Ed. Athena, pag. 5
[4] A. Schopenhauer, Il
mio Oriente, Ed. Adelphi, pag. 15
[5] In quell’anno
Danzica era ancora indipendente, in quanto solo nel 1793 fu incorporata nel
Regno di Prussia
[6] Cit. in U.
Galimberti, Schopenhauer, in: E. Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale,
Ed. Curcio, vol. 5 pag. 1210
[7] Di qui in poi
citata come Il mondo
[8] Cit. in
Galimberti, pag. 1196
[9] Cfr. Onfray, Buddha,
il cane…
[10] Titolo traducibile
con “cose aggiunte e cose tralasciate”. Si tratta di una raccolta di scritti
“minori” su diversi argomenti, di tono divulgativo, che espongono gli ultimi
sviluppi del suo pensiero
[11] Il termine indica
l’atto di sedersi ai piedi di un Maestro. Si tratta di un gruppo di testi sacri
dell’Induismo, redatti tra il IX e il VI secolo a.C., che forniscono la base
della scuola filosofico-religiosa del Vedanta,
che vi si ispira per quanto riguarda l’analisi della realtà dell’atman e del Brahman e che sfocia nella metafisica del monismo assoluto. Cfr. AA.VV.,
Dizionario
delle religioni orientali, Ed. Vallardi, pag. 340
[13] Galimberti, pag.
1200
[14] Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html
[16] Cfr. N. Abbagnano,
Storia
della filosofia, Ed. UTET, vol. III pag. 144 e segg.
[17] Cit. in Abbagnano,
pag. 146
[18] Galimberti, pag.
1205
[19] A. Schopenhauer, Il
mondo come volontà e rappresentazione, I, §57,
in: http://www.liberliber.it
[20] Cit. in
Galimberti, pag. 1208
[21] Cfr. Abbagnano,
pag. 151
[22] Schopenhauer, I,
§71
[23] Id.
[24] “I manuali che non riportano le nozioni
orientaleggianti di Schopenhauer, o che le riportano in modo troppo
approssimativo, restituiscono il suo pensiero in modo gravemente monco e
riduttivo; tali manuali[..] anche quando si limitano ad esporre nozioni che ritengono
"occidentali", in realtà ne deformano più o meno fortemente il
significato, proprio perché non tengono conto degli influssi orientali che
hanno agito in Schopenhauer”. P. Scroccaro, Schopenhauer e l’Oriente,
in: http://www.ariannaeditrice.it
[25] G. Gurisatti, Schopenhauer
e l’India, in: A. Schopenhauer, Il mio Oriente, pag. 191
[26] A. Lanza, Il
pensiero di Schopenhauer su buddhismo e cristianesimo, in Paramita n. 55/1995, pag. 33
[27] Cit. in Lanza,
pag. 34
[28] Cfr. l’Appendice a
pag. 171 in: Schopenhauer, Il mio Oriente
[29] Gurisatti, pag.
188
[30] Id., pag. 190
[31] Meister
Eckhart (Eckhart von Hochheim, 1260-1327) è stato uno dei più importanti
teologi, filosofi e mistici renani del Medioevo cristiano, e ha segnato profondamente
la storia del pensiero tedesco
[32] Gurisatti, pag.
190
[33] R. Guénon, Introduzione
generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, pag.
265
[34] Cit. in Gurisatti,
pag. 215