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mercoledì 14 dicembre 2016

Arthur Schopenhauer legge le Upanishad


Alcune domande possono legittimamente sorgere durante lo studio della storia della filosofia, quali: fino a che punto la biografia di un pensatore può influire sul suo sistema filosofico, e fino a che punto è corretto giudicarne il pensiero anche sulla base degli eventi della sua storia personale?
Ad esempio, si può studiare Giovanni Gentile prescindendo dalla sua totale fedeltà al fascismo, che gli costò la vita? La relazione adulterina che l’autore del Capitale intrattenne con Helene Demuth, proletaria governante di casa Marx, è solo gossip? E l’episodio torinese di Nietzsche che abbraccia un cavallo difendendolo dalle frustate del vetturino, ha a che fare con la sua filosofia o è solo un sintomo di follia? Innumerevoli sono gli esempi possibili.

Arthur Schopenhauer

Proprio secondo Nietzsche, un pensiero filosofico “è sempre la confessione autobiografica del pensatore che lo enuncia[1]. Per Schopenhauer, poi, “ogni biografia è una patografia[2]!
La vita e il pensiero di Arthur Schopenhauer sono in effetti un perfetto esempio di ciò di cui si sta parlando. Per lui si può dire, meglio che per ogni altro filosofo, che “la sua filosofia è in gran parte la sua stessa vita[3] (per ora accettiamo quest’ultima affermazione, ma con beneficio d’inventario).
Egli stesso scrisse nel 1832: “A diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto dal mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l’opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti[4].
Lo strazio di cui Schopenhauer parla è riferito alla morte del padre, un ricco commerciante di origini tedesche, che nel 1805 si era suicidato, lasciando il diciassettenne Arthur (era nato a Danzica[5] nel 1788) alle cure della giovane madre, una scrittrice di scarso talento interessata più alla letteratura che alla propria famiglia, la quale ben presto si staccò da Arthur e dalla figlia minore per trasferirsi a Weimar, dove fondò un salotto letterario frequentato anche da Goethe e dai fratelli Grimm.

Danzica
Dopo la morte dell’amato padre il giovanissimo Arthur iniziò a dedicarsi agli studi classici, prima a Gotha e poi a Weimar. Studiò anche molte materie scientifiche, ma soprattutto filosofia, in particolare Platone e Kant, che rimasero per lui punti di riferimento fondamentali. Si laureò con una tesi in filosofia (Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente), della quale la madre disse che le sembrava trattarsi di un testo per farmacisti. Al che il figlio rispose con una profezia che descrive molto bene il loro rapporto: “Sarà ancora letta quando dei tuoi romanzetti non esisterà neppure una copia nei solai[6]. Dopo di allora non si rividero mai più.
Fino al 1851, anno in cui il suo lavoro cominciò ad essere apprezzato, non solo in Germania ma anche in Italia, dove viaggiò a lungo, e in Inghilterra, la vita di Schopenhauer fu un susseguirsi di problemi economici (la banca dove aveva tutti i suoi depositi fallì), di insuccessi e delusioni nell’ambito culturale e lavorativo, di difficoltà nei rapporti umani.
Alla fine del 1818 pubblicò la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione[7], ma fu un tale fallimento che quasi tutte le copie finirono al macero.
Ebbe profonde divergenze con Goethe, e poi con Hegel, suo imbattibile competitore nelle docenze universitarie. Secondo Schopenhauer, quest’ultimo era “spacciato [..] come un grande filosofo”, ma in realtà era “un ciarlatano piatto, privo di spirito, nauseante, disgustoso, ignorante”, la cui influenza ha prodotto “la corruzione intellettuale di tutta una generazione erudita [8].
Una relazione sentimentale con un’italiana finì nel nulla, poi dal 1820 al 1826 ebbe una burrascosa liaison con una corista dell’opera di Berlino, che in quegli anni gli diede un figlio, di cui però non era il padre. Si dice anche che, essendo in attesa di un figlio dalla domestica, lasciò alla propria sorella il compito di risolvere il problema (il bambino poi nacque morto)[9].
Durante una lite con una donna che faceva rumore nell’anticamera, la spinse e le procurò delle lesioni. Ne nacque un procedimento civile, e Schopenhauer le dovette pagare un vitalizio fino alla morte.
Inoltre, a causa di una lunga malattia rimase per un anno rinchiuso in una stanza, e ne uscì sordo da un orecchio.
Intanto aveva pubblicato diverse opere filosofiche, che però non riscuotevano il riconoscimento sperato nel mondo accademico e nell’editoria. Fino, come accennato, alla svolta positiva del 1851, quando uscirono i due volumi dei Parerga e paralipomena[10], che finalmente gli valsero un notevole successo editoriale e schiere di discepoli. Il suo capolavoro di trent’anni prima, Il mondo, fu ampiamente rivalutato e ripubblicato più volte, e la critica si accorse finalmente di Schopenhauer, compreso Francesco De Sanctis, che nel 1858 scrisse un saggio comparandone il pensiero con quello di Leopardi.
Ma pochi anni dopo, nel 1860, morì per una improvvisa malattia polmonare.

Il mondo come volontà e rappresentazione

Alcuni temi sommariamente accennati nella citazione del 1832 stanno a fondamento della sua opera del 1818, Il mondo: la sofferenza della vita, che si impone come verità al di sopra della dogmatica giudaico-cristiana, ormai divenuta una inaccettabile mitologia; l’impotenza dell’uomo, e ancor più del filosofo, sul mondo; l’impossibilità della coesistenza della vita e della verità; e soprattutto, per quanto qui ci interessa, la costante presenza in Schopenhauer del pensiero orientale, in particolare gli insegnamenti delle Upanishad [11] e dei testi buddhisti.
Schopenhauer riprende da Platone il tema dell’interiorità dell’anima come “sede” della verità: è necessario rivolgersi a se stessi per avvicinarsi alla verità, la quale risulta però separata dal mondo e dalla felicità. Una vita ospitata dalla verità è possibile, ma senza felicità. E la felicità è possibile, ma senza vita, in un altro mondo.
Per Schopenhauer il mondo è quindi rappresentazione: il mondo è la mia rappresentazione, questa è l’affermazione perentoria con cui si apre la sua opera; l’uomo sa “di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede il sole e una mano che sente il contatto d’una terra[12]. Conoscere è un evento dell’anima, che “crea il mondo come noi lo conosciamo, e il mondo è il suo sogno[13]. Come nel capolavoro di Caldéron de la Barca, La vida es sueño (1653), nel quale è inconsapevolmente riproposta la storia della vita del principe Siddhartha, il futuro Buddha…[14]
Schopenhauer è molto netto: “tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola: rappresentazione[15]. Da un lato il soggetto, quindi, che non può essere oggetto di conoscenza, al di fuori dello spazio e del tempo, indiviso in ogni essere capace di avere rappresentazioni. Dall’altro l’oggetto, condizionato dalle forme del tempo e dello spazio che ne producono la molteplicità.
La rappresentazione è ordinata dalle connessioni instaurate dall’intelletto: il tempo, lo spazio, e la causalità, che costituisce la realtà della materia, realtà che è azione dell’oggetto sugli altri oggetti. La conoscenza è fondamentalmente intuizione dei rapporti causali tra gli oggetti, mentre la ragione è discorsiva ed ha a che fare con concetti astratti.
La realtà non si riduce interamente alla rappresentazione, che è soltanto fenomeno. Il mondo ha un noumeno, un’essenza, una cosa in sé, costituito dalla volontà[16].  Alle spalle dell’intelletto e del mondo che si rappresenta c’è una volontà assoluta che, proprio in quanto viene prima della ragione, è cieca pulsione. Si ritiene comunemente che le azioni del corpo siano effetto della volontà. Per Schopenhauer sono la volontà stessa nella sua manifestazione oggettiva. Il corpo è la volontà divenuta rappresentazione: la volontà è la cosa in sé di cui la rappresentazione è la manifestazione. La volontà, egli scrive, “si manifesta in ogni cieca forza naturale, si manifesta anche nella meditata condotta dell’uomo. La differenza che separa la forza cieca dal procedere riflessivo concerne il grado della manifestazione, non l’essenza della volontà che si manifesta[17]. Essa, in quanto noumeno, si sottrae alle forme del fenomeno (la causalità, lo spazio, il tempo) che individuano e moltiplicano gli esseri (principium individuationis, lo chiama Schopenhauer). Non partecipando del principium individuationis, la volontà è unica in tutti gli esseri; non essendo sottoposta alla causalità, è assolutamente libera, cieca nel suo agire. È l’insieme delle forze, anzi, la forza che agisce in natura sotto nomi diversi: gravità, magnetismo, elettricità, stimoli ecc., tutte manifestazioni di un’unica forza, la volontà di vivere, che opera ad ogni livello, nella materia inorganica, nel mondo vegetale, animale, umano. Nei livelli più bassi è impulso cieco, nell’animale è impulso intuitivo, nell’uomo è ragione che agisce spinta dalla motivazione, ma pur sempre schiava della volontà.
Diviene pertanto chiaro il senso del titolo – e del contenuto – del capolavoro di Schopenhauer: “la rappresentazione è il mascheramento razionale della volontà[18], ciò che appare come razionale è invece volontaristico, l’ordine che scorgiamo nel mondo è solo espressione della cieca volontà di vivere. Per Leibniz questo è il migliore dei mondi possibili, per Schopenhauer è il peggiore, ai limiti della stessa possibilità di esistenza. È il pessimismo per cui il suo pensiero è ricordato nella storia della filosofia occidentale ed è stato paragonato a quello di Leopardi. Per lui, “la [..] vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi”. “Nella vita borghese [la noia] è rappresentata dalla domenica, come il bisogno [ovvero il dolore] dai sei giorni di lavoro[19]. Infatti, volere è desiderare un oggetto assente, e l’assenza è dolore. Ma se l’oggetto del desiderio è conseguito, allora subentra la noia, a causa dell’estinzione del desiderio. In ultima analisi, la vita è dolore, e la volontà di vivere costituisce la causa del dolore.

Una possibile via di liberazione dalla condizione di sofferenza è costituita dalla contemplazione estetica, che è disinteressata rispetto al possesso dell’oggetto, e non segue le regole della razionalità, è priva di scopo. In particolare, l’espressione più alta dell’arte è secondo Schopenhauer la tragedia, nella quale si rivelano al meglio “il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti[20]. Ma la liberazione attraverso l’arte è momentanea e parziale, procura soltanto un temporaneo sollievo, una forma di conforto.
 Un altro rimedio consiste nel riconoscimento dell’unità della volontà in tutti gli esseri, ovvero il riconoscimento dell’altro come me stesso. È il tat tvam asi, “Questo sei tu”, dell’India vedica. Il pensiero di essere separati dagli altri, e dal dolore, è solo apparenza, inganno: è il velo di Maya, la dea dell’attività creatrice che nasconde la realtà dell’assenza di separazione, l’illusorietà del principium individuationis. Di tale riconoscimento, la giustizia è il primo passo, il secondo è costituito dalla compassione (nel suo significato etimologico) che lacera il velo di Maya[21]. Questa forma di empatia è solo però un patire-insieme, che annulla ogni interesse per ciò che è stato riconosciuto. La conoscenza dell’esse (la volontà irrazionale che è fondamento della rappresentazione) non produce alcun inter-esse.
L’unica via d’uscita è data dall’ascesi, della rinuncia alla vita. Non nel senso del suicidio, che al contrario ne costituisce una affermazione, in quanto nega solo la particolare condizione di vita in cui si trova chi lo commette. Ma nel senso di rinuncia ai bisogni e alle soddisfazioni che la ragione presenta ingannevolmente come motivazioni e finalità dell’agire. I motivi sono sostituiti dai quietivi, la voluntas dalla noluntas.
La prima delle rinunce è la perfetta castità, in quanto rinuncia alla fondamentale manifestazione della volontà, l’impulso alla generazione. Per Schopenhauer l’amore è sempre sotto la spinta degli interessi alla riproduzione. La scelta sessuale non è mai individuale, ma sempre compiuta nell’interesse della specie. Allo stesso scopo, liberarsi dalla volontà di vita, tendono poi le altre forme della rinuncia: la povertà, il sacrificio, ecc.
Al termine del percorso l’uomo diviene libero. Nelle sue stesse parole, “quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.[22].

L’Oriente di Schopenhauer

Un passo interessante de Il mondo è quello che precede immediatamente la citazione di cui sopra. Qui esorta a non temere il nulla, senza fare però come gli Indiani, che lo ammantano “in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti[23].
Queste parole costituiscono una ulteriore prova del fatto che Schopenhauer conosceva bene le tradizioni della spiritualità estremo orientale, soprattutto Induismo e Buddhismo, con l’ovvio limite della quantità di testi a quel tempo pervenuti in Europa e della qualità delle traduzioni. Schopenhauer li lesse, li studiò a fondo e ne fu profondamente influenzato, come dimostrato da molti aspetti specifici della sua filosofia e dal suo complesso, nonché dalla terminologia utilizzata. Benché ciò sia di immediata evidenza, molti testi di storia della filosofia vi accennano solo en passant, o non ne parlano affatto[24]. Mentre molti intellettuali dell’epoca privilegiavano la cultura greco-romana e quella giudaico-cristiana ed erano al più semplicemente incuriositi da ciò che cominciava a sorgere ad Est, Schopenhauer ruppe decisamente con l’eurocentrismo dominante, criticando quello che chiamava il “pregiudizio classico” e studiò seriamente i testi della spiritualità dell’India che aveva a disposizione, fino ad identificare in essa “il bacino originario cui attinsero sia l’Egitto, Pitagora, Platone, il Neoplatonismo e tutta la mitologia greco-romana sia il vero Cristianesimo neotestamentario”, visto come un riflesso della luce dell’Asia caduto purtroppo sul suolo giudaico[25]. Auspicò addirittura – ed in parte fu buon profeta – un benefico influsso delle culture indiane sull’Occidente, che avrebbe potuto produrre un rinascimento europeo dello spirito orientale. Le grandi tradizioni del Brahmanesimo e del Buddhismo avrebbero potuto consentire di “salvare quel che di eternamente valido v’è nel Cristianesimo, riuscire a separare di nuovo dal nucleo essenziale di verità che è in esso ciò che vi è stato congiunto dall’esterno[26], cioè i dogmi e le mitologie ebraiche. Corretto appare quindi un giudizio espresso su Schopenhauer da uno studioso, che lo definì “l’ultimo eretico del cristianesimo e il patriarca del buddhismo occidentale[27].

Il Buddha di Schopenhauer
Anche dai dettagli della sua biografia si evidenziano l’interesse e l’intimità di Schopenhauer con la cultura indiana e cinese: la sua biblioteca orientale era ricchissima di testi[28], e già è stata citata la similitudine da lui stesso proposta tra la sua giovinezza e quella di Siddhartha Shakyamuni. Nel suo salotto faceva mostra di sé una statua di bronzo del Buddha di cui era orgoglioso, e negli anni della maturità si rivolgeva ai conoscenti dicendo “noi Buddhisti”. Inoltre, il suo cane barbone si chiamava Atman, in sanscrito essenza, spirito vitale, anima individuale…
Al di là degli aneddoti biografici, Schopenhauer non perdeva mai l’occasione “per tessere le lodi della filosofia e della religiosità indiane e per sottolinear[ne] l’intima conformità con il proprio pensiero[29]. Egli stesso definì prima “paradossale” e poi “prodigiosa” la corrispondenza tra la sua filosofia e il Buddhismo, non solo nell’etica o in altri aspetti specifici, ma nell’insieme delle loro dottrine[30]. Poco prima della morte scrisse: “Buddha, Eckhart[31] e io insegniamo nella sostanza la stessa cosa[32].
Ed infatti le sue opere, a partire dal 1814, sono sempre più ricche di riferimenti ai testi orientali – dalle Upanishad al Tao Te Ching, dai Purana all’I Ching, dalla Bhagavadgita ai Sutra buddhisti – e soprattutto alla visione dell’uomo e del suo essere nel mondo che essi propongono e che Schopenhauer afferma sostanzialmente di accogliere e di fare sua.
In sintesi, gli elementi-base della corrispondenza Schopenhauer/Oriente possono essere così riassunti:
- la rappresentazione (il mondo come illusione, sogno) e il velo di Maya;
- la volontà e il Brahman o il tian dei Cinesi (il principio di tutte le cose) – per cui la sua opera maggiore potrebbe intitolarsi Il mondo come Brahman e Maya;
- l’ateismo (il non-teismo) e il pessimismo del Brahmanesimo e del Buddhismo (definizioni peraltro molto discutibili);
- i miti della metempsicosi (reincarnazione) e della rinascita, collegati alla sussistenza metafisica della volontà;
- samsara (esistenza ciclica condizionata) e nirvana (estinzione della sofferenza) come affermazione e negazione della volontà;
- sul conseguente piano etico: il tat tvam asi, il non-io, e la compassione.

Per concludere, è però altrettanto doveroso individuare le rilevanti discordanze tra le due concezioni, e quindi i limiti oggettivi e soggettivi (dottrinali e personali) dell’orientalismo di Schopenhauer.
Per citare solo un paio di pareri, secondo René Guénon Schopenhauer ha “ridicolamente distorto il Buddismo riducendolo a una specie di moralismo ‘pessimista’ e [ha] dato la giusta misura del suo livello intellettuale cercando ‘consolazioni’ nel Vedanta[33]. Per Von Glasenapp, poi, “si può dire che l’interpretazione schopenhaueriana della storia del pensiero metafisico indiano e le relative concezioni del Vedanta e del Buddhismo siano oggi [1960] per molti aspetti superate e forniscano un quadro dei fatti senza dubbio interessante ma tutt’altro che fedele[34].
Tra le molte possibili, ecco alcune delle contestazioni:
- l’impossibilità di definire complessivamente ateistiche o anti-teistiche le scuole filosofiche indiane, in molte delle quali è presente la figura del dio personale (Ishvara, Krishna), Signore del cosmo;
- la mancata distinzione tra Brahmanesimo e Buddhismo, in generale e all’interno delle singole scuole (es. Buddhismo Hinayana e Mahayana), e, conseguentemente
- l’appiattimento delle filosofie indiane in una sorta di hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere; più nel dettaglio:
- l’errore dell’identificazione del Brahman del Vedanta con la volontà, in quanto il Brahman non ha nulla a che vedere con la brama (nonostante l’intrigante assonanza dei termini), non è pulsione cieca, e quindi fondamento della sofferenza, bensì spirito puro, Sat-Cit-Ananda, Essere-Coscienza-Beatutidine Supreme;
- la totale incompatibilità tra la dottrina brahmanica dell’atman quale substrato durevole dell’apparenza e gli insegnamenti buddhisti su anatman (non-sé), anitya (impermanenza), sunyata (vacuità), pratitya samutpada (co-produzione condizionata di tutti i fenomeni, compreso l’io).

Un altro punto fondamentale, l’accentuazione degli aspetti pessimistici delle concezioni indiane, soprattutto del Buddhismo, ci porta direttamente ad una considerazione finale, che riguarda complessivamente il pensiero e la biografia di Schopenhauer. L’insegnamento del Buddha sulle Quattro Nobili Verità inizia sì con le verità della sofferenza (duhkha-satya) e della sua origine (samudaya-satya), ma prosegue con l’esposizione della cessazione della sofferenza stessa (nirodha-satya) e della Via che porta alla cessazione (marga-satya), ovvero l’Ottuplice Sentiero. Non può pertanto essere definito come una concezione pessimista. Esso costituisce invece una visione del tutto realistica, non per un cieco atto di fede nelle parole del Buddha o di altri Maestri, ma per la verificabilità su se stessi della validità del Dharma.
Schopenhauer, come si è visto all’inizio, ha paragonato la sua sofferenza a quella del Buddha, ne ha studiato la vita e gli insegnamenti, ma si è come arrestato sulla soglia: ha riconosciuto il proprio dolore, ha compreso come il dolore permei di sé l’esistenza di tutti gli esseri e quali ne siano le cause. E infine ha intravisto nelle parole del Buddha o delle Upanishad la concreta possibilità di una via di liberazione, attraverso la messa in pratica di tali parole – in particolare attraverso la meditazione –, ma di questo passo decisivo, del passaggio dalla teoria alla prassi, non v’è traccia nelle sue opere, né soprattutto nella sua vita reale, trascorsa alla ricerca di gratificazioni accademiche, di successi editoriali, di denaro, di fama, di amori insoddisfacenti, pur continuando a definirsi “buddhista” con i conoscenti. E nel contempo crogiolandosi nel proprio dolore e creando così ulteriore sofferenza, per sé e per gli altri. Forse, rivolgendo di tanto in tanto uno sguardo afflitto alla sua amata statuina del Buddha, in un angolo del salotto. Del perché, non è dato sapere.
Magari, vedere il Sentiero e scegliere di non percorrerlo è stato un gesto coerente, la vittoria finale di una volontà cieca ed irrazionale votata al dolore…
D’altra parte, il tempo del fare filosofia, del vivere la filosofia come concreto esercizio spirituale che porta all’evoluzione di sé, all’autentica liberazione, era ormai troppo lontano.





[1] Cit. in M. Onfray, Buddha, il cane e il flauto, in: http://letterainternazionale.it/testi-di-archivio/buddha-il-cane-e-il-flauto/
[2] Id. – Per patografia si intende la “ricostruzione delle patologie psichiche di personaggi celebri fondate sulle informazioni biografiche e sull’esame delle loro opere”, in: http://www.treccani.it/enciclopedia/patografia/
[3] Z. Zini, Schopenhauer, Ed. Athena, pag. 5
[4] A. Schopenhauer, Il mio Oriente, Ed. Adelphi, pag. 15
[5] In quell’anno Danzica era ancora indipendente, in quanto solo nel 1793 fu incorporata nel Regno di Prussia
[6] Cit. in U. Galimberti, Schopenhauer, in: E. Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. 5 pag. 1210
[7] Di qui in poi citata come Il mondo
[8] Cit. in Galimberti, pag. 1196
[9] Cfr. Onfray, Buddha, il cane…
[10] Titolo traducibile con “cose aggiunte e cose tralasciate”. Si tratta di una raccolta di scritti “minori” su diversi argomenti, di tono divulgativo, che espongono gli ultimi sviluppi del suo pensiero
[11] Il termine indica l’atto di sedersi ai piedi di un Maestro. Si tratta di un gruppo di testi sacri dell’Induismo, redatti tra il IX e il VI secolo a.C., che forniscono la base della scuola filosofico-religiosa del Vedanta, che vi si ispira per quanto riguarda l’analisi della realtà dell’atman e del Brahman e che sfocia nella metafisica del monismo assoluto. Cfr. AA.VV., Dizionario delle religioni orientali, Ed. Vallardi, pag. 340
[12] Cit. in Galimberti, pag. 1200
[13] Galimberti, pag. 1200
[14] Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html
[15] Cit. in Galimberti, pag. 1202
[16] Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET, vol. III pag. 144 e segg.
[17] Cit. in Abbagnano, pag. 146
[18] Galimberti, pag. 1205
[19] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, §57, in: http://www.liberliber.it
[20] Cit. in Galimberti, pag. 1208
[21] Cfr. Abbagnano, pag. 151
[22] Schopenhauer, I, §71
[23] Id.
[24]I manuali che non riportano le nozioni orientaleggianti di Schopenhauer, o che le riportano in modo troppo approssimativo, restituiscono il suo pensiero in modo gravemente monco e riduttivo; tali manuali[..] anche quando si limitano ad esporre nozioni che ritengono "occidentali", in realtà ne deformano più o meno fortemente il significato, proprio perché non tengono conto degli influssi orientali che hanno agito in Schopenhauer”. P. Scroccaro, Schopenhauer e l’Oriente, in: http://www.ariannaeditrice.it
[25] G. Gurisatti, Schopenhauer e l’India, in: A. Schopenhauer, Il mio Oriente, pag. 191
[26] A. Lanza, Il pensiero di Schopenhauer su buddhismo e cristianesimo, in Paramita n. 55/1995, pag. 33
[27] Cit. in Lanza, pag. 34
[28] Cfr. l’Appendice a pag. 171 in: Schopenhauer, Il mio Oriente
[29] Gurisatti, pag. 188
[30] Id., pag. 190
[31] Meister Eckhart (Eckhart von Hochheim, 1260-1327) è stato uno dei più importanti teologi, filosofi e mistici renani del Medioevo cristiano, e ha segnato profondamente la storia del pensiero tedesco
[32] Gurisatti, pag. 190
[33] R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, pag. 265
[34] Cit. in Gurisatti, pag. 215

mercoledì 5 febbraio 2014

I 12 anelli: 11 - La nascita

XI – Jati, la nascita

Undicesimo anello del pratitya samutpada è jati, la nascita, raffigurata con l’immagine di una donna che sta partorendo.
Condizionata dal processo del divenire ha origine la nascita”.
In questo contesto il termine jati indica più precisamente la ri-nascita, essendo jati il primo dei due fattori prodotti (l’altro è vecchiaia-e-morte), laddove brama, attaccamento e divenire sono i fattori di produzione.
Si legge nei Sutra: “Quello che di questo e quell’essere, in questo e in quel gruppo, è nascita, origine, riproduzione, comparsa dei fattori, acquisizione delle modalità sensoriali, viene definito nascita”.
Jati, la nascita

In un altro passo viene detto che “tutto è soggetto alla nascita”, e quel “tutto” viene poi definito come “occhio, forme, coscienza oculare, stimolazione oculare, la sensazione piacevole, spiacevole o neutra che insorge a causa della stimolazione oculare”, per proseguire poi con gli altri sensi, compreso il “senso interno”, mana.
Sono, si noti, gli elementi della prima parte del pratitya samutpada, tutti relativi alla percezione. Quindi tutto l’universo, in quanto percepito, è soggetto alla nascita (e a vecchiaia-e-morte).
Ancora una volta, si evince che per il buddhismo “non c’è alcun mondo esistente di per sé; il mondo è un processo dinamico, che viene costantemente prodotto e deliberatamente costruito dai nostri sensi, dai nostri pensieri e dai nostri desideri (..). Questo non vuol dire che noi e il mondo siamo irreali o una mera illusione. Gli oggetti ci sono, ma le percezioni che di essi noi abbiamo sono loro parti essenziali e costituenti (Johansson).
Si legge nei testi: “è proprio in noi, in questo nostro corpo alto due braccia, con le sue percezioni e la sua coscienza, che c’è il mondo, il sorgere del mondo, la fine del mondo e il sentiero che conduce alla fine del mondo”.
Quindi, noi siamo i costruttori del mondo e pertanto possiamo anche distruggerlo: distruggere il mondo, ovvero esserne indipendenti, è raggiungere il Nirvana, la liberazione, attraverso la comprensione della reale natura delle cose e di noi stessi.

Jati, la nascita, è citata quale primo elemento nell’elenco di ciò che il Buddha definisce come sofferenza nella Prima Nobile Verità: “La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza; tristezza, lamenti, dolore fisico e mentale, angoscia è sofferenza; la separazione da ciò che piace è sofferenza, non poter avere ciò che si desidera è sofferenza”.
Siamo soggetti alla sofferenza in quanto siamo nati, e siamo nati in quanto condizionati da avidya, l’ignoranza che ci impedisce di vedere le cose come sono e quindi ci fa agire spinti dalla brama e dall’attaccamento.
Questa nostra nascita è il frutto del desiderio e dell’attaccamento delle vite precedenti. Il desiderio e gli attaccamenti di questa vita produrranno una futura rinascita, determinandone le condizioni.
È detto: “Gli esseri sono eredi delle loro azioni, le loro azioni sono l’utero da cui sorgono, le azioni sono i genitori, le azioni sono gli arbitri”.

Vengono dunque esclusi due punti di vista opposti tra loro:
-          quello per cui c’è una Entità suprema che ordina l’universo, decidendo quali debbano essere le differenze tra gli esseri e
-          quello secondo il quale tutto nell’universo è caos o casualità.
L’uomo nella visione buddhista è totalmente responsabile della propria vita presente, lo è stato per quelle passate, lo è e lo sarà per quelle future.
Tutto è dovuto a cause e condizioni, e le innegabili differenze tra gli uomini non possono pertanto sussistere senza cause e condizioni, e tale causa non può che essere il processo karmico.
Il tema delle differenze tra gli esseri, che “il karma divide... in superiori e inferiori”, è oggetto di un Sutra, il Culakammavibhanga Sutta (il Sutra delle determinazione dell’azione), che così recita.

Questo ho sentito.
Una volta il Sublime dimorava presso Savatthi, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anathapindiko.
Là, Subho, un giovane brahmano, figlio di Todeyyo, si recò dal Sublime, scambiò i consueti cerimoniosi saluti, si sedette accanto e chiese: “Quale è la causa, la ragione per cui anche tra coloro che sono divenuti uomini ci sono inferiorità e superiorità? Infatti si vedono uomini che muoiono giovani e altri longevi; alcuni molto malati e altri sani; brutti e belli; poveri e ricchi; ignobili e nobili; stupidi e intelligenti. Perché?”
“Eredi, proprietari, figli, dipendenti, generati dall'azione sono gli esseri, giovane. L'azione determina gli esseri in quanto a inferiorità e superiorità”.
“Io non intendo interamente il senso di ciò che è stato concisamente detto dal signore Gotamo, senza spiegarne il senso. Sarebbe bene che il signore Gotamo mi esponesse la dottrina in modo che io comprenda”.
“Allora, giovane, ascolta con attenzione. Ecco, una donna o un uomo è distruttore di vita, crudele e sanguinario, dedito all'uccisione e alla strage, spietato per gli esseri viventi. Egli per questo agire, dopo la morte riesce in basso, all'inferno. Ma se non va all'inferno e diviene uomo, è di corta vita. Ecco la ragione.
Però se una donna o un uomo si astiene dall'uccidere e, deposte mazza e spada, vive sensibile, pietoso, amichevole e compassionevole verso tutti gli esseri viventi, allora, dopo la morte si trova in un mondo celeste. Ma se non si trova lassù e diviene uomo, vive una lunga vita.
Ecco che una donna o un uomo è seviziatore degli esseri con le mani, la mazza o la spada. Per tale agire, alla sua morte va all'inferno. Ma se non va là e rinasce uomo, sarà molto malato.
Ecco però che una donna o un uomo non è seviziatore degli esseri. Per tale azione, dopo la morte, si trova in un mondo celeste. Ma se non si trova lassù e diviene uomo, è più sano.
Ecco una donna o un uomo iroso, uno che si arrabbia molto: per poco che gli sia detto, insorge, si adira, va in collera, contrasta, manifesta ira, astio e furore. Per tale agire, alla morte, si trova all'inferno. Ma se non va lì e rinasce uomo, diventa brutto.
Ecco però chi non s'arrabbia: pur provocato seriamente, non insorge, non va in collera. Per tale agire si trova in un mondo celeste. Ma se non va lì e rinasce uomo, si ritrova grazioso.
Ecco chi è invidioso: se altri ottengono guadagno, onore, rispetto, rinomanza, riverenza e venerazione, accumula invidia. Alla morte, va all'inferno; oppure, se rinasce uomo, diventa povero.
Se non è invidioso va in un mondo celeste; oppure, se rinasce uomo diviene un gran possidente.
Ecco che c'è chi non dà ad asceti o sacerdoti cibo, bevanda, veste, veicolo, fiori, odori, profumi, letto, tetto e luce. Quello va all'inferno; oppure, se rinasce uomo diventa poco benestante.
Se invece dà tutte quelle cose agli asceti o ai sacerdoti va in un mondo celeste; oppure, diventa un uomo molto ricco.
Una donna o un uomo è orgoglioso e superbo: non saluta chi è da salutare, non si alza davanti a chi bisogna alzarsi, non offre il posto, non cede il passo, non rispetta, non riverisce, non venera chi se lo merita. Alla morte va all'inferno; oppure, rinasce in una famiglia ignobile.
Chi invece non è orgoglioso e superbo e si comporta correttamente, si trova in un mondo celeste; oppure, nasce in una nobile famiglia.
Ecco una donna o un uomo che, recandosi da un asceta o sacerdote, non gli chiede: 'Cos'è salutare e cosa non lo è? Che è giusto e che non lo è? Cos'è da seguire e cosa non lo è? Che cosa fatta da me, mi riesce a lungo d'infausto dolore; e cosa, invece, mi riesce a lungo di fausto piacere?' Non avendolo fatto, finisce all'inferno; oppure, rinasce stupido.
Chi invece fa quelle domande va in un mondo celeste; oppure, rinasce intelligente.
Ecco chiarito, giovane, come eredi dell'azione sono gli esseri."
Dopo questo discorso il giovane Subho, figlio di Todeyyo, disse al Sublime: “Eccellente, Gotamo, eccellente! Così come se si raddrizzasse ciò che era rovesciato, o si scoprisse ciò che è nascosto, o si mostrasse la via a chi s'è perso, o si portasse luce nell'oscurità: 'chi ha occhi vedrà le cose'; così appunto è stata dal signore Gotamo in vari modi esposta la dottrina. E così io prendo rifugio presso il signore Gotamo, presso la Dottrina e presso l'Ordine dei mendicanti. Quale seguace voglia il signore Gotamo considerarmi da oggi per la vita fedele”.

Rinascita… di che cosa?

Si è più volte affermato che le scuole buddhiste sono concordi nel confutare l’esistenza di un sé individuale (che riguarda gli esseri senzienti) e, per quanto concerne la tradizione Mahayana, anche di un sé fenomenico (cioè relativo ai fenomeni percepiti dagli esseri).
In particolare, per la scuola Madhyamika Prasangika (di tradizione Mahayana), il sé è una pura convenzione, una semplice designazione nominale apposta alla base dei cinque aggregati.
Come noto, i cinque aggregati (skanda = mucchio, cumulo) sono i cinque insiemi (ogni aggregato è a sua volta un insieme) nei quali vengono inclusi tutti i fenomeni fisici e mentali:
-          le forme, del corpo e degli altri fenomeni fisici
-          le sensazioni, le esperienze sensibili piacevoli, spiacevoli e neutre
-          le percezioni, che riconoscono e identificano ciò di cui si fa esperienza
-          le formazioni karmiche o della volizione, che provengono dal karma passato e spingono alla “costruzione” delle condizioni karmiche attuali
-          la coscienza, che riunisce le informazioni degli altri insiemi, è “colui che conosce”, e si pone nella prospettiva dualistica di soggetto/oggetto.
A partire dall’insieme degli aggregati viene erroneamente dedotta l’idea di un “io” permanente, immutabile, con il quale ci si identifica. In realtà, l’io non è il corpo, che cambia costantemente, né le sensazioni, le percezioni o le volizioni, estremamente varie e mutevoli. Né la coscienza, anch’essa composta di istanti di coscienza successivi.
Quindi, come ha detto il maestro theravada Buddhaghosa (V sec, d.C.): “Solo la sofferenza esiste, ma non si trova nessun sofferente, le azioni esistono, ma non si trova nessun agente”.

A questo punto non può non sorgere la legittima domanda: se secondo la dottrina dell’anatta (in sanscrito anatman, non-io) al di là del mero fluire condizionato dei fenomeni non c’è alcun ego, che cosa è che rinasce? Ovvero: quel è il supporto del karma e cosa c’è alla base della continuità tra l’autore dell’atto e colui che ne sperimenta l’effetto karmico?
A questa domanda sono state date tante risposte quante sono le scuole che sono nate nella storia del buddhismo e nella sua diffusione nel mondo. E tutte più o meno insoddisfacenti, se si guarda alla tradizione buddhista come ad un insieme di teorie filosofiche o – ancor peggio – di dogmi religiosi.
Una buona sintesi la si trova nelle pagine di un testo del monaco cingalese Walpola Rahula (1907/1997), “L’insegnamento del Buddha”, nel quale scriveva:

Se non c’è un’entità permanente, immutabile, una sostanza come quella di un Sé o di un’anima (atman), che cosa è quello che può riesistere o rinascere dopo la morte? Prima di parlare della vita dopo la morte, vediamo che cosa è la vita presente e come mantiene una continuità. Quella che chiamiamo vita (..) è la combinazione dei cinque aggregati, una combinazione di forze fisiche e mentali. Queste sono in continuo cambiamento, non rimangono uguali neanche per due istanti consecutivi. Ogni momento nascono e muoiono (..). Di conseguenza anche ora, in questa vita presente, ogni momento noi nasciamo e moriamo, ma, nonostante questo, continuiamo a vivere. Se possiamo comprendere che in questa vita possiamo continuare a esistere senza una sostanza permanente e immutabile come un Sé o un’anima, perché non dovremmo comprendere che quelle stesse forze continuano a esistere, senza un Sé o un’anima per animarle, una volta che il corpo smette di funzionare?
Walpola Rahula
Quando questo corpo fisico non è più in grado di funzionare, le energie non muoiono con lui, ma continuano a esistere prendendo un’altra forma, che noi chiamiamo una nuova vita. (..)
Poiché non esiste una sostanza impermanente e immutabile, nulla si trasmette da un istante all’altro. Così è evidente che nulla di permanente, di immutabile, può passare o trasmigrare da una vita all’altra. Si tratta di una serie continua, senza interruzioni, che cambia in ogni momento. Questa serie, parlando più propriamente, non è niente altro che movimento. È come una fiamma che brucia per tutta la notte: non è la stessa fiamma né un’altra. Un bambino cresce e diventa un uomo di sessant’anni. Certamente un uomo di sessant’anni non è la stessa cosa di un bambino di sei anni, né però un’altra persona. Allo stesso modo una persona che morta qui, rinasce in un altro luogo, non è né la stessa né un’altra. È la continuità della stessa serie. La differenza tra la vita e la morte non è che un istante mentale: l’ultimo istante di attività mentale in questa vita condizionerà il primo istante di attività mentale nella cosiddetta nuova vita che, infatti, è la continuità della stessa serie. Anche in questa vita ogni attività mentale condiziona quella seguente. Così, dal punto di vista buddhista, il problema di una vita dopo la morte non è un gran mistero e un buddhista non si preoccupa affatto di questo problema.
Per tutto il tempo in cui ci sarà sete di essere e divenire, il ciclo della continuità (samsara) andrà avanti. Si potrà fermare solo quando questa forza che lo muove, questa ‘sete’, sarà tagliata via dalla saggezza che avrà la visione della Realtà, della Verità, del Nirvana.

Se si rimane attaccati ai concetti, alle dispute intellettuali, gli insegnamenti sul karma e sulla rinascita – come ogni altro insegnamento – non faranno che creare ulteriori complicazioni, nella mente e nella vita. Ma il buddhismo è essenzialmente una Via, una prassi di liberazione, e non una filosofia, un nuovo punto di vista sul mondo e sull’uomo, una teoria da studiare per poi metterla in pratica.
È questo l’insegnamento del buddhismo Zen, riassunto nelle parole del maestro Roland Yuno Rech: “La pratica dello zazen è imparare a vivere qui e ora. (..) Noi non neghiamo la teoria della trasmigrazione e delle vite successive, ma non ce ne preoccupiamo. Ci concentriamo sulla nostra pratica del Dharma, qui e ora. Non pratichiamo allo scopo di accumulare meriti per ottenere una buona reincarnazione. Anche se questo probabilmente è vero, si tratta tuttavia di una visione limitata.
(..) Gli orientali credono che ci si reincarni da una vita all’altra (..) in funzione della legge del karman. (..) Questa visione è accettata nello Zen e riveste anche una certa importanza. Il maestro Dogen [Giappone, 1200-1253] diceva: ‘Se non crediamo a questa causalità karmica con una ricompensa necessaria in uno dei tre periodi del tempo, e cioè questa vita, la prossima o una vita futura, non avremo fatto neanche il primo passo sulla Via’.
(..) Dobbiamo considerare il karman in rapporto alla nostra vita e dire: “Effettivamente, ciò che mi capita è legato al mio karman”. Pensando così divento pienamente responsabile delle mie azioni e posso assumermi tale responsabilità. È inutile pensare di essere perseguitati dalla sfortuna o vittime di una casualità assurda. (..) Se crediamo al caso non c’è un gran che da fare, ma se vediamo che tutto quello che ci capita è il risultato dei nostri pensieri, delle nostre parole e delle nostre azioni, persino di quelle di un passato molto lontano, prenderemo coscienza che tutto ha un effetto. Saremo allora più vigili e responsabili dei nostri atti.
(..) Certo, possiamo anche mettere sempre in dubbio questa nozione del karma, e affermare che non ci sono prove che ci sia qualcos’altro al di là di questa vita. La semplice osservazione che possiamo fare è dirci che, nel mondo che appare, i fenomeni si producono attraverso una concatenazione di cause ed effetti. Di conseguenza non c’è motivo perché tutto ciò non possa essere trasposto nella vita psichica. (..) Anche se la causalità karmica fosse un mito, l’importante è osservare quali sono gli effetti di questa credenza. Ciascuno di noi deve farne l’esperienza per vedere se è salutare o benefica e soprattutto se ci permette di vivere in pace e in armonia con gli avvenimenti dolorosi che ci capitano”.
Roland Yuno Rech
Nel corso stesso della vita quotidiana è possibile osservare come si sviluppi la legge della causalità karmica, la concatenazione delle cause e degli effetti. Ugualmente, durante lo zazen, e fuori di esso, possiamo osservare la trasmigrazione, la rinascita. “In un’ora e mezzo di zazen viviamo già in questo mondo di trasmigrazione [i sei regni del secondo anello del bhavachakra]. Possiamo andare da uno stato infernale di dolore e di ribellione a uno stato di pace prossimo alla beatitudine, prima di venire ripresi da desideri o da preoccupazioni familiari o finanziarie. Vedere la vita dal punto di vista della trasmigrazione è anche osservare in quale mondo si sta vivendo momento per momento”.


Testi

Cornu                    Dizionario del Buddhismo                                                              Ed. Bruno Mondadori
Falà                       Bhava, il divenire                                                                              in: Paramita n. 41              
Falà                       Jati, la nascita                                                                                   in: Paramita n. 42
Johansson            La psicologia dinamica del buddhismo antico                          Ed. Ubaldini
Roland Rech        Noi siamo dei Buddha                                                                     Ed. Oscar Mondadori
Walpola Rahula  L’insegnamento del Buddha                                                           Ed. Paramita
(Il libro non è più reperibile in commercio. Il testo integrale può essere letto qui:

Il testo del Sutra è reperibile on line qui: http://www.canonepali.net/mn/mn_135.htm