Alcuni
dei temi del precedente post (http://zenvadoligure.blogspot.it/2018/04/segnali-di-kali-yuga-dal-belgio.html)
erano già stati oggetto di una intervista all’attuale Pontefice Francesco,
raccolta nella residenza vaticana di Santa Marta il 9 maggio 2016 e pubblicata
il 19 maggio 2016 sullo storico quotidiano francese La Croix con il titolo: Quale
Cristianesimo per l’Europa.
Qui
di seguito è riportato il testo dell’intera intervista, leggibile sul sito
Internet di La Croix in traduzione
italiana (https://www.la-croix.com/Religion/Pape/Papa-Francesco-intervistato-dalla-Croix-Quale-cristianesimo-Europa-2016-05-19-1200761293).
Quale
Cristianesimo per l’Europa
Nei suoi discorsi
sull’Europa, lei ricorda le “radici” cristiane del continente, senza però mai
qualificarle come cristiane. Definisce piuttosto “l’identità europea” come
“dinamica e multiculturale”. Secondo lei, l’espressione “radici cristiane” è
inappropriata per l’Europa?
Bisogna
parlare di radici al plurale perché ce ne sono tante. In tal senso, quando
sento parlare delle radici cristiane dell’Europa, a volte temo il tono, che può
essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II
ne parlava con un tono tranquillo. L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il
cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come
per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio.
Erich Przywara, grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar,
ce lo insegna: l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con
la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere
un apporto colonialista.
Lei il 16 aprile
ha compiuto un gesto forte portando con sé da Lesbo a Roma alcuni rifugiati. Ma
l’Europa può accogliere tanti migranti?
È
una domanda giusta e responsabile perché non si possono spalancare le porte in
modo irrazionale. Ma la domanda di fondo che bisogna porsi è perché ci sono
tanti migranti oggi. Quando sono andato a Lampedusa, tre anni fa, questo
fenomeno cominciava già. Il problema iniziale sono le guerre in Medio Oriente e
in Africa e il sottosviluppo del continente africano, che provoca la fame. Se
ci sono guerre è perché ci sono fabbricanti d’armi — il che si può giustificare
per la difesa — e soprattutto trafficanti di armi. Se c’è tanta disoccupazione
è per la mancanza d’investimenti che possono creare del lavoro, di cui l’Africa
ha tanto bisogno. Ciò solleva in senso più ampio la domanda su un sistema
economico mondiale caduto nell’idolatria del denaro. Più dell’80 per cento
delle ricchezze dell’umanità sono in mano a circa il 16 per cento della
popolazione. Un mercato completamente libero non funziona. Il mercato di per sé
è una cosa buona ma gli occorre, come punto di appoggio, una parte terza, lo
Stato, per controllarlo ed equilibrarlo. È ciò che chiamiamo economia sociale
di mercato. Ritorniamo ai migranti. L’accoglienza peggiore è di ghettizzarli
quando al contrario occorre integrarli. A Bruxelles i terroristi erano belgi,
figli di migranti, ma venivano da un ghetto. A Londra, il nuovo sindaco ha
prestato giuramento in una cattedrale e senza dubbio sarà ricevuto dalla
regina. Ciò mostra all’Europa l’importanza di ritrovare la sua capacità
d’integrare. Penso a Gregorio Magno che ha negoziato con quanti venivano
chiamati barbari, che si sono poi integrati. Questa integrazione è oggi tanto
più necessaria in quanto l’Europa sta vivendo un grave problema di denatalità,
a causa di una ricerca egoistica del benessere. Si crea un vuoto demografico.
In Francia tuttavia, grazie alle politiche familiari, questa tendenza è
attenuata.
Il timore di
accogliere migranti è alimentato in parte dal timore dell’islam. Secondo lei,
la paura che questa religione suscita in Europa è giustificata?
Non
credo che oggi ci sia una paura dell’islam in quanto tale, ma di Daesh e della
sua guerra di conquista, tratta in parte dall’islam. L’idea di conquista è
inerente all’anima dell’islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare, con la
stessa idea di conquista, la fine del vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi
discepoli in tutte le nazioni. Dinanzi all’attuale terrorismo islamico,
converrebbe interrogarsi sul modo in cui è stato esportato un modello di
democrazia troppo occidentale in Paesi in cui c’era un potere forte, come in
Iraq. O in Libia, dalla struttura tribale. Non si può avanzare senza tener
conto di quella cultura. Come ha detto un libico un po’ di tempo fa: «Un tempo
avevamo Gheddafi, ora ne abbiamo cinquanta!». In linea di principio, la
convivenza tra cristiani e musulmani è possibile. Io vengo da un Paese in cui
convivono in buona familiarità. I musulmani vi venerano la Vergine Maria e san
Giorgio. Mi è stato detto che in un Paese dell’Africa per il giubileo della
Misericordia, i musulmani fanno a lungo la fila davanti alla cattedrale per
varcare la porta santa e pregare la Vergine Maria. Nella Repubblica
Centrafricana, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e
oggi devono reimparare a farlo. Anche il Libano mostra che ciò è possibile.
Uno
Stato deve essere laico. Gli Stati confessionali finiscono male. Ciò va contro
la storia. Credo che una laicità accompagnata da una solida legge che
garantisca la libertà religiosa offra un quadro per andare avanti. Noi siamo
tutti uguali, come figli di Dio o con la nostra dignità di persone. Ma ognuno
deve avere la libertà di esteriorizzare la propria fede. Se una donna musulmana
vuole portare il velo, deve poterlo fare. Lo stesso se un cattolico vuole
portare una croce. Si deve poter professare la propria fede non accanto, ma in
seno alla cultura. La piccola critica che rivolgerei alla Francia a tale
riguardo è di esagerare la laicità. Ciò deriva da un modo di considerare le
religioni come una sottocultura e non come un cultura a pieno titolo. Temo che
questo approccio, che si comprende come eredità dell’illuminismo, persista
ancora. La Francia dovrebbe fare un passo avanti a tale proposito per accettare
che l’apertura alla trascendenza è un diritto per tutti.
In questo contesto
laico, i cattolici come dovrebbero difendere le loro preoccupazioni su temi
sociali quali l’eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso?
È
in Parlamento che bisogna discutere, argomentare, spiegare, ragionare. Così
cresce una società. Una volta che la legge viene votata, lo Stato deve
rispettare le coscienze. In ogni struttura giuridica deve essere presente
l’obiezione di coscienza, perché è un diritto umano. Incluso per un funzionario
del governo, che è una persona umana. Lo Stato deve anche rispettare le
critiche. Questa è una vera laicità. Non si possono spazzar via gli argomenti
dei cattolici dicendo loro: «Parlate come un prete». No, essi si fondano sul
pensiero cristiano, che la Francia ha così notevolmente sviluppato.
La
figlia maggiore della Chiesa... ma non la più fedele [ride]. Negli anni
Cinquanta si diceva anche: “Francia, Paese di missione”. In tal senso, è una
periferia da evangelizzare. Ma bisogna essere giusti con la Francia. La Chiesa
possiede lì una capacità creatrice. La Francia è anche una terra di grandi
santi, di grandi pensatori: Jean Guitton, Maurice Blondel, Emmanuel Lévinas
(che non era cattolico), Jacques Maritain. Penso anche alla profondità della
letteratura. Apprezzo pure il modo in cui la cultura francese ha impregnato la
spiritualità gesuita rispetto alla corrente spagnola, più ascetica. La corrente
francese, iniziata con Pierre Favre, pur insistendo sempre sul discernimento
dello spirito, dà un altro sapore. Con i grandi padri spirituali francesi:
Louis Lallemant, Jean-Pierre de Caussade. E con i grandi teologi francesi, che
hanno aiutato tanto la Compagnia di Gesù: Henri de Lubac e Michel de Certeau.
Questi ultimi due mi piacciono molto; due gesuiti che sono creativi. Insomma,
ecco ciò che mi affascina della Francia. Da un lato questa laicità esagerata,
eredità della Rivoluzione francese, e dall’altro tanti grandi santi.
Qual è quello o
quella che preferisce?
Santa
Teresa di Lisieux.
Lei ha promesso di
venire in Francia. Quando sarà possibile un tale viaggio?
Ho
ricevuto da poco una lettera d’invito del presidente François Hollande. Anche
la conferenza episcopale mi ha invitato. Non so quando avrà luogo questo viaggio,
perché il prossimo sarà un anno elettorale in Francia e, in generale, la prassi
della Santa Sede è di non compiere visite in quel periodo. Lo scorso anno si è
cominciato a formulare ipotesi su un simile viaggio, con una sosta a Parigi e
nella sua periferia, a Lourdes e in una città in cui nessun Papa si è ancora
recato, Marsiglia per esempio, che rappresenta una porta aperta sul mondo.
La Chiesa in
Francia vive una grave crisi di vocazioni sacerdotali. Come fare oggi con così
pochi preti?
La
Corea offre un esempio storico. Questo Paese è stato evangelizzato da
missionari venuti dalla Cina che poi sono andati via. Quindi, per due secoli,
la Corea è stata evangelizzata da laici. È una terra di santi e di martiri con
una Chiesa forte oggi. Per evangelizzare non c’è necessariamente bisogno di
preti. Il battesimo dà la forza per evangelizzare. E lo Spirito Santo, ricevuto
nel battesimo, spinge a uscire, a portare il messaggio cristiano, con coraggio
e pazienza. È lo Spirito santo il protagonista di ciò che la Chiesa fa, il suo
motore. Troppi cristiani l’ignorano. Al contrario, un pericolo per la Chiesa è
il clericalismo. È un peccato che si commette in due, come il tango! I
sacerdoti vogliono clericalizzare i laici e i laici chiedono di essere clericalizzati,
per comodità. A Buenos Aires, ho conosciuto molti bravi preti che, vedendo un
laico capace, esclamavano subito: “Facciamone un diacono!”. No, bisogna
lasciarlo laico. Il clericalismo è importante soprattutto in America latina. Se
la pietà popolare è forte lì è proprio perché è l’unica iniziativa dei laici a
non essere clericale. Ed è incompresa dal clero.
La Chiesa in
Francia, in particolare a Lione, è attualmente colpita da scandali di pedofilia
che riguardano il passato. Che cosa deve fare davanti a questa situazione?
È
vero che non è facile giudicare i fatti dopo decenni, in un altro contesto. La
realtà non è sempre chiara. Ma per la Chiesa, in questo ambito, non ci può
essere prescrizione. Attraverso questi abusi, un prete che ha il compito di guidare
un bambino verso Dio lo distrugge. Dissemina il male, il risentimento, il
dolore. Come ha detto Benedetto XVI, ci deve essere tolleranza zero. In base
agli elementi di cui dispongo, credo che a Lione, il cardinale Barbarin abbia
adottato le misure necessarie, abbia preso bene in mano la situazione. È un
coraggioso, un creativo, un missionario. Ora noi dobbiamo attendere il
prosieguo del procedimento davanti alla giustizia civile.
Il cardinale
Barbarin non deve dunque dimettersi?
No,
sarebbe un controsenso, un’imprudenza. Si vedrà dopo la conclusione del
processo. Ma ora sarebbe dichiararsi colpevole.
Lei ha ricevuto,
lo scorso 1° aprile, monsignor Bernard Fellay, superiore generale della
Fraternità sacerdotale San Pio X. È di nuovo ipotizzabile la reintegrazione dei
lefebvriani nella Chiesa?
A
Buenos Aires ho sempre parlato con loro. Mi salutavano, mi chiedevano una
benedizione in ginocchio. Si dicono cattolici. Amano la Chiesa. Monsignor
Fellay è un uomo con cui si può dialogare. Non è così per altri elementi un po’
strani, come monsignor Williamson, o altri che si sono radicalizzati. Penso,
come avevo detto in Argentina, che siano cattolici in cammino verso la piena
comunione. In questo anno della Misericordia mi è parso di dover autorizzare i
loro confessori a perdonare il peccato di aborto. Mi hanno ringraziato per
questo gesto. Prima, Benedetto XVI, che rispettano molto, aveva liberalizzato
la messa secondo il rito tridentino. Si dialoga bene, si sta facendo un buon
lavoro.
Sarebbe pronto a
concedere loro lo statuto di prelatura personale?
Sarebbe
una soluzione possibile, ma prima bisogna stabilire un accordo fondamentale con
loro. Il concilio Vaticano II ha la sua importanza. Si avanza lentamente, con
pazienza.
Lei ha convocato
due sinodi sulla famiglia. Questo lungo processo ha, a suo parere, cambiato la
Chiesa?
È
un processo iniziato al concistoro, introdotto dal cardinale Kasper, seguito da
un sinodo straordinario nell’ottobre dello stesso anno, poi da un anno di
riflessione e da un sinodo ordinario. Credo che tutti siamo usciti da questo
processo diversi da come ci siamo entrati. Anch’io. Nell’esortazione
post-sinodale ho cercato di rispettare al massimo il sinodo. Non vi troverete
precisazioni canoniche su ciò che si può o si deve fare o meno. È una
riflessione serena, pacifica, sulla bellezza dell’amore, su come educare i
figli, prepararsi al matrimonio... Valorizza responsabilità che potrebbero
essere accompagnate dal Pontificio Consiglio per i laici, sotto forma di linee
guida. Al di là di questo processo, dobbiamo pensare alla vera sinodalità,
quanto meno a ciò che significa sinodalità cattolica. I vescovi sono cum Petro
sub Petro. Ciò differisce dalla sinodalità ortodossa e da quella delle Chiese
greco-cattoliche dove il patriarca conta solo per uno. Il concilio Vaticano II
offre un ideale di comunione sinodale ed episcopale. Lo si deve ancora far
crescere, anche a livello parrocchiale rispetto a quanto viene prescritto. Ci
sono parrocchie che non sono dotate né di un consiglio pastorale né di un
consiglio per gli affari economici quando il Codice di diritto canonico le
obbliga ad averli. La sinodalità si gioca anche lì.
**********
Tra
le tante, riteniamo particolarmente interessanti le affermazioni del Pontefice sulle
radici religiose e culturali dell’Europa e sui rapporti con il mondo islamico,
che si ritrovano non a caso nei primi passaggi dell’intervista, laddove – non
si può non notarlo – dopo il riconoscimento del fatto che gli stati
confessionali vanno contro la storia, egli afferma che la Francia esagera con la laicità [!!].
A
questo proposito riportiamo qui, quale condivisibile commento critico nei
confronti delle argomentazioni di Jorge Mario Bergoglio, alcuni passi tratti da
266.,
un agile libretto di Aldo Maria Valli,
vaticanista del TG1, autore di diversi libri sulla Chiesa e sulla Santa Sede,
pubblicato nel 2016 dalle edizioni Liberilibri.
Secondo
Valli, il parallelo proposto dal Papa tra cristianesimo e islam quando interpreta
come attività di conquista l’invio da parte di Gesù dei suoi discepoli in tutte
le nazioni, è “quantomeno inquietante,
perché profondamente sbagliato” (pag. 103). [Il riferimento è a Matteo, 28:
“Andate dunque e fate discepoli tutti i
popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando
loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”].
Ogni religione può avere un problema con la
violenza, può essere usata in modo fanatico, concede Valli. “Ma sostenere che il cristianesimo e l’islam
siano in questo senso speculari non è corretto, perché il Nuovo Testamento e il
Corano non sono la stessa cosa”. “L’islam
– sostiene il vaticanista – ha un
problema con la violenza di matrice religiosa, come aveva segnalato benedetto
XVI a Ratisbona nel 2006” (pag. 105). [Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/11/fede-e-ragione-la-lectio-magistralis-di.html]
Ugualmente
discutibile è l’affermazione del Papa – già segnalata – secondo cui la Francia
avrebbe una esagerata concezione della laicità dello Stato: “Ma Francesco ha presente che cosa sia la
libertà? Per la donna musulmana spesso il velo non è una scelta, ma un’imposizione
[..]. Non così per il cristiano, al quale nessuno impone, tanto meno dietro
minaccia, di portare al collo la croce” (pag. 105).
Quanto
alle parole del Papa sulla pluralità delle radici dell’Europa, esse sono
certamente condivisibili, perfino ovvie. “Ma
nessuno può negare – puntualizza Valli – che, fra le tante, ci sia una radice più decisiva e profonda: è quella
giudaico-cristiana” (pag. 116). E tale affermazione non va nel senso della
rivendicazione di una qualche supremazia o men che meno di una qualsiasi forma
di esclusivismo, bensì costituisce il riconoscimento del fondamento dei valori
di libertà dell’Europa.
L’Europa
che riconosce le proprie radici non si comporta in modo colonialistico, come
afferma Bergoglio nell’intervista. Parlare di colonialismo è quantomeno una esagerazione.
“Francesco – conclude il vaticanista
con parole che chi scrive ritiene del tutto condivisibili – aiuta noi europei a considerare i problemi
da una prospettiva diversa dalla nostra, e va bene. Meno bene va quando le
analisi sono sviluppate in modo superficiale o addirittura fuorviante”
(pag. 118). Come disse Giovanni Paolo II, qui citato da Valli, “le radici cristiane non sono una memoria di
esclusivismo religioso, ma un fondamento di libertà, perché rendono l’Europa un
crogiuolo di culture e di esperienze differenti” (pag. 117), e sono queste
parole alle quali non è certamente possibile attribuire alcuna valenza
colonialista o esclusivista.
Da
leggere:
Aldo
Maria Valli, 266. Jorge Mario Bergoglio
Franciscus P.P., Ed. Liberilibri
Aldo
Maria Valli, Come la Chiesa finì,
Ed. Liberilibri