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giovedì 24 maggio 2018

Di radici, di Papi, di islam


Alcuni dei temi del precedente post (http://zenvadoligure.blogspot.it/2018/04/segnali-di-kali-yuga-dal-belgio.html) erano già stati oggetto di una intervista all’attuale Pontefice Francesco, raccolta nella residenza vaticana di Santa Marta il 9 maggio 2016 e pubblicata il 19 maggio 2016 sullo storico quotidiano francese La Croix con il titolo: Quale Cristianesimo per l’Europa.
Qui di seguito è riportato il testo dell’intera intervista, leggibile sul sito Internet di La Croix in traduzione italiana (https://www.la-croix.com/Religion/Pape/Papa-Francesco-intervistato-dalla-Croix-Quale-cristianesimo-Europa-2016-05-19-1200761293).

Quale Cristianesimo per l’Europa

Nei suoi discorsi sull’Europa, lei ricorda le “radici” cristiane del continente, senza però mai qualificarle come cristiane. Definisce piuttosto “l’identità europea” come “dinamica e multiculturale”. Secondo lei, l’espressione “radici cristiane” è inappropriata per l’Europa?

Bisogna parlare di radici al plurale perché ce ne sono tante. In tal senso, quando sento parlare delle radici cristiane dell’Europa, a volte temo il tono, che può essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con un tono tranquillo. L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio. Erich Przywara, grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar, ce lo insegna: l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista.

Lei il 16 aprile ha compiuto un gesto forte portando con sé da Lesbo a Roma alcuni rifugiati. Ma l’Europa può accogliere tanti migranti?

È una domanda giusta e responsabile perché non si possono spalancare le porte in modo irrazionale. Ma la domanda di fondo che bisogna porsi è perché ci sono tanti migranti oggi. Quando sono andato a Lampedusa, tre anni fa, questo fenomeno cominciava già. Il problema iniziale sono le guerre in Medio Oriente e in Africa e il sottosviluppo del continente africano, che provoca la fame. Se ci sono guerre è perché ci sono fabbricanti d’armi — il che si può giustificare per la difesa — e soprattutto trafficanti di armi. Se c’è tanta disoccupazione è per la mancanza d’investimenti che possono creare del lavoro, di cui l’Africa ha tanto bisogno. Ciò solleva in senso più ampio la domanda su un sistema economico mondiale caduto nell’idolatria del denaro. Più dell’80 per cento delle ricchezze dell’umanità sono in mano a circa il 16 per cento della popolazione. Un mercato completamente libero non funziona. Il mercato di per sé è una cosa buona ma gli occorre, come punto di appoggio, una parte terza, lo Stato, per controllarlo ed equilibrarlo. È ciò che chiamiamo economia sociale di mercato. Ritorniamo ai migranti. L’accoglienza peggiore è di ghettizzarli quando al contrario occorre integrarli. A Bruxelles i terroristi erano belgi, figli di migranti, ma venivano da un ghetto. A Londra, il nuovo sindaco ha prestato giuramento in una cattedrale e senza dubbio sarà ricevuto dalla regina. Ciò mostra all’Europa l’importanza di ritrovare la sua capacità d’integrare. Penso a Gregorio Magno che ha negoziato con quanti venivano chiamati barbari, che si sono poi integrati. Questa integrazione è oggi tanto più necessaria in quanto l’Europa sta vivendo un grave problema di denatalità, a causa di una ricerca egoistica del benessere. Si crea un vuoto demografico. In Francia tuttavia, grazie alle politiche familiari, questa tendenza è attenuata.

Il timore di accogliere migranti è alimentato in parte dal timore dell’islam. Secondo lei, la paura che questa religione suscita in Europa è giustificata?

Non credo che oggi ci sia una paura dell’islam in quanto tale, ma di Daesh e della sua guerra di conquista, tratta in parte dall’islam. L’idea di conquista è inerente all’anima dell’islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare, con la stessa idea di conquista, la fine del vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni. Dinanzi all’attuale terrorismo islamico, converrebbe interrogarsi sul modo in cui è stato esportato un modello di democrazia troppo occidentale in Paesi in cui c’era un potere forte, come in Iraq. O in Libia, dalla struttura tribale. Non si può avanzare senza tener conto di quella cultura. Come ha detto un libico un po’ di tempo fa: «Un tempo avevamo Gheddafi, ora ne abbiamo cinquanta!». In linea di principio, la convivenza tra cristiani e musulmani è possibile. Io vengo da un Paese in cui convivono in buona familiarità. I musulmani vi venerano la Vergine Maria e san Giorgio. Mi è stato detto che in un Paese dell’Africa per il giubileo della Misericordia, i musulmani fanno a lungo la fila davanti alla cattedrale per varcare la porta santa e pregare la Vergine Maria. Nella Repubblica Centrafricana, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e oggi devono reimparare a farlo. Anche il Libano mostra che ciò è possibile.
Uno Stato deve essere laico. Gli Stati confessionali finiscono male. Ciò va contro la storia. Credo che una laicità accompagnata da una solida legge che garantisca la libertà religiosa offra un quadro per andare avanti. Noi siamo tutti uguali, come figli di Dio o con la nostra dignità di persone. Ma ognuno deve avere la libertà di esteriorizzare la propria fede. Se una donna musulmana vuole portare il velo, deve poterlo fare. Lo stesso se un cattolico vuole portare una croce. Si deve poter professare la propria fede non accanto, ma in seno alla cultura. La piccola critica che rivolgerei alla Francia a tale riguardo è di esagerare la laicità. Ciò deriva da un modo di considerare le religioni come una sottocultura e non come un cultura a pieno titolo. Temo che questo approccio, che si comprende come eredità dell’illuminismo, persista ancora. La Francia dovrebbe fare un passo avanti a tale proposito per accettare che l’apertura alla trascendenza è un diritto per tutti.

In questo contesto laico, i cattolici come dovrebbero difendere le loro preoccupazioni su temi sociali quali l’eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso?

È in Parlamento che bisogna discutere, argomentare, spiegare, ragionare. Così cresce una società. Una volta che la legge viene votata, lo Stato deve rispettare le coscienze. In ogni struttura giuridica deve essere presente l’obiezione di coscienza, perché è un diritto umano. Incluso per un funzionario del governo, che è una persona umana. Lo Stato deve anche rispettare le critiche. Questa è una vera laicità. Non si possono spazzar via gli argomenti dei cattolici dicendo loro: «Parlate come un prete». No, essi si fondano sul pensiero cristiano, che la Francia ha così notevolmente sviluppato.
La figlia maggiore della Chiesa... ma non la più fedele [ride]. Negli anni Cinquanta si diceva anche: “Francia, Paese di missione”. In tal senso, è una periferia da evangelizzare. Ma bisogna essere giusti con la Francia. La Chiesa possiede lì una capacità creatrice. La Francia è anche una terra di grandi santi, di grandi pensatori: Jean Guitton, Maurice Blondel, Emmanuel Lévinas (che non era cattolico), Jacques Maritain. Penso anche alla profondità della letteratura. Apprezzo pure il modo in cui la cultura francese ha impregnato la spiritualità gesuita rispetto alla corrente spagnola, più ascetica. La corrente francese, iniziata con Pierre Favre, pur insistendo sempre sul discernimento dello spirito, dà un altro sapore. Con i grandi padri spirituali francesi: Louis Lallemant, Jean-Pierre de Caussade. E con i grandi teologi francesi, che hanno aiutato tanto la Compagnia di Gesù: Henri de Lubac e Michel de Certeau. Questi ultimi due mi piacciono molto; due gesuiti che sono creativi. Insomma, ecco ciò che mi affascina della Francia. Da un lato questa laicità esagerata, eredità della Rivoluzione francese, e dall’altro tanti grandi santi.


Qual è quello o quella che preferisce?

Santa Teresa di Lisieux.

Lei ha promesso di venire in Francia. Quando sarà possibile un tale viaggio?

Ho ricevuto da poco una lettera d’invito del presidente François Hollande. Anche la conferenza episcopale mi ha invitato. Non so quando avrà luogo questo viaggio, perché il prossimo sarà un anno elettorale in Francia e, in generale, la prassi della Santa Sede è di non compiere visite in quel periodo. Lo scorso anno si è cominciato a formulare ipotesi su un simile viaggio, con una sosta a Parigi e nella sua periferia, a Lourdes e in una città in cui nessun Papa si è ancora recato, Marsiglia per esempio, che rappresenta una porta aperta sul mondo.

La Chiesa in Francia vive una grave crisi di vocazioni sacerdotali. Come fare oggi con così pochi preti?

La Corea offre un esempio storico. Questo Paese è stato evangelizzato da missionari venuti dalla Cina che poi sono andati via. Quindi, per due secoli, la Corea è stata evangelizzata da laici. È una terra di santi e di martiri con una Chiesa forte oggi. Per evangelizzare non c’è necessariamente bisogno di preti. Il battesimo dà la forza per evangelizzare. E lo Spirito Santo, ricevuto nel battesimo, spinge a uscire, a portare il messaggio cristiano, con coraggio e pazienza. È lo Spirito santo il protagonista di ciò che la Chiesa fa, il suo motore. Troppi cristiani l’ignorano. Al contrario, un pericolo per la Chiesa è il clericalismo. È un peccato che si commette in due, come il tango! I sacerdoti vogliono clericalizzare i laici e i laici chiedono di essere clericalizzati, per comodità. A Buenos Aires, ho conosciuto molti bravi preti che, vedendo un laico capace, esclamavano subito: “Facciamone un diacono!”. No, bisogna lasciarlo laico. Il clericalismo è importante soprattutto in America latina. Se la pietà popolare è forte lì è proprio perché è l’unica iniziativa dei laici a non essere clericale. Ed è incompresa dal clero.

La Chiesa in Francia, in particolare a Lione, è attualmente colpita da scandali di pedofilia che riguardano il passato. Che cosa deve fare davanti a questa situazione?

È vero che non è facile giudicare i fatti dopo decenni, in un altro contesto. La realtà non è sempre chiara. Ma per la Chiesa, in questo ambito, non ci può essere prescrizione. Attraverso questi abusi, un prete che ha il compito di guidare un bambino verso Dio lo distrugge. Dissemina il male, il risentimento, il dolore. Come ha detto Benedetto XVI, ci deve essere tolleranza zero. In base agli elementi di cui dispongo, credo che a Lione, il cardinale Barbarin abbia adottato le misure necessarie, abbia preso bene in mano la situazione. È un coraggioso, un creativo, un missionario. Ora noi dobbiamo attendere il prosieguo del procedimento davanti alla giustizia civile.

Il cardinale Barbarin non deve dunque dimettersi?

No, sarebbe un controsenso, un’imprudenza. Si vedrà dopo la conclusione del processo. Ma ora sarebbe dichiararsi colpevole.

Lei ha ricevuto, lo scorso 1° aprile, monsignor Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X. È di nuovo ipotizzabile la reintegrazione dei lefebvriani nella Chiesa?

A Buenos Aires ho sempre parlato con loro. Mi salutavano, mi chiedevano una benedizione in ginocchio. Si dicono cattolici. Amano la Chiesa. Monsignor Fellay è un uomo con cui si può dialogare. Non è così per altri elementi un po’ strani, come monsignor Williamson, o altri che si sono radicalizzati. Penso, come avevo detto in Argentina, che siano cattolici in cammino verso la piena comunione. In questo anno della Misericordia mi è parso di dover autorizzare i loro confessori a perdonare il peccato di aborto. Mi hanno ringraziato per questo gesto. Prima, Benedetto XVI, che rispettano molto, aveva liberalizzato la messa secondo il rito tridentino. Si dialoga bene, si sta facendo un buon lavoro.

Sarebbe pronto a concedere loro lo statuto di prelatura personale?

Sarebbe una soluzione possibile, ma prima bisogna stabilire un accordo fondamentale con loro. Il concilio Vaticano II ha la sua importanza. Si avanza lentamente, con pazienza.

Lei ha convocato due sinodi sulla famiglia. Questo lungo processo ha, a suo parere, cambiato la Chiesa?

È un processo iniziato al concistoro, introdotto dal cardinale Kasper, seguito da un sinodo straordinario nell’ottobre dello stesso anno, poi da un anno di riflessione e da un sinodo ordinario. Credo che tutti siamo usciti da questo processo diversi da come ci siamo entrati. Anch’io. Nell’esortazione post-sinodale ho cercato di rispettare al massimo il sinodo. Non vi troverete precisazioni canoniche su ciò che si può o si deve fare o meno. È una riflessione serena, pacifica, sulla bellezza dell’amore, su come educare i figli, prepararsi al matrimonio... Valorizza responsabilità che potrebbero essere accompagnate dal Pontificio Consiglio per i laici, sotto forma di linee guida. Al di là di questo processo, dobbiamo pensare alla vera sinodalità, quanto meno a ciò che significa sinodalità cattolica. I vescovi sono cum Petro sub Petro. Ciò differisce dalla sinodalità ortodossa e da quella delle Chiese greco-cattoliche dove il patriarca conta solo per uno. Il concilio Vaticano II offre un ideale di comunione sinodale ed episcopale. Lo si deve ancora far crescere, anche a livello parrocchiale rispetto a quanto viene prescritto. Ci sono parrocchie che non sono dotate né di un consiglio pastorale né di un consiglio per gli affari economici quando il Codice di diritto canonico le obbliga ad averli. La sinodalità si gioca anche lì.

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 Tra le tante, riteniamo particolarmente interessanti le affermazioni del Pontefice sulle radici religiose e culturali dell’Europa e sui rapporti con il mondo islamico, che si ritrovano non a caso nei primi passaggi dell’intervista, laddove – non si può non notarlo – dopo il riconoscimento del fatto che gli stati confessionali vanno contro la storia, egli afferma che la Francia esagera con la laicità [!!].
A questo proposito riportiamo qui, quale condivisibile commento critico nei confronti delle argomentazioni di Jorge Mario Bergoglio, alcuni passi tratti da 266., un agile libretto di Aldo Maria Valli, vaticanista del TG1, autore di diversi libri sulla Chiesa e sulla Santa Sede, pubblicato nel 2016 dalle edizioni Liberilibri.
Secondo Valli, il parallelo proposto dal Papa tra cristianesimo e islam quando interpreta come attività di conquista l’invio da parte di Gesù dei suoi discepoli in tutte le nazioni, è “quantomeno inquietante, perché profondamente sbagliato” (pag. 103). [Il riferimento è a Matteo, 28: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”].
 Ogni religione può avere un problema con la violenza, può essere usata in modo fanatico, concede Valli. “Ma sostenere che il cristianesimo e l’islam siano in questo senso speculari non è corretto, perché il Nuovo Testamento e il Corano non sono la stessa cosa”. “L’islam – sostiene il vaticanista – ha un problema con la violenza di matrice religiosa, come aveva segnalato benedetto XVI a Ratisbona nel 2006” (pag. 105). [Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/11/fede-e-ragione-la-lectio-magistralis-di.html]
Ugualmente discutibile è l’affermazione del Papa – già segnalata – secondo cui la Francia avrebbe una esagerata concezione della laicità dello Stato: “Ma Francesco ha presente che cosa sia la libertà? Per la donna musulmana spesso il velo non è una scelta, ma un’imposizione [..]. Non così per il cristiano, al quale nessuno impone, tanto meno dietro minaccia, di portare al collo la croce” (pag. 105).
Quanto alle parole del Papa sulla pluralità delle radici dell’Europa, esse sono certamente condivisibili, perfino ovvie. “Ma nessuno può negare – puntualizza Valli – che, fra le tante, ci sia una radice più decisiva e profonda: è quella giudaico-cristiana” (pag. 116). E tale affermazione non va nel senso della rivendicazione di una qualche supremazia o men che meno di una qualsiasi forma di esclusivismo, bensì costituisce il riconoscimento del fondamento dei valori di libertà dell’Europa.
L’Europa che riconosce le proprie radici non si comporta in modo colonialistico, come afferma Bergoglio nell’intervista. Parlare di colonialismo è quantomeno una esagerazione. “Francesco – conclude il vaticanista con parole che chi scrive ritiene del tutto condivisibili – aiuta noi europei a considerare i problemi da una prospettiva diversa dalla nostra, e va bene. Meno bene va quando le analisi sono sviluppate in modo superficiale o addirittura fuorviante” (pag. 118). Come disse Giovanni Paolo II, qui citato da Valli, “le radici cristiane non sono una memoria di esclusivismo religioso, ma un fondamento di libertà, perché rendono l’Europa un crogiuolo di culture e di esperienze differenti” (pag. 117), e sono queste parole alle quali non è certamente possibile attribuire alcuna valenza colonialista o esclusivista.


Da leggere:

Aldo Maria Valli, 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P., Ed. Liberilibri
Aldo Maria Valli, Come la Chiesa finì, Ed. Liberilibri



lunedì 30 aprile 2018

Segnali di Kali Yuga dal Belgio


Su questo blog molto poco è stato (e sarà) pubblicato su temi definibili come politici in senso stretto.
Poco – o nulla – è stato altresì pubblicato a proposito di quella che oggi è forse la più citata tra le tradizioni religiose, quella islamica. Che chi scrive non conosce, e che poco è interessato a conoscere.
Qui si parla invece di entrambe le cose. E questo perché in realtà ciò che può rendere interessante l’articolo non è la religione islamica, e nemmeno lo è la politica, bensì sono alcune modalità con le quali il rapporto tra il fenomeno “politica” e il fenomeno “religione” (non solo islamica, va da sé) si sta manifestando (anche) nelle società contemporanee occidentali: fondamentalismo, integralismo, Stato etico, ierocrazia, Stato confessionale – o Stato confusionale
Segni di quell’Età Oscura che abbiamo appena iniziato a percepire…

L’interesse che tali fenomeni rivestono all’interno di questo blog è il motivo per cui propongo un articolo di Clément Pétreault apparso il 14 aprile 2018 sul settimanale francese Le Point.

Il testo originale dell’articolo è leggibile qui:
http://www.lepoint.fr/europe/au-coeur-d-islam-le-parti-qui-veut-instaurer-la-charia-en-belgique-14-04-2018-2210611_2626.php#xtmc=molenbeek&xtnp=1&xtcr=1
          La traduzione è a cura del responsabile del blog.


Nel cuore di Islam, il partito che vuole instaurare la sharia in Belgio

Bruxelles. È una sala senza finestre, male illuminata, dietro la porta di un garage al piano terreno di un triste fabbricato di Molenbeek. Sul tavolo sono sparpagliati volantini, bottiglie d’acqua e minute di discorsi. Ci troviamo nel cuore del partito belga ISLAM, acronimo di “Integrità, Solidarietà, Libertà, Autenticità, Moralità”. È qui, in questa stanza vuota, che sono nate le idee politiche più sovversive della campagna per le amministrative che si apre in Belgio. I locali sono deserti, ma la classe politica belga non parla che del partito Islam. E per una volta c’è accordo: nessuno vuole questo partito dal programma esplosivo.

“Sharia occidentale”

Redouane Ahrouch, uno dei tre fondatori, si è fatto notare la settimana scorsa proponendo la separazione degli uomini e delle donne sui trasporti pubblici: “Durante le ore di punta alcune persone, soprattutto di origine straniera, approfittano del fatto che i mezzi sono pieni zeppi per appiccicarsi alle donne. Non sono soltanto le donne musulmane a sentirsi così umiliate. Per questo sono favorevole a che gli uomini salgano davanti e le donne dietro”, ha sostenuto questo autista di autobus, eletto al comune di Anderlecht nel 2012 con il 4,12 % dei voti. E non si tratta delle prima uscita politica di questo islamista patentato. Subito dopo la sua elezione – salutata dai Fratelli musulmani – egli aveva stupito il Belgio prendendo posizione a favore di “una sharia occidentale” [1] in Belgio. Poi aveva inviato una lettera al re Alberto II invitandolo a convertirsi all’islam…
Con l’eccezione del ricercatore Lionel Remy, nessuno sembra ricordare che Redouane Ahrouch negli anni ’90 frequentò il Centro islamico belga (CIB), uno dei principali centri del fondamentalismo religioso, nel quale venivano reclutati i candidati al jihad per l’Afghanistan e l’Iraq, un centro per il quale sono passati gli assassini del comandante Massud.
Nel suo libro Soumission [2] Michel Houellebecq immaginava una società occidentale che lentamente scivolava verso la religione sotto la spinta di imprenditori dell’identità musulmana, mescolando allegramente politica e religione. Il partito Islam vi sta lavorando, senza avere il talento romanzesco di Houellebecq… Lhoucine Ait Jeddig non ha letto Soumission. Questo insegnante di chimica di 56 anni appartiene al trio dei cofondatori del movimento. Gentile, sorridente, quasi moderato, è, secondo un osservatore, “l’agnello” dell’ufficio politico. “Lo vedete, non siamo dei talebani”, e predica “un ritorno ai valori morali, di etica e di giustizia”. Alla fine, il suo discorso somiglia a quello di un certo populista di questo inizio del XXI secolo; menziona i “responsabili politici nelle mani delle lobby” e parla del “capitale e del potere finanziario”. Questo eletto del consiglio comunale di Molenbeek vorrebbe “una politica più inclusiva” a favore dei migranti. Ma è sul versante religioso che si distingue dai consueti populisti: “l’80 % della legge belga è compatibile con il Corano. Quanto al restante 20 %, lo si deplora, ma lo si rispetta”, e segnala che non avrebbe nulla in contrario a ritornare alla pena di morte “in rare circostanze”.
Il programma politico di Islam somiglia ad un grande guazzabuglio in cui il complottismo fa a gara con la demagogia. Un esempio a proposito della sicurezza dello Stato, al punto 80 del programma: “Servizi segreti. Sciogliere questo ufficio di spionaggio che organizza l’eversione politica insieme con i servizi segreti di altri paesi”. Punto 25: “Prevenire il vizio proibendo le sale da gioco (casinò, sale per giochi elettronici e locali per scommesse) e la lotteria”. Punto 92: “Liberare il mondo giudiziario dall’influenza del denaro e dalle pressioni politiche”. Un programma che ha suscitato una vivace reazione da parte della classe politica belga, nella persona di Theo Francken, Segretario di Stato per l’Asilo e le Migrazioni, membro del partito nazionalista fiammingo N-VA [3].

"Veri lupi mascherati da agnelli"

Lhoucine Ait Jeddig è consapevole dei limiti della situazione. “Siamo realisti, sappiamo bene che conquistare il potere con questo programma sarà difficile”. Ma si può fare politica senza desiderare il potere? “Mi piace stare all’opposizione” taglia corto l’eletto, che si dice nondimeno fiducioso per le prossime scadenze di ottobre: “Abbiamo buone speranze di raddoppiare il nostro risultato. A Molenbeek il 50-60 % dell’elettorato è musulmano”, afferma. Questi numeri empirici non sono confermati dalle autorità belghe. Ciò non impedisce a Lhoucine Ait Jeddig di affermare che a Bruxelles “entro 12 anni la maggioranza della popolazione sarà musulmana”. Sarà forse vero a Molenbeek, ma di certo non su scala nazionale, se si dà credito allo studio del Pew Resarch Center pubblicato nel novembre scorso, secondo cui nel 2050, in un contesto di forte immigrazione, il 18 % della popolazione belga sarà musulmana.

“Gruppuscolo sciita”

“Islam è un gruppuscolo sciita che ha pochi contatti con le moschee del comune”, afferma Françoise Schepmans, borgomastro di Molenbeek. “In realtà i loro due soli eletti non lavorano. Abbiamo eretto un cordone sanitario intorno a loro, come è stato fatto con il Vlaams Belang (partito nazionalista fiammingo, NDLR) e il Fronte nazionale belga”. In concreto, questo significa che gli eletti non fanno parte della vita politica del comune, né sono invitati alle cerimonie o alle inaugurazioni. La borgomastro, che ha riconquistato nel 2012 una città sfiancata da sessant’anni di gestione socialista, giudica come molto singolari gli interventi di Lhoucine Ait Jeddig: “Quando si tratta di finanze del comune, propone di passare ad un modello di finanza islamica. Quando si parla di gite scolastiche, precisa che non è il caso di mescolare ragazze e ragazzi. E quando ho fatto vietare il consumo di alcool sulla pubblica strada in una parte della città per problemi di nocività, ha voluto estenderlo a tutto il comune…” elenca l’eletta il cui ufficio troneggia sotto una cupola adorna di mosaici del XIX secolo, con scene di vita a Molenbeek Saint_Jean (nome completo del comune). Dalle finestre del palazzo comunale che affianca la piazza del mercato, Françoise Schepmans vede la casa popolare nella quale è cresciuto Salah Abdeslam, autore degli attentati al Bataclan. Le prossime elezioni saranno una prova di verità. Sono le prime dopo gli attentati e l’ondata migratoria. “Qui c’è un vivaio elettorale per l’estrema destra come pure per i comunitaristi [4]”, si inquieta l’autorità cittadina, che nel 1985 aveva sostenuto, senza successo, un progetto di legge che prevedeva “per contenere i raggruppamenti comunitaristi di fissare ad un massimo del 15 % la quota di popolazione straniera in ogni comune”. “Ma la sinistra l’aveva bloccato”.

Ostacolare la propaganda

È sufficientemente raro per essere notato. In merito al partito Islam, la classe politica belga sembra per una volta unanime: non vuole avere a che fare con questi scansafatiche della politica [5]. Georges-Louis Bouchez, eletto a Mons e delegato generale del Movimento dei riformatori (MR, al centro destra dello scacchiere politico), propugna una norma che vieti ogni raduno di quel partito. Elio Di Rupo, vecchio Primo ministro e sindaco di Mons, l’ha accolta. “Sono stati proibiti gli spettacoli di Dieudonné [6], si possono vietare i raduni del partito Islam”, spiega Georges-Louis Bouchez. “Ostacoleremo la loro possibilità di fare propaganda”, promette. Poiché Islam non ha superato la soglia di sbarramento del 5 % nei pochi comuni dove era presente, merita tanta attenzione? “Coloro che pensano che non rappresenti nulla si sbagliano. In Francia, nel 1973, il FN [7] raccoglieva l’1,32 %. Una percentuale del 4 % per Islam è già motivo di inquietudine”, fa notare. Secondo questo riformista, il rischio non proviene tanto dalla percentuale quanto dalla diffusione delle idee: “A forza di ragionevoli accomodamenti, è stato banalizzato anche l’inaccettabile. E ce ne rendiamo conto troppo tardi”. Secondo lui, la classe politica deve svegliarsi, in particolare la sinistra, che ha scambiato la coscienza di classe con la coscienza di razza” [8].
Michael Privot, islamologo e collaboratore scientifico presso il laboratorio CEDM, osserva che Islam “dispone della stessa riserva di voti di Daech: musulmani frustrati in attesa di un partito populista. È solo una differenza di generazione. Daech sapeva parlare ai giovani, Islam parla a coloro che hanno più di 45 anni, e che non andranno a combattere in Siria. Si considerano i fondatori come dei mariuoli, ma hanno margini di progresso”. 
I fondatori hanno capito bene che la polarizzazione sull’islam si sarebbe rivelata fruttuosa. L’antropologo Lionel Remy, che per quattro mesi si è immerso nel partito come ricercatore, racconta in qual modo Redouane Ahrouch gli ha spiegato che la parole “sharia” e “Stato islamico” erano state come “palle da bowling lanciate contro dei birilli, i giornalisti”. Il botto mediatico che ne era seguito gli ha confermato che i suoi eccessi verbali erano paganti, il passaparola ha assicurato una gratuita pubblicità”.

Un cannone per schiacciare una mosca

“Alcuni ritengono la politica belga piuttosto monotona, mentre è in realtà molto divertente!” si rallegra Caroline Sagesser, ricercatrice presso l’Osservatorio delle religioni e della laicità. “Questo gruppuscolo, perché ce n’è uno solo, dispone di una base fragile. Hanno solo due consiglieri comunali e nulla garantisce che saranno davvero in grado di depositare 14 liste a Bruxelles come hanno annunciato”. L’osservatrice ritiene che una gran parte della popolazione musulmana rimarrà impermeabile verso questa offerta politica. Quanto al problema di vietare questo partito, “sarebbe come usare un cannone per schiacciare una mosca. Il programma di Islam non rispetta i diritti dell’uomo ed è da respingere sotto molti aspetti, ma ci sono altri problemi più inquietanti: un FN Belga antidemocratico e razzista, una destra dura al potere nella regione fiamminga e dei gruppuscoli di estrema destra…”
Corinne Torrekens, politologa specialista dell’islam, studia questo partito dalla sua prima campagna, nel 2012. “Islam mescola il dilettantismo politico con forme di demagogia populista di bassa lega – analizza – ma il loro risultato dovrebbe allarmare: 5000 voti senza alcun mezzo e con candidati che hanno una loro vita professionale, non è cosa da nulla. Uno dei due eletti ha ricevuto più voti di una personalità ecologista che compare regolarmente in televisione!” Ella segnala ciò che è divenuto per loro una “abitudine all’ambiguità. Nel 2012 c’era poco di religioso sul loro sito. Ma nei quartieri musulmani hanno distribuito volantini con discorsi del tutto diversi, che richiedevano l’instaurazione dell’alimentazione halal, il velo e i giorni di congedo per la comunità”, racconta. Lo stesso quest’anno: “Fanno clamorose dichiarazione sull’instaurazione della sharia, ma se leggete i loro 99 punti programmatici non ne troverete alcun accenno. In effetti, lo fanno per opportunismo”. Infine, è un agguerrito osservatore della vita politica belga che propone la miglior lettura di questo fenomeno: “Islam è per i partiti populisti ciò che il vento è per le barche”, filosofeggia. Il vento cesserà. E le barche saranno andate avanti.

Epaminonda velato a Cairo Montenotte

 
Note del traduttore

[1]La ‘grande via’ o ‘strada maestra’ (sharī’a) designa la norma dettata da Dio al suo Profeta e costituisce la legge cui si deve attenere ogni credente. La legge, quindi, non è per l’islām l’espressione di una volontà sancita dall’uomo, ma è piuttosto la precisa formulazione, attraverso una serie di precetti e di divieti, del volere divino”. Da: G. Filoramo (a cura di), Storia delle Religioni, vol. V pag. 197, Ed. La Biblioteca di Repubblica.
[2] Pubblicato in Italia dall’Editore Bompiani con il titolo Sottomissione.
[3] Alleanza Neo-Fiamminga o Nuova Alleanza Fiamminga (Nieuw-Vlaamse Alliantie, N-VA).
[4] Sul sito www.sapere.it il termine comunitarismo viene così sinteticamente definito: il comunitarismo costituisce una dottrina secondo la quale i singoli individui possono esplicare al massimo le proprie potenzialità etiche, intellettuali e politiche soltanto se organicamente inseriti in una comunità di appartenenza, riconosciuta come tale dai suoi membri.
Su http://www.toupie.org/Dictionnaire/Communautarisme.htm si legge: Utilizzato in senso piuttosto peggiorativo, il termine comunitarismo designa una forma di etnocentrismo o di sociocentrismo che attribuisce alla comunità (etnica, religiosa, culturale, sociale, politica, mistica, sportiva…) un valore maggiore rispetto all’individuo, con una tendenza al ripiegamento su ste stessi.
[5] Il testo francese utilizza l’espressione Pieds nickelés, che indica, secondo il sito https://fr.wiktionary.org, rifiuto di agire, essere pigri, e trae origine dal nome di tre personaggi poco raccomandabili di un serie di fumetti dei primi del ‘900.
[6] Dieudonné M'bala M'bala, umorista, attore e attivista francese di origine camerunese, accusato di razzismo, antisemitismo e apologia del terrorismo durante i suoi spettacoli.
[7] Il Front National fondato nel 1972 da Jean-Marie Le Pen.
[8] Traduco alle lettera il termine race, che nel dizionario Boch è reso con: 1. razza, 2. stirpe, 3. genia, 4. categoria. Nell’articolo esso è utilizzato senza alcuna recondita connotazione, diversamente dalle strumentali polemiche politico-lessicali recentemente scatenatesi in Italia (dove peraltro l’art. 3 della Costituzione parla di razza non per negare o affermare la scientificità o l’eticità del termine, ma per affermare la sua non rilevanza dal punto di vista della pari dignità sociale e dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali).



Un breve commento di Mattia Feltri:

L’apposizione del velo alla statua di cui alla foto è stata raccontata (anche) qui: