giovedì 24 maggio 2018

Di radici, di Papi, di islam


Alcuni dei temi del precedente post (http://zenvadoligure.blogspot.it/2018/04/segnali-di-kali-yuga-dal-belgio.html) erano già stati oggetto di una intervista all’attuale Pontefice Francesco, raccolta nella residenza vaticana di Santa Marta il 9 maggio 2016 e pubblicata il 19 maggio 2016 sullo storico quotidiano francese La Croix con il titolo: Quale Cristianesimo per l’Europa.
Qui di seguito è riportato il testo dell’intera intervista, leggibile sul sito Internet di La Croix in traduzione italiana (https://www.la-croix.com/Religion/Pape/Papa-Francesco-intervistato-dalla-Croix-Quale-cristianesimo-Europa-2016-05-19-1200761293).

Quale Cristianesimo per l’Europa

Nei suoi discorsi sull’Europa, lei ricorda le “radici” cristiane del continente, senza però mai qualificarle come cristiane. Definisce piuttosto “l’identità europea” come “dinamica e multiculturale”. Secondo lei, l’espressione “radici cristiane” è inappropriata per l’Europa?

Bisogna parlare di radici al plurale perché ce ne sono tante. In tal senso, quando sento parlare delle radici cristiane dell’Europa, a volte temo il tono, che può essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con un tono tranquillo. L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio. Erich Przywara, grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar, ce lo insegna: l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista.

Lei il 16 aprile ha compiuto un gesto forte portando con sé da Lesbo a Roma alcuni rifugiati. Ma l’Europa può accogliere tanti migranti?

È una domanda giusta e responsabile perché non si possono spalancare le porte in modo irrazionale. Ma la domanda di fondo che bisogna porsi è perché ci sono tanti migranti oggi. Quando sono andato a Lampedusa, tre anni fa, questo fenomeno cominciava già. Il problema iniziale sono le guerre in Medio Oriente e in Africa e il sottosviluppo del continente africano, che provoca la fame. Se ci sono guerre è perché ci sono fabbricanti d’armi — il che si può giustificare per la difesa — e soprattutto trafficanti di armi. Se c’è tanta disoccupazione è per la mancanza d’investimenti che possono creare del lavoro, di cui l’Africa ha tanto bisogno. Ciò solleva in senso più ampio la domanda su un sistema economico mondiale caduto nell’idolatria del denaro. Più dell’80 per cento delle ricchezze dell’umanità sono in mano a circa il 16 per cento della popolazione. Un mercato completamente libero non funziona. Il mercato di per sé è una cosa buona ma gli occorre, come punto di appoggio, una parte terza, lo Stato, per controllarlo ed equilibrarlo. È ciò che chiamiamo economia sociale di mercato. Ritorniamo ai migranti. L’accoglienza peggiore è di ghettizzarli quando al contrario occorre integrarli. A Bruxelles i terroristi erano belgi, figli di migranti, ma venivano da un ghetto. A Londra, il nuovo sindaco ha prestato giuramento in una cattedrale e senza dubbio sarà ricevuto dalla regina. Ciò mostra all’Europa l’importanza di ritrovare la sua capacità d’integrare. Penso a Gregorio Magno che ha negoziato con quanti venivano chiamati barbari, che si sono poi integrati. Questa integrazione è oggi tanto più necessaria in quanto l’Europa sta vivendo un grave problema di denatalità, a causa di una ricerca egoistica del benessere. Si crea un vuoto demografico. In Francia tuttavia, grazie alle politiche familiari, questa tendenza è attenuata.

Il timore di accogliere migranti è alimentato in parte dal timore dell’islam. Secondo lei, la paura che questa religione suscita in Europa è giustificata?

Non credo che oggi ci sia una paura dell’islam in quanto tale, ma di Daesh e della sua guerra di conquista, tratta in parte dall’islam. L’idea di conquista è inerente all’anima dell’islam, è vero. Ma si potrebbe interpretare, con la stessa idea di conquista, la fine del vangelo di Matteo, dove Gesù invia i suoi discepoli in tutte le nazioni. Dinanzi all’attuale terrorismo islamico, converrebbe interrogarsi sul modo in cui è stato esportato un modello di democrazia troppo occidentale in Paesi in cui c’era un potere forte, come in Iraq. O in Libia, dalla struttura tribale. Non si può avanzare senza tener conto di quella cultura. Come ha detto un libico un po’ di tempo fa: «Un tempo avevamo Gheddafi, ora ne abbiamo cinquanta!». In linea di principio, la convivenza tra cristiani e musulmani è possibile. Io vengo da un Paese in cui convivono in buona familiarità. I musulmani vi venerano la Vergine Maria e san Giorgio. Mi è stato detto che in un Paese dell’Africa per il giubileo della Misericordia, i musulmani fanno a lungo la fila davanti alla cattedrale per varcare la porta santa e pregare la Vergine Maria. Nella Repubblica Centrafricana, prima della guerra, cristiani e musulmani vivevano insieme e oggi devono reimparare a farlo. Anche il Libano mostra che ciò è possibile.
Uno Stato deve essere laico. Gli Stati confessionali finiscono male. Ciò va contro la storia. Credo che una laicità accompagnata da una solida legge che garantisca la libertà religiosa offra un quadro per andare avanti. Noi siamo tutti uguali, come figli di Dio o con la nostra dignità di persone. Ma ognuno deve avere la libertà di esteriorizzare la propria fede. Se una donna musulmana vuole portare il velo, deve poterlo fare. Lo stesso se un cattolico vuole portare una croce. Si deve poter professare la propria fede non accanto, ma in seno alla cultura. La piccola critica che rivolgerei alla Francia a tale riguardo è di esagerare la laicità. Ciò deriva da un modo di considerare le religioni come una sottocultura e non come un cultura a pieno titolo. Temo che questo approccio, che si comprende come eredità dell’illuminismo, persista ancora. La Francia dovrebbe fare un passo avanti a tale proposito per accettare che l’apertura alla trascendenza è un diritto per tutti.

In questo contesto laico, i cattolici come dovrebbero difendere le loro preoccupazioni su temi sociali quali l’eutanasia o il matrimonio tra persone dello stesso sesso?

È in Parlamento che bisogna discutere, argomentare, spiegare, ragionare. Così cresce una società. Una volta che la legge viene votata, lo Stato deve rispettare le coscienze. In ogni struttura giuridica deve essere presente l’obiezione di coscienza, perché è un diritto umano. Incluso per un funzionario del governo, che è una persona umana. Lo Stato deve anche rispettare le critiche. Questa è una vera laicità. Non si possono spazzar via gli argomenti dei cattolici dicendo loro: «Parlate come un prete». No, essi si fondano sul pensiero cristiano, che la Francia ha così notevolmente sviluppato.
La figlia maggiore della Chiesa... ma non la più fedele [ride]. Negli anni Cinquanta si diceva anche: “Francia, Paese di missione”. In tal senso, è una periferia da evangelizzare. Ma bisogna essere giusti con la Francia. La Chiesa possiede lì una capacità creatrice. La Francia è anche una terra di grandi santi, di grandi pensatori: Jean Guitton, Maurice Blondel, Emmanuel Lévinas (che non era cattolico), Jacques Maritain. Penso anche alla profondità della letteratura. Apprezzo pure il modo in cui la cultura francese ha impregnato la spiritualità gesuita rispetto alla corrente spagnola, più ascetica. La corrente francese, iniziata con Pierre Favre, pur insistendo sempre sul discernimento dello spirito, dà un altro sapore. Con i grandi padri spirituali francesi: Louis Lallemant, Jean-Pierre de Caussade. E con i grandi teologi francesi, che hanno aiutato tanto la Compagnia di Gesù: Henri de Lubac e Michel de Certeau. Questi ultimi due mi piacciono molto; due gesuiti che sono creativi. Insomma, ecco ciò che mi affascina della Francia. Da un lato questa laicità esagerata, eredità della Rivoluzione francese, e dall’altro tanti grandi santi.


Qual è quello o quella che preferisce?

Santa Teresa di Lisieux.

Lei ha promesso di venire in Francia. Quando sarà possibile un tale viaggio?

Ho ricevuto da poco una lettera d’invito del presidente François Hollande. Anche la conferenza episcopale mi ha invitato. Non so quando avrà luogo questo viaggio, perché il prossimo sarà un anno elettorale in Francia e, in generale, la prassi della Santa Sede è di non compiere visite in quel periodo. Lo scorso anno si è cominciato a formulare ipotesi su un simile viaggio, con una sosta a Parigi e nella sua periferia, a Lourdes e in una città in cui nessun Papa si è ancora recato, Marsiglia per esempio, che rappresenta una porta aperta sul mondo.

La Chiesa in Francia vive una grave crisi di vocazioni sacerdotali. Come fare oggi con così pochi preti?

La Corea offre un esempio storico. Questo Paese è stato evangelizzato da missionari venuti dalla Cina che poi sono andati via. Quindi, per due secoli, la Corea è stata evangelizzata da laici. È una terra di santi e di martiri con una Chiesa forte oggi. Per evangelizzare non c’è necessariamente bisogno di preti. Il battesimo dà la forza per evangelizzare. E lo Spirito Santo, ricevuto nel battesimo, spinge a uscire, a portare il messaggio cristiano, con coraggio e pazienza. È lo Spirito santo il protagonista di ciò che la Chiesa fa, il suo motore. Troppi cristiani l’ignorano. Al contrario, un pericolo per la Chiesa è il clericalismo. È un peccato che si commette in due, come il tango! I sacerdoti vogliono clericalizzare i laici e i laici chiedono di essere clericalizzati, per comodità. A Buenos Aires, ho conosciuto molti bravi preti che, vedendo un laico capace, esclamavano subito: “Facciamone un diacono!”. No, bisogna lasciarlo laico. Il clericalismo è importante soprattutto in America latina. Se la pietà popolare è forte lì è proprio perché è l’unica iniziativa dei laici a non essere clericale. Ed è incompresa dal clero.

La Chiesa in Francia, in particolare a Lione, è attualmente colpita da scandali di pedofilia che riguardano il passato. Che cosa deve fare davanti a questa situazione?

È vero che non è facile giudicare i fatti dopo decenni, in un altro contesto. La realtà non è sempre chiara. Ma per la Chiesa, in questo ambito, non ci può essere prescrizione. Attraverso questi abusi, un prete che ha il compito di guidare un bambino verso Dio lo distrugge. Dissemina il male, il risentimento, il dolore. Come ha detto Benedetto XVI, ci deve essere tolleranza zero. In base agli elementi di cui dispongo, credo che a Lione, il cardinale Barbarin abbia adottato le misure necessarie, abbia preso bene in mano la situazione. È un coraggioso, un creativo, un missionario. Ora noi dobbiamo attendere il prosieguo del procedimento davanti alla giustizia civile.

Il cardinale Barbarin non deve dunque dimettersi?

No, sarebbe un controsenso, un’imprudenza. Si vedrà dopo la conclusione del processo. Ma ora sarebbe dichiararsi colpevole.

Lei ha ricevuto, lo scorso 1° aprile, monsignor Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità sacerdotale San Pio X. È di nuovo ipotizzabile la reintegrazione dei lefebvriani nella Chiesa?

A Buenos Aires ho sempre parlato con loro. Mi salutavano, mi chiedevano una benedizione in ginocchio. Si dicono cattolici. Amano la Chiesa. Monsignor Fellay è un uomo con cui si può dialogare. Non è così per altri elementi un po’ strani, come monsignor Williamson, o altri che si sono radicalizzati. Penso, come avevo detto in Argentina, che siano cattolici in cammino verso la piena comunione. In questo anno della Misericordia mi è parso di dover autorizzare i loro confessori a perdonare il peccato di aborto. Mi hanno ringraziato per questo gesto. Prima, Benedetto XVI, che rispettano molto, aveva liberalizzato la messa secondo il rito tridentino. Si dialoga bene, si sta facendo un buon lavoro.

Sarebbe pronto a concedere loro lo statuto di prelatura personale?

Sarebbe una soluzione possibile, ma prima bisogna stabilire un accordo fondamentale con loro. Il concilio Vaticano II ha la sua importanza. Si avanza lentamente, con pazienza.

Lei ha convocato due sinodi sulla famiglia. Questo lungo processo ha, a suo parere, cambiato la Chiesa?

È un processo iniziato al concistoro, introdotto dal cardinale Kasper, seguito da un sinodo straordinario nell’ottobre dello stesso anno, poi da un anno di riflessione e da un sinodo ordinario. Credo che tutti siamo usciti da questo processo diversi da come ci siamo entrati. Anch’io. Nell’esortazione post-sinodale ho cercato di rispettare al massimo il sinodo. Non vi troverete precisazioni canoniche su ciò che si può o si deve fare o meno. È una riflessione serena, pacifica, sulla bellezza dell’amore, su come educare i figli, prepararsi al matrimonio... Valorizza responsabilità che potrebbero essere accompagnate dal Pontificio Consiglio per i laici, sotto forma di linee guida. Al di là di questo processo, dobbiamo pensare alla vera sinodalità, quanto meno a ciò che significa sinodalità cattolica. I vescovi sono cum Petro sub Petro. Ciò differisce dalla sinodalità ortodossa e da quella delle Chiese greco-cattoliche dove il patriarca conta solo per uno. Il concilio Vaticano II offre un ideale di comunione sinodale ed episcopale. Lo si deve ancora far crescere, anche a livello parrocchiale rispetto a quanto viene prescritto. Ci sono parrocchie che non sono dotate né di un consiglio pastorale né di un consiglio per gli affari economici quando il Codice di diritto canonico le obbliga ad averli. La sinodalità si gioca anche lì.

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 Tra le tante, riteniamo particolarmente interessanti le affermazioni del Pontefice sulle radici religiose e culturali dell’Europa e sui rapporti con il mondo islamico, che si ritrovano non a caso nei primi passaggi dell’intervista, laddove – non si può non notarlo – dopo il riconoscimento del fatto che gli stati confessionali vanno contro la storia, egli afferma che la Francia esagera con la laicità [!!].
A questo proposito riportiamo qui, quale condivisibile commento critico nei confronti delle argomentazioni di Jorge Mario Bergoglio, alcuni passi tratti da 266., un agile libretto di Aldo Maria Valli, vaticanista del TG1, autore di diversi libri sulla Chiesa e sulla Santa Sede, pubblicato nel 2016 dalle edizioni Liberilibri.
Secondo Valli, il parallelo proposto dal Papa tra cristianesimo e islam quando interpreta come attività di conquista l’invio da parte di Gesù dei suoi discepoli in tutte le nazioni, è “quantomeno inquietante, perché profondamente sbagliato” (pag. 103). [Il riferimento è a Matteo, 28: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”].
 Ogni religione può avere un problema con la violenza, può essere usata in modo fanatico, concede Valli. “Ma sostenere che il cristianesimo e l’islam siano in questo senso speculari non è corretto, perché il Nuovo Testamento e il Corano non sono la stessa cosa”. “L’islam – sostiene il vaticanista – ha un problema con la violenza di matrice religiosa, come aveva segnalato benedetto XVI a Ratisbona nel 2006” (pag. 105). [Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/11/fede-e-ragione-la-lectio-magistralis-di.html]
Ugualmente discutibile è l’affermazione del Papa – già segnalata – secondo cui la Francia avrebbe una esagerata concezione della laicità dello Stato: “Ma Francesco ha presente che cosa sia la libertà? Per la donna musulmana spesso il velo non è una scelta, ma un’imposizione [..]. Non così per il cristiano, al quale nessuno impone, tanto meno dietro minaccia, di portare al collo la croce” (pag. 105).
Quanto alle parole del Papa sulla pluralità delle radici dell’Europa, esse sono certamente condivisibili, perfino ovvie. “Ma nessuno può negare – puntualizza Valli – che, fra le tante, ci sia una radice più decisiva e profonda: è quella giudaico-cristiana” (pag. 116). E tale affermazione non va nel senso della rivendicazione di una qualche supremazia o men che meno di una qualsiasi forma di esclusivismo, bensì costituisce il riconoscimento del fondamento dei valori di libertà dell’Europa.
L’Europa che riconosce le proprie radici non si comporta in modo colonialistico, come afferma Bergoglio nell’intervista. Parlare di colonialismo è quantomeno una esagerazione. “Francesco – conclude il vaticanista con parole che chi scrive ritiene del tutto condivisibili – aiuta noi europei a considerare i problemi da una prospettiva diversa dalla nostra, e va bene. Meno bene va quando le analisi sono sviluppate in modo superficiale o addirittura fuorviante” (pag. 118). Come disse Giovanni Paolo II, qui citato da Valli, “le radici cristiane non sono una memoria di esclusivismo religioso, ma un fondamento di libertà, perché rendono l’Europa un crogiuolo di culture e di esperienze differenti” (pag. 117), e sono queste parole alle quali non è certamente possibile attribuire alcuna valenza colonialista o esclusivista.


Da leggere:

Aldo Maria Valli, 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P., Ed. Liberilibri
Aldo Maria Valli, Come la Chiesa finì, Ed. Liberilibri