venerdì 31 maggio 2013

Fa' che la mia terra si svegli

Nei primi anni del Novecento, il grande poeta e filosofo indiano Rabindranath Tagore scrisse questi versi, una preghiera, un auspicio che desideriamo rivolgere a questa terra, stanca, assopita, in preda ad incubi da cui non si riesce a destare, che forse nemmeno più un dio potrebbe salvare, ma che è pur sempre la "nostra" terra.

Dove la mente è senza paura
e la testa resta ben alta;

Dove il sapere è libero;

Dove il mondo non è stato ridotto in frammenti
dalle strette mura di casa;

Dove le parole escono a fiotti
dal profondo più fondo di verità;

Dove lo sforzo mai vinto tende le braccia
all'estremo e perfetto;

Dove il chiaro corso della ragione
non ha perso il suo letto
nel deserto delle morte abitudini;

Dove la mente è guidata per mano
da Te verso azioni e pensieri più alti;

In quel cielo, o Padre, di liberi spazi
fa' che la mia terra si svegli.

Il sonno della ragione genera mostri
di Francisco Goya (1797)

Si consiglia la lettura dei versi di Tagore insieme con l'ascolto della famosa ballata di Woody Guthrie:

http://www.youtube.com/watch?v=wxiMrvDbq3s

giovedì 30 maggio 2013

Il Sutra della Piattaforma (ma senza la Maersk...)

Uno dei principali testi di riferimento delle scuole Ch’an-Zen è il “Sutra esposto dal Sesto Patriarca sull’Alto Trono del Tesoro della Legge”, che riporta gli insegnamenti del maestro cinese Hui Neng (Wei-lang nel dialetto meridionale, Eno in giapponese), il quale visse dal 638 al 713 d.C. ed è appunto il sesto dei patriarchi cinesi dello zen (il primo fu Bodhidharma, ultimo dei patriarchi indiani e primo di quelli cinesi).
L’opera, unico testo cinese contenuto nel Canone buddhista (Tripitaka) con il titolo di “sutra”, è nota come “Sutra della piattaforma”, o “Sutra del gradino”.
In Italia è stata pubblicata nel 1977 dalle Edizioni Ubaldini con il titolo “Il Sutra di Hui Neng”, ma nel 1968 era uscito un altro volume ad esso dedicato, con un titolo tanto famoso quanto discutibile, “La dottrina zen del vuoto mentale”, laddove “vuoto mentale” traduce impropriamente la forma inglese “no-mind”. Ne era autore Daisetz Teitaro Suzuki (da non confondere con il maestro zen Shunryu Suzuki), noto – e discusso – divulgatore in Occidente del buddhismo Mahayana e in particolare dello zen (1870-1966).

Daisetz Teitaro Suzuki
Qui pubblichiamo il testo tradotto di due kusen (insegnamenti verbali) che il maestro Roland Yuno Rech nel 1999 ha dedicato al maestro Eno, nei quali viene narrata e commentata a partire dalla pratica di zazen la vicenda che fece di lui il successore del quinto patriarca, Konin.
Hui Neng (Eno)

"Il poema di Jinshu

Un giorno il Maestro Konin disse ai suoi discepoli: “Per l’essere umano, il problema più importante è che è nato e che morirà. Voi vi perdete nella ricerca della felicità. In che modo tutto questo potrebbe salvarvi?” E aggiunse: “Studiate voi stessi, coloro che riconosceranno la loro saggezza originaria comporranno un poema. A colui che avrà compreso direttamente l’essenza del mio insegnamento trasmetterò il kesa e il Dharma, sarà il sesto patriarca”.

Per noi non si tratta di utilizzare la pratica di zazen semplicemente come un mezzo per giungere alla felicità. Alcuni lo fanno, ma in questo modo perdono il significato profondo della pratica, facendone una semplice tecnica di benessere. In tal caso, non si è posto fine all’avidità, allo spirito di guadagno dell’ego, che si attacca sempre ad un nuovo oggetto, causa del suo sogno illusorio secondo il quale arriverà qualcosa ad esaudirlo definitivamente. Praticare zazen, è al contrario andare alla radice di questa illusione e liberarsene. Rinunciare ai nostri sogni illusori. Il punto non è ottenere, bensì divenire liberi dallo spirito dell’ottenimento.

Alla richiesta del quinto patriarca Konin, solo lo shussô Jinshu osò rispondere. Nonostante la sua modestia e la sua incertezza, finì per scrivere un poema nel quale diceva: “Il mio corpo è l’albero del risveglio, la mia mente è come uno specchio lucente, costantemente mi sforzo di farlo risplendere senza lasciare che la polvere lo ricopra”.

Era questo per lui il senso della pratica di zazen, e definisce un aspetto della pratica della concentrazione. Per fare zazen, il corpo è come un albero radicato nel terreno, che spinge il cielo con la sommità del capo. Quando ci si concentra sulla pratica del corpo, la mente diventa come uno specchio chiaro, l’agitazione mentale si calma. Poiché i pensieri, i desideri, fenomeni di ogni sorta appaiono continuamente, gli attaccamenti si manifestano, Jinshu costantemente si sforza di ripulire il suo specchio, cioè di eliminare la polvere. In zazen, l’atteggiamento che consiste nel voler scacciare i bonno, nello sforzarsi di rimanere in uno stato di non-pensiero, rimane tuttavia un attaccamento al dualismo.

Leggendo il poema del suo discepolo, Konin affermò: “Coloro che faranno di questo poema il fondamento della loro pratica non cadranno più nei tre cattivi sentieri, poiché la pratica ispirata da questo metodo è di grande profitto”.

Attraverso questo complimento, si vede bene che Konin, in fondo, critica la comprensione di Jinshu. Egli ha l’aria di approvare, di congratularsi, ma in fondo tutto ciò che viene detto è che praticando in quel modo non si cadrà più nei tre cattivi cammini, ovvero nei cammini dell’inferno e delle sofferenze senza fine, delle sofferenze dei gaki [gli “spiriti famelici”], di quelle degli animali.

In effetti, è evidente che non ci si è liberati della trasmigrazione. Fino a che si lotta per eliminare qualcosa, se ne dipende sempre, ciò significa che si attribuisce una realtà, una consistenza, alla polvere che ci si sforza di eliminare. È non vedere con chiarezza di cosa si tratta. Si passa il proprio tempo ad affaticarsi e a spolverare lo specchio, ma vi sarà sempre qualcosa che vi si poserà sopra, si sarà sempre disturbati da qualche illusione, da qualche attaccamento. È la pratica con sforzo, prigioniera dell’attaccamento alla purezza e al rifiuto dell’impurità. Attaccarsi ad una nozione e respingerne un’altra non è l’autentica liberazione, è rimanere bloccati nel dualismo.

Siccome Jinshu aveva sentito dire che il suo maestro aveva fatto un complimento al suo poema, osò presentarsi a lui per ricevere la propria designazione. A quel punto, Konin gli disse: “Gli esseri ordinari che praticheranno secondo il vostro poema non cadranno più nei tre cattivi sentieri, ma coloro che aspirano al risveglio supremo non lo raggiungeranno mai coltivando un siffatto punto di vista. Non vi rimane che attraversare la soglia e vedere la vostra autentica natura”.

In seguito a questo dialogo, Jinshu cercò disperatamente di comporre un nuovo poema, ma non ci riuscì, era come bloccato sulla soglia della porta, non poteva entrare né uscire.


Il poema di Eno

Nel frattempo, il giovane Eno, che aveva sentito parlare del poema, disse: “Ma questo non è affatto l’insegnamento del Maestro Konin”. Poiché era analfabeta, chiese a qualcuno di scrivere un poema che egli aveva composto. Il suo poema diceva: “Nella vacuità, non vi è albero del risveglio né specchio lucente, la natura di Buddha è sempre priva di macchia, dove vi si troverebbe della polvere?”

Ritornare alla vacuità essenziale, è la giusta intuizione durante zazen. Ci si rende conto che tutti i fenomeni che sorgono nella nostra coscienza durante zazen non hanno maggior consistenza delle nubi nel cielo e ci si può contentare di lasciarle passare. A quel punto, la nostra pratica diviene libera da ogni oggetto, si può smettere di combattere contro la polvere.

Tutti erano completamente stupiti del poema di Eno. Ma Konin lo criticò dicendo: “Non è ancora questo”.

In realtà, egli diede appuntamento a Eno a mezzanotte e gli insegnò il Sutra del Diamante [un altro fondamentale testo del buddhismo Mahayana], gli consegnò il kesa [la veste del Buddha], simbolo della trasmissione, e si congedò da Eno raccomandandogli di aspettare tre anni prima di cominciare lui stesso a trasmettere il Dharma."

trad. di M. Tonko Peretti



Si possono consultare:

Il Sutra di Hui Neng, Ed. Ubaldini
D.T. Suzuki, La dottrina zen del vuoto mentale, Ed. Ubaldini
Roland Yuno Rech, Eveil graduel Eveil Subit, Ed. Yuno Kusen
Fa-hai, Manifeste de l'éveil, Ed. du Seuil

mercoledì 22 maggio 2013

VESAK IN ITALIA: 25-26 MAGGIO 2013

L’art. 24 dell’Intesa recentemente siglata tra lo Stato e l’UBI (Unione Buddhista Italiana) ha previsto che nell’ultimo fine settimana del mese di Maggio di ogni anno venga celebrato anche in Italia il VESAK, unica festività buddhista ufficialmente riconosciuta dallo Stato (si veda il sito web dell'UBI alla pagina http://www.vesak.it/vesak13.htm).

Quest’anno il Vesak sarà celebrato sabato 25 e domenica 26, data nella quale si verifica il plenilunio di Maggio.

Infatti, mentre secondo il calendario solare le date delle festività sono fisse (es. il Natale, Capodanno, San Giovanni Battista ecc.), per il “calendario buddhista”, che è lunare, i giorni festivi sono mobili, essendo appunto legati alle fasi lunari (come la Pasqua per i Cristiani).


Per il buddhismo, come pure nelle tradizioni hindu, i giorni di luna piena e di luna nuova sono “sacri”, nel senso che sono particolarmente propizi per la pratica spirituale. 

Il VESAK (Vesakha, o Vaisakha, è il nome del mese lunare di Aprile-Maggio) è la ricorrenza più importante per il mondo buddhista, in quanto si celebrano in quel giorno, contemporaneamente, la Nascita, il Risveglio e il Parinirvana (entrata nel Nirvana Ultimo, quindi la morte) del Buddha Shakyamuni. 



Cerimonia per il Buddha bambino

A seconda delle diverse tradizioni, anche altre date ricordano i momenti fondamentali della vita del Buddha: per il Mahayana la festa dell’Illuminazione cade a fine Dicembre (l’8 Dicembre per lo Zen) o ai primi di Gennaio. Per il Theravada il capodanno è in Aprile, e a Giugno la ricorrenza del primo insegnamento del Buddha (a Sarnath, presso Varanasi). Per i Tibetani, è importante tutto il quarto mese (Saka Dawa), durante il quale ogni energia virtuosa generata si incrementa di un milione di volte. Come si vede, in generale il periodo Maggio-Giugno è, secondo tutte le tradizioni buddhiste, molto favorevole per la pratica spirituale. 

In effetti, è questo il vero senso delle festività religiose (non solo buddhiste, diremmo), anche se tale significato si sta rapidamente affievolendo, sostituito dagli aspetti più ludici e commerciali, soprattutto nei Paesi più “avanzati”.


Ma al di là di questi aspetti superficiali, poveri di significato autentico, come pure al di là del folklore, il Vesak si propone anche in Italia come un momento di incontro tra praticanti, e tra i praticanti e l’intera società, come un’occasione di preghiera e di pratica comune, nonché di condivisione della gioia per aver avuto la grande occasione di incontrare la Via e di percorrerla per il beneficio di tutti. 

Quindi, a tutti, a coloro che praticano una Via spirituale e a coloro che non la praticano, Buon Vesak 2013.




mercoledì 15 maggio 2013

Il Sutra del Diamante

Le Edizioni Marietti di Genova hanno recentemente pubblicato una importante edizione del Sutra del Diamante (Vajracchedika Prajnaparamita, ovvero “la conoscenza tagliente come il fulmine-diamante che è andata al di là”), opera indiana del II secolo, uno dei testi più noti e amati della “letteratura della prajnaparamita” (tradizione Mahayana). 




Il testo è tradotto e commentato da Mauricio Yushin Marassi, monaco zen, con trascorsi anche savonesi (liceo scientifico), responsabile della Comunità Stella del Mattino (http://www.lastelladelmattino.org/), docente di religioni orientali presso l’Università di Urbino. Accompagna il commento di Yushin Marassi un saggio di Gennaro Iorio, che ha collaborato anche con il teologo e filosofo Raimon Panikkar. 

Scrive Marassi a proposito della prajnaparamita

“Questa parola è composta da pra, jna, para(m), e ita. Pra è un rafforzativo, jna significa “conoscere”, “avere conoscenza” “essere familiare con”, probabilmente ha la stessa origine etima di “gnosi”; para(m) significa “lontano”, “oltre”, “al di là” e condivide la radice etima con il greco “para”, entrato nella nostra lingua attraverso il latino con il significato di “vicino”, “simile” per esempio in “paranormale” e più raramente nel significato di “oltre”, per esempio in “parafernale” ossia “oltre la dote”. Ita è il participio passato femminile del verbo “i”, “andare”. Anche qui è evidente l’assonanza con il latino. Nel dizionario sanscito l’insieme paramita è tradotto “andato/a all’altra sponda”, “giunto/a all’altra riva” ma anche con “che (pro)viene da/conduce all’altra sponda”, “perfezione in”, “completa realizzazione”. 

Come ricorda l’A., nelle concezioni brahmanico-upanishadiche gli esseri senzienti ruotano incessantemente nel samsara, l’esistenza ciclica condizionata impregnata di sofferenza, a causa dell’ignoranza (avidya) – un errato rapporto con la realtà – da un tempo senza inizio. La salvezza quindi “è funzione di quella conoscenza che dissolve avidya, “ignoranza”, “nescienza”. Di qui l’importanza cruciale dell’identificazione dei mezzi per porsi nella corretta, valida conoscenza. Il passo ulteriore proposto dalla cosmologia del Mahayana indica un conoscere privo di contenuto concettuale che (..) si manifesta come assenza di avidya, invertendo così l’ordine delle cose: se l’assenza di nescienza è conoscenza, questa precede quella, un capovolgimento di grande portata.” 

Prajnaparamita
E per coloro che potrebbero pensare che tutto questo sia sterile “filosofia” – se non addirittura pura accademia -, e pertanto in contraddizione con l’impostazione del tutto pragmatica dell’insegnamento del Buddha, vogliamo proporre un ultimo pensiero tratto dal testo di Yushin Marassi, su cui è opportuno portare la riflessione: “E’ la proposta di una pratica profonda che consiste nel lasciar integrare/trasformare il nostro essere nel risveglio originale abbandonando, non trattenendo momento per momento ogni congettura. Nel Sutra del Diamante si afferma: Il dharma che è stato completamente conosciuto e mostrato dal Così Andato non può essere afferrato né espresso e non è un dharma né un non dharma. E perché? Perché le nobili persona eccellono nel non costruito.” 


Mauricio Y. Marassi e Gennaro Iorio
Il Sutra del Diamante – La cerca del paradiso 
Ed. Marietti 1820, Genova Milano 2011 
Euro 26,00

venerdì 10 maggio 2013

Kusen di Sengyo Van Leuven

Il 25 e 26 settembre 2004 si sono svolte presso il gruppo zen di Savona due giornate di pratica intensiva di zazen (una “mini-sesshin”) con il monaco Sengyo Van Leuven, discepolo del maestro Roland Yuno Rech e attualmente responsabile del Buppo Dojo di Roma http://www.buppodojo.org/index.html

Sengyo Van Leuven, nato in Belgio nel 1959, ha iniziato a praticare lo zen nel 1988, divenendo monaco nel 1992.
Nell'agosto 2011 è stato confermato shuso durante la cerimonia dell' hossenshiki al tempio de La Gendronnière dal suo maestro e abate del tempio Yuno Rech, da cui ha ricevuto la trasmissione del Dharma (shiho).
Attualmente continua a praticare con il suo maestro e a seguire il suo insegnamento e ad insegnare in altri centri Zen in Europa e in Africa.

Pubblichiamo qui i kusen rilasciati da Sengyo Van Leuven durante le due giornate in Savona nel 2004.

I kusen sono insegnamenti orali (KU, la bocca – SEN, l’insegnamento) pronunciati durante lo zazen. La loro specificità è data proprio dal fatto che nascono direttamente dalla pratica, non provengono dalla coscienza personale, non sono teorie mediate dall’intelletto. Ugualmente, il kusen non ha da essere necessariamente ascoltato in maniera cosciente, si dirige direttamente verso l’inconscio del praticante, al di là delle categorie personali di chi lo pronuncia e di chi lo ascolta in zazen.

La trascrizione dei kusen, fatta durante la sessione di zazen (per iscritto e mediante registrazione), mantiene intatta la freschezza e l’immediatezza dell’insegnamento orale, senza ricercare il linguaggio elegante o la perfezione dello stile.

Il mondo è invece una sessione aperta di domande e risposte tra chi dirige lo zazen (in questo caso, Sengyo) e i praticanti, e avviene al termine dello zazen.

La traduzione dei kusen e del mondo è stata curata da Maresa Di Noto, responsabile del gruppo zen di Savona. 

Sengyo Van Leuven


Sabato 25 settembre 2004
Zazen delle ore 8.30


Durante zazen abbiate ben cura della vostra postura. La vostra postura deve essere in equilibrio, a un tempo slanciata verso l’alto, ma dall’altra parte radicata al suolo. La colonna vertebrale è estesa, la nuca tesa, il mento rientrato. E rilasciate tutte le tensioni inutili ora nella vostra postura. Mantenete il taglio delle mani in contatto con il basso ventre, ma rilassate bene le spalle. Lasciate che le spalle cadano verso il basso e all’indietro. Rilassate bene il basso ventre, affinché tutto il peso del corpo possa premere bene al livello del perineo sullo zafu.
Una volta che avete rivisto bene tutti i punti importanti della postura, per aiutarvi a concentrarvi, concentratevi allora sul contatto tra i pollici. Questo contatto è estremamente leggero, non c’è nessuna pressione. Giusto un contatto. Per utilizzare un’immagine, se voi doveste tenere un foglio di carta molto sottile, il contatto dei pollici non lascerebbe nessun segno su questa carta. Avete notato che in certi momenti siete distratti e trascinati dai vostri pensieri. Nel momento in cui notate che state pensando consciamente, che siete persi nei vostri ricordi, nei vostri progetti, nei vostri sentimenti, ritornate immediatamente alla concentrazione sulla postura e egualmente all’attenzione sulla respirazione. Quando lo spirito e il corpo non sono più in unità perché ruminate i vostri pensieri, la respirazione cambia e diviene più rapida, più superficiale, e il corpo non è più ossigenato come sarebbe necessario e ci si schiaccia sul proprio zafu. E questo non è lo scopo di zazen. Invece se corpo e spirito sono in unità, il ventre può rilassarsi e la respirazione diventa ampia, completa, e si utilizza tutta la capacità dei propri polmoni. Si espira a lungo e profondamente e si lascia scivolare la respirazione al di sotto dell’ombelico. E lasciamo fare questa respirazione, non cerchiamo di controllarla col nostro spirito. Ma lasciate andare la vostra espirazione fino al fondo, poi inspirate profondamente e liberamente. Con questa respirazione il vostro spirito si risveglia e il vostro sguardo sarà veramente rivolto verso l’interno. Essere seduti faccia al muro, è proprio per aiutarci a volgere il nostro sguardo verso l’interno. Non c’è nulla verso l’esterno da osservare. Non osservate il muro, ma entrate in contatto con il vostro autentico voi stessi. Osservate come la vostra condizione cambia continuamente. Ma non attaccatevi a uno stato particolare. Lasciate libera circolazione e andate liberamente da uno stato all’altro, e non fatevi delle idee su quello che deve essere un buon zazen. A volte si è più concentrati rispetto ad altre volte, a volte l’equilibrio tra tensione e rilassamento è più profondo. Il nostro stato d’animo cambia, possiamo dunque notare che non siamo un’identità fissa, ma una moltitudine di aspetti, e quindi non possiamo ridurci soltanto a qualcuno di questi aspetti. Certo abbiamo le nostre caratteristiche, ma nella profondità di zazen, là dove siamo in completa unità corpo e spirito, possiamo osservare che anche queste caratteristiche non sono fisse. Che abbiamo una grande capacità di andare liberamente da uno stato all’altro. Lasciamo almeno durante il tempo di zazen ogni attaccamento al proprio carattere, alla propria personalità. Si tratta di vedere questo direttamente, senza giri viziosi, senza analizzare, senza dirsi sono così o sono in quest’altro modo. Praticare zazen è vedere la realtà così com’è. La realtà profonda è che non abbiamo noumeno, che non siamo fissi, che tutto in noi è flessibilità. E che in definitiva siamo come l’acqua e i suoni della montagna, quando supera tutti gli ostacoli e continua il suo cammino senza impedimenti. 

Sabato 25 settembre 2004
Zazen delle ore 18.00


Siete riuniti qui in questo dojo perché fondamentalmente voi volete vivere una vita più elevata rispetto a quella della maggior parte delle persone, una vita spirituale. Per vivere la propria vita spirituale autenticamente occorre sapere come porre la domanda. Si comincia con l’ascoltare i più anziani che hanno già percorso una parte del cammino, che hanno già superato taluni ostacoli, che hanno acquisito una certa conoscenza di loro stessi e del mondo nel quale viviamo. Per vivere la propria vita spirituale evidentemente occorre essere dotati spiritualmente e questo non ha nulla a che vedere con l’intelligenza. Anche il più stupido può vivere al suo livello una vita spirituale pienamente compiuta. Non disturbata da un sapere enciclopedico, che va al di là delle concettualizzazioni e va direttamente all’essenziale. Si tratta dunque di saper porre la buona domanda. Chi e che cosa sono profondamente ed essenzialmente. Come fare per evolvere su una via spirituale. Che cosa è necessario abbandonare e come farlo. Ma che cosa significa abbandonare? Se si crede in qualche cosa di sostanziale, non ci si fa null’altro che del male, volendolo abbandonare. Ci si sacrifica. Si diventa in fondo molto frustrati e infelici. E tutto quello che si tocca si rivolta contro di noi. Se non vi è nulla di sostanziale non vi è nulla da abbandonare. E non vi è nemmeno nulla al quale possiamo tenerci attaccati. Realizzare questo durante la propria pratica di zazen apre l’autentica porta della liberazione. E più se ne fa l’esperienza, nelle proprie ossa, nel proprio midollo, nella propria carne, più è possibile mettere in pratica questa realizzazione nella nostra vita quotidiana, nelle nostre relazioni con le altre persone, nella nostra relazione con la società e i suoi valori. Ma ancora, senza realizzazione non è possibile chiedere nulla, e non si può avanzare. Il Maestro Fayan diceva: “Se non chiedete, non lo otterrete, ma se tu chiedi, sei andato avanti tu stesso”. 



Domenica 26 settembre 2004
Zazen delle ore 8.30 

Durante zazen soprattutto non seguite i vostri pensieri. Non lasciatevi strappare questo momento prezioso che costituisce il tempo che passate qui in questo dojo. Nel Fukan zazengi il Maestro Dogen diceva che quando si entra nel dojo, quando si fa zazen, si lasciano i propri affari dietro di sé.
Oltrepassando la soglia si lasciano dietro di sé le proprie preoccupazioni, le proprie domande, i dolori, la propria sofferenza. Ci si siede tranquilli sul proprio zafu faccia al muro con l’atteggiamento corporeo corretto, il bacino bene inclinato in avanti, la schiena dritta, così come la testa. E si è attenti alla propria respirazione. Il tempo di zazen non è il tempo per risolvere i propri problemi personali. È il momento di osservarsi intimamente e di risvegliarsi nel presente alla realtà così com’è. La nostra realtà in questo momento è che siamo qui riuniti nel dojo per una giornata di pratica. Siamo concentrati su ogni gesto. Nel dojo e al di fuori, in cucina, al caffè. E proteggiamo attraverso il nostro comportamento la pratica degli altri. Se avete delle preoccupazioni, dei problemi, la pratica giusta di zazen, di ogni azione nella giornata, è proprio togliere drammaticità agli avvenimenti della vita quotidiana. Durante zazen possiamo vederci direttamente. Non a partire dalla sofferenza, che troppo spesso deforma le nostre reazioni, il nostro modo di essere nel mondo e con gli altri. Potete comprendere e proprio sbarazzarvi di questo filtro che vi dirige nella vita, capendo che anche gli altri agiscono a partire dalla loro sofferenza, a partire da una sofferenza che è spesso inconscia, le loro paure. Dunque per i praticanti dello Zen capire questo meccanismo, togliendo l’impatto negativo delle reazioni degli altri su di noi e appoggiandosi su questa comprensione, sulle azioni che sono prodotte da ciò che ci circonda per approfondire la propria comprensione di se stessi e per evolvere sulla via spirituale. Improvvisamente la nostra vita diventerà molto più intensa e le nostre relazioni con gli altri più autentiche.

Domenica 26 settembre 2004
Zazen delle ore 11.00 

Concentratevi sulla respirazione e smettete di agitarvi in questo modo. Non date seguito a tutte le piccole voglie che vi invadono, ma vedete l’origine di questi desideri, da che cosa volete fuggire. La via dello Zen è la via della non paura. Non abbiate paura di immergervi nella pratica. Non abbiate paura di abbandonarvi. Non abbiate paura di incontrare voi stessi intimamente. Durante zazen si apprende a dominare il proprio spirito e il proprio corpo. Non abbiate paura del muro davanti al quale siete seduti. Fate fronte a questo muro e a ciò che questo muro riflette. Non abbiate paura di donare tutta la vostra energia alla postura di zazen. Allora, ve ne prego, per favore, inclinate bene il bacino in avanti e raddrizzate la schiena. Più donate alla postura, più la postura vi aiuta a rimanere immobili, sia per quanto riguarda il corpo che per quanto riguarda lo spirito. Vi aiuterà a trovare la stabilità sia corporea che mentale, per affrontare le difficoltà della vita in modo sereno, come superare gli ostacoli. E’ solo vivendo che lo facciamo. Molte persone non vivono, sono vissute dalle loro emozioni, vissute dalla società, allontanate dalla loro vita, dal loro corpo, dal loro spirito. Inizialmente occorre fare uno sforzo per praticare, ma poi, dopo un momento, questo sforzo si dissolve nella pratica stessa, e si è portati dalla pratica. Non si ha più bisogno di sforzi per affrontare le difficoltà, non si è più annientati dai contrattempi che la vita ci presenta. Si vive solo in unità corpo e spirito, continuati sempre in modo nuovo. Spesso le persone sono condotte alla pratica da una grande sofferenza, dal sentimento che la vita sfugga loro. E hanno sviluppato a quel punto dei meccanismi per non dover affrontare la vita, per non dover affrontare il loro karma. Invece di risolvere in profondità la problematica della vita e della morte, girano in tondo, non fanno altro che rimestare il loro karma cercando di non annegare. Ma in effetti è quello che fanno di nuovo ogni giorno. Se voi volete migliorare la vostra vita occorre una determinazione totale. Occorre che vi lasciate dietro il meccanismo che avete sviluppato e zazen può proprio insegnarvi quali sono i vostri meccanismi, in qual modo vi fanno del male e come fanno del male agli altri e come disturbano la serenità degli altri, in particolare nel dojo. Occorre essere attenti a sé, al proprio comportamento. Privilegiare la pratica degli altri, senza disturbarla. E’ con il vostro corpo che potete imparare come attraversare le difficoltà. E’ con il corpo che possiamo tranquillizzare lo spirito. Per questo è raccomandato di non muoversi nel dojo, di fare il minimo rumore possibile, di non cedere di fronte al minimo dolore, all’impazienza. Di non cedere rispetto al dominio del vostro ego sulla vostra vita. La vera vita è senza ego. In zazen si abbandona il proprio ego, il suo funzionamento per sopravvivere. Prendiamo contatto con un’altra dimensione della vita autentica. Per questo il tempo di zazen è un tempo prezioso. Si può prendere distanza, fare un passo indietro ed osservare. Senza che vi mettiate a seguire la minima agitazione. Non serve a nulla, nelle opere del buddismo, dello Zen, cercare di capire intellettualmente. Lo Zen è una pratica. Ogni volta che non seguite un desiderio, una cosa che vi fa fretta, che controllate il vostro corpo, vi fermate e non vi muovete, potete realizzare una parte del percorso. Non potete capire la Via intellettualmente. Questo non vuol dire che non si debba comprendere la Via. La comprensione non può realizzare la Via, e la non comprensione ancora meno. Per favore non perdetevi nelle concettualizzazioni o nelle razionalizzazioni e soprattutto siate onesti con voi stessi, con la vostra natura. E non perdete il vostro coraggio.

Domenica 26 settembre 2004
Mondo 

--- Se avete una domanda alzate la mano e venite a porla qui…. Se non ci sono domande ci voltiamo e continuiamo zazen…. Tutto è chiaro per voi?

--- Si parla spesso di pratica nella vita quotidiana. Vorrei se possibile approfondire questa idea della pratica nella vita quotidiana, sia perché ho sempre difficoltà a questo proposito, sia da un punto di vista più pratico, ad esempio per quanto riguarda la pratica dello zazen quando non ci sono sesshin, quando si è da soli, se è utile, se è qualcosa di buono, in quale misura; sia da un punto di vista di un atteggiamento concreto nei confronti di una società come la nostra, nel caso in cui se qualcuno non viola i precetti o almeno qualcuno di essi, si è considerati quasi al di fuori della società o del lavoro, come ad esempio il precetto di non mentire, o il precetto di non essere avidi. Spesso capita che invece essere avidi sembri un dovere sociale. 

--- Praticare zazen è compiere una rivoluzione interiore. Bisogna vedere la realtà da due lati. Dal lato dell’assoluto, nel quale tutto è ku, tutto è vuoto, ma anche dal lato dei fenomeni, nel quale siamo confrontati. Viviamo in una certa società, con certi valori, che non sono necessariamente i valori difesi all’interno di una pratica spirituale, come per i praticanti dello Zen. Occorre realizzare in sé i precetti che abbiamo ricevuto e che tu hai promesso di proteggere, ma al tempo stesso non devi metterti al di fuori della società, non vivere ai margini. Ma egualmente comprendere cosa vogliono dire i precetti nella tua pratica, e poi cercare di metterli in pratica nella società. Se sei riuscito a non emarginarti già da prima, se sei bene integrato, anche se non segui i valori della società fai comunque parte della società e al tempo stesso se tu preservi i precetti offri la tua parte per il cambiamento della società. Puoi diventare un esempio di un altro modo di vivere che è molto più appropriato rispetto all’esistenza umana, che è molto più vicino a quello che è un essere umano, e quindi essere un esempio per coloro che ti circondano. Spesso se facciamo così abbiamo un certo impatto sul modo di pensare degli altri. Ed è così che si crea una rivoluzione, dolce, prima di tutto in sé. Perché già praticare zazen è fare una rivoluzione interiore. Ricevere i precetti, in rapporto alla società è già una rivoluzione. Se metti in pratica l’altruismo, che è l’origine di tutti i precetti, delle Paramita, le sei Perfezioni, porti la pratica nella vita quotidiana. E quindi porti anche un certo grado di compassione e di comprensione. Penso di averne parlato ieri o questa mattina, non ricordo più. Più vediamo in profondità, durante zazen, la natura delle cose, più riusciamo a integrarle in un modo naturale. Non diventano più delle costrizioni, ma dei valori fondamentali secondo i quali possiamo vivere e che diventano un esempio per gli altri. Non sei solo, ci sono molte vie spirituali e religiose che comprendono questo, potete parlare insieme, e di tanto in tanto si vedono dei movimenti simili nella società. Un anno e mezzo fa c’è stato un grande movimento per la pace, che continua ancora. E’ proprio una certa parte della società che dice: non siamo più d’accordo con i valori che ci impone la società. Evidentemente i responsabili non hanno voluto sentire questo, e ne viviamo le conseguenze ora. Se osservi questo da vicino, troverai un incoraggiamento per continuare, perché da un lato capisci l’essenza, i fenomeni, e l’armonia tra i due, e quindi continui senza stancarti, e troverai una grande determinazione per continuare la pratica e la propria comprensione, lasciandoti impregnare da quello che si è osservato durante zazen e traducendolo nel proprio comportamento. Delle volte con un po’ di volontà, ma più la comprensione è profonda più questa cosa diventa naturale e più rimane l’armonia con la società senza tuttavia difenderne i valori. Potrai lavorare dall’interno per portare dei cambiamenti per la società, e la società è già comincia certamente con le relazioni dirette che abbiamo, la famiglia, i vicini, il lavoro, i colleghi, e così di seguito. Ma bisogna cominciare pian piano, con ciò che ti riguarda direttamente. Non a un livello elevato, quello che tu fai, come tu vivi, è molto più importante, piuttosto che tenere grandi discorsi per opporsi a certi fenomeni. Ma ancora una volta per restare in contatto da un lato, e dall’altro rimanendo fedele a ciò che hai ricevuto con i precetti, rimanendo fedele all’insegnamento del Buddha. Capisci ad un tempo la vacuità ma anche la realtà che è, rivoluzionerai poco a poco il tuo ambiente circostante, e quindi le persone cominceranno a prendere esempio da te, la cosa si allargherà. Mettere in pratica nella vita quotidiana gli insegnamenti dello Zen è capire principalmente il Sandokai, l’armonia tra l’essenza e i fenomeni, capire profondamente la vacuità delle cose, quello che tu puoi sperimentare durante zazen, e con questa comprensione andare verso i fenomeni, incontro ai fenomeni. Proprio per non lasciarti guidare dai fenomeni, ma per capirli nella loro interdipendenza, e a partire da quello, agire. Non si tratta solo di dire che tutto è vacuità, quello che è un insegnamento dello Zen, ma l’altro versante dell’insegnamento dello Zen è anche che i fenomeni esistono, quindi bisogna che tu trovi in te questo equilibrio tra i due, e si impara questo durante zazen, almeno se si pratica autenticamente. Non si seguono i propri desideri, il desiderio di grattarsi il naso, di muoversi, o qualunque altra cosa. Si fa astrazione dai propri dolori, si capisce meglio il proprio corpo, ed è così che i fenomeni che sorgono durante zazen passano e sono finiti quando zazen è finito. Quando zazen è finito, è finito il male alla schiena, alle ginocchia. Ci da una certa resistenza che possiamo utilizzare anche nella nostra vita quotidiana. Ci da una forza per rimanere fedeli alla nostra autentica natura, per non essere invasi dall’immensità dei fenomeni della società. E per questo bisogna capire l’interdipendenza tra i fenomeni nella società, e mettere in pratica la pratica dello Zen nella vita quotidiana comincia da questo. E poi dipende dalle proprie capacità per allargare questa traduzione dell’insegnamento e del tuo vissuto durante zazen nella vita quotidiana. Non è una stregoneria, ma è poco a poco, attraverso ogni realizzazione che abbiamo in zazen, portarla nella propria vita quotidiana. E questo può cominciare da come mettere a posto la propria casa, come tenere la propria persona, i propri abiti, come muoversi nell’ambiente. Comincia da questo, non è necessaria molta filosofia, ma mettere in pratica il proprio vissuto di zazen in tutte le piccole cose della vita quotidiana. Non bisogna cercare grandi opere, ma come comportarsi, con compassione, comprensione, generosità e saggezza nella propria relazione diretta, è già molto. Sono sicuro che se riesci veramente a fare questo, cambierai le persone, e le persone vuol dire la società. Già durante la tua vita, ma soprattutto dopo la tua morte. Quelli che ti sono stati vicini per onorarti si chiederanno che cosa rappresentavi, quali erano i tuoi valori, cosa possono fare per mettere in pratica, per onorare P. dopo la sua morte. Che cosa è meglio invece evitare, quali sono i tuoi difetti, ma anche quali sono le tue buone qualità. Spesso le persone hanno un orgoglio, ma poi mettono in pratica questi valori. Si vede questo con i bambini, prima si rivoltano contro i genitori, nell’adolescenza, fanno tutto il contrario di quello che i genitori hanno fatto. Ma se i genitori hanno veramente certi valori e caratteristiche che portano la serenità nella vita, si dicono: mio padre, mia madre, mia nonna, diceva sempre… e cominciano a dire così. Le persone seguono degli esempi, per questo è molto importante mettere in pratica il proprio vissuto di zazen. Ma questo comincia con le piccole cose. Puoi sempre aderire ad associazioni che difendono cause più grandi, che sono per la pace, per la difesa dell’ambiente, per la tolleranza, contro il razzismo, per l’eguaglianza degli uomini. Per scegliere, bisogna conoscere un poco gli insegnamenti del Buddha, per vedere che già il Buddha era molto egualitario, per quanto riguarda la redistribuzione delle ricchezze, perché tutti abbiano un pezzo di terra da coltivare per nutrirsi, il lavoro sia pagato adeguatamente. Queste non sono idee che invento ora, non sono idee politiche che metto avanti, ma sono cose che ho letto nei Sutra. Dunque è molto semplice: amare il proprio prossimo e vegliare sul benessere di tutti gli esseri. E’ già un vasto programma, ma poco a poco, come ti siedi, come ti sistemi, come vai alla toilette, il tuo modo di dire buongiorno, questo è già mettere in pratica gli insegnamenti dello Zen nella vita quotidiana. E’ molto semplice, molto diretto, molto concreto. Niente grandi idee, niente grandi filosofie. Non c’è bisogno di discutere molto. Come si è nella vita, come si è nel mondo, è questo che importa. Questo è l’insegnamento dello Zen, e non si ferma al dojo. Le regole del dojo ci sono, ci aiutano, ma non si fermano qui. Ti basta?

--- Grazie.

L'altare del dojo di Savona
--- Altre domande? 

--- In questi ultimi mesi, anzi ormai da parecchi mesi, mi trovo sempre più spesso di fronte, in una maniera molto diretta, molto violenta in certi momenti, alle mie emozioni. Emozioni che non sapevo di avere dentro di me in una misura così forte, e che in certi casi non sapevo proprio di avere. Mi hanno stupito. Anche emozioni negative, rabbia, collera, una estrema reattività a situazioni di per se stesse anche abbastanza banali, semplici. E anche emozioni invece più dolci, più tenere, ma sempre vissute in una maniera direi quasi eccessiva. E in tanti casi ho anche avuto paura di esserne travolto e che questo potesse influire negativamente sui miei rapporti con gli altri. Ecco, ora vorrei chiederti: come posso rapportarmi con queste situazioni quando si presentano?

--- Durante la pratica osserviamo, poi tutto passa. Poiché nulla è così importante. E impariamo anche a prendere distanza. Durante zazen ci sono molti fenomeni che sorgono. Male alle ginocchia, alla schiena, pensieri, ricordi, sentimenti, ma non possiamo muoverci. Non potendoci muovere, possiamo fare un passo indietro e osservare ciò che c’è. E attraverso questo togliere drammaticità. E come prendiamo questa distanza? Concentrandoci sulla nostra respirazione. Se si è troppo agitati nella testa, la respirazione cambia. Una volta che ci si rende conto di questo fatto, possiamo lavorare coscientemente sulla respirazione ed espirare profondamente. I dolori scompaiono, i sentimenti passano, tutto passa, in quel momento. E’ in questo modo che si impara come non essere invasi dai fenomeni. Siamo sicuri nel dojo e se rimaniamo in contatto con la nostra pratica tutto passa. Questo non vuol dire che si debba accettare tutto. Ci sono situazioni che non sono giuste, e bisogna agire. Ma si può solo agire in un modo giusto, con sufficiente saggezza, se si è imparato a prendere questa distanza, in rapporto ai propri sentimenti. E quindi se si è in grado di non essere invasi. I sentimenti sono sempre dei cattivi consiglieri per una azione, soprattutto quando sono estremamente violenti, quando partono da dentro. Questo è un aspetto. Si impara a prendere la distanza, abbiamo notato che la respirazione aiuta molto a prendere questa distanza. Si osserva da dove tutto questo viene, questi sentimenti, o questi dolori, ne si vede la natura. Questo è un lato. Se ne vediamo la natura possiamo lasciar passare.
Dall’altro punto di vista impariamo durante zazen quale è il nostro tema di vita. E’ come una sinfonia, c’è un tema e questo tema quando si pratica autenticamente è pieno di felicità e di gioia. Ma poi, nella vita ci sono delle variazioni su questo tema, ci sono melodie gioiose, molto “trallallà”, ci sono melodie tristi, ma il fondo, il tema, rimane sempre lo stesso e c’è sempre questa serenità e gioia di vivere, questa tolleranza e accettazione che si ha verso i fenomeni e gli altri. E che forma la base del nostro comportamento. E quando ci sono melodie tristi, non dobbiamo perdere di vista il tema. Questo vuol dire che non siamo più invasi dai sentimenti. Siamo tristi, ma non perdiamo in profondità la gioia. Non è al punto che ci si suicida. Manteniamo fiducia rispetto al fatto che questa melodia si trasformerà di nuovo e che rimarrà intorno a questo tema, e così possiamo continuare nella vita. 
In terzo luogo, ormai sono anni che tu pratichi, sei monaco, sai come praticare. Se sei di fronte ad una situazione che ti provoca molti sentimenti, molte emozioni, entri in contatto con il tuo corpo, ti risitui nel tuo corpo, vedi le tensioni create da questa situazione, e prendi contatto con il tuo soffio, e poi le cose diventano molto più chiare. Sono sempre lì, ma non ci dirigono più. La maggior parte delle persone sono dirette dagli istinti, dalle loro emozioni di ogni tipo, non riflettono. Un monaco Zen può prendere distanza, attraverso la sua esperienza nel dojo, e osservare da dove viene e dove va. A volte abbiamo periodi in cui ci sono più emozioni rispetto ad altri, ma non sono che periodi. Se tu sei centrato nella tua pratica, nel tuo corpo, nel tuo soffio, non perderai la direzione. Perché puoi riportare tutto alla pratica. Le astuzie dell’ego che provoca tutte queste emozioni non ci sorprendono più, ma sappiamo che fluttueremo da un periodo a un altro a un altro… Ma tutto questo in effetti non è molto importante, non è importante se abbiamo molte emozioni in un certo periodo o no, quello che ne facciamo, è questo che è più importante. Come riusciremo a ricondurre queste emozioni alla pratica, come manteniamo il contatto, come integriamo realmente il nostro vissuto della pratica nel dojo, nella nostra personalità. Come ce ne lasciamo impregnare. Cioè quando cessiamo di creare una dicotomia tra il dojo e l’esterno. Quando non c’è separazione tra il tempo che passi qui e il tempo che passi fuori. La pratica non è qualcosa che è in più, ma che si ancora sempre di più nella tua vita. E poi è normale avere delle emozioni, non è negativo, a volte è positivo anche sentire la collera, farla uscire. Occorre osservare da dove viene questa collera, non perdere il contatto con la collera; non sbattere le porte, rompere i piatti, ma rientrare nel corpo, nel respiro, e poi agire. Un monaco Zen ha il karma delle proprie azioni. Se agiamo condotti dalle emozioni creiamo molto cattivo karma. Se prima di agire vediamo le conseguenze di certe azioni potremo sceglierle e saranno molto più adatte alle situazioni. Non è male avere emozioni, anche negative, è lasciarsene trasportare. Molti Santi hanno provato collera per le ingiustizie, ma non si sono lasciati accecare. Hanno sempre visto le conseguenze. La collera non risolve molto, ma è il sintomo di qualche cosa, bisogna cercarne le radici. Le emozioni anche negative non sono cattive. Se rimani centrato tutto andrà bene. 

--- Grazie.

Domenica 26 settembre 2004
Zazen delle ore 16.30

Abbiamo passato un week end insieme a praticare, la cucitura, la cucina, lo zazen. Un week end in cui abbiamo avuto l’occasione di guardare nelle profondità di noi stessi. Ma non è ancora finito, dunque non lasciate sfuggire un’ultima possibilità di risvegliarvi alla realtà della vostra vita. Fate un ultimo sforzo per tenere una buona postura, per respirare profondamente, e spero che ora il vostro spirito sia molto più calmo rispetto all’inizio del week end.durante zazen smettete di crearvi delle opinioni. Se voi smettete di farvi delle opinioni, dei giudizi rispetto al vero o al falso, se smettete di perseguire alcunché, in particolare le idee che avete sullo Zen e se rimanete solo seduti faccia al muro sul vostro zafu, le burrasche dello spirito si calmano. Nel momento in cui ricominciate a giudicare, a fare delle categorie, a sentirvi feriti, offesi, o il contrario, se vi sentite oggetto di lodi, il vostro spirito è catturato da una improvvisa attività e chiudete la porta per entrare in contatto per entrare in contatto con l’autentica realtà della vostra stessa vita.Non date seguito al dominio che i vostri sentimenti, le vostre emozioni, cercano di avere, ma nemmeno respingetele. Riconoscetele, accettatele, come facenti parte di voi stessi. Ma non cadete nella loro trappola. Non dimenticate le vostre esperienze in questo week end. Non cercate altrove. Non desiderate un’altra luce, un’altra realtà. C’è solo una realtà, e dovete viverci dentro. E per questo smettete con i giudizi, su voi stessi, sugli altri. Solo, vivere. Se si è nella realtà della propria vita, nulla può impedirvi di praticare. Apritevi agli insegnamenti della vita, con la luce di zazen. E’ quello che vi auguro. Continuate. Abbiate fiducia, in voi, nella vostra pratica, nella Via.

La morte, la sofferenza, la guarigione

Nel corso di un ritiro tenutosi in Italia nell’ottobre 1999, Claude Anshin Thomas, maestro zen americano, autore del volume “Una volta ero un soldato” , ha rilasciato degli interessanti insegnamenti sui temi del lutto, della perdita, della sofferenza, che qui vogliamo proporre.
Su Anshin Thomas si vedano il post
e il sito



Domande e risposte sul tema del lutto

Claude: Nei due giorni scorsi vi siete incontrati in piccoli gruppi, praticando la consapevolezza della parola. La prima volta non c’era un argomento specifico, la seconda invece sì. Oggi, ci ritroviamo tutti insieme e voglio farvi una domanda: vorrei che prendeste in considerazione il lutto. Quale esperienza fate del lutto nella vostra vita e cosa fate per evitare il dolore?

D: La sofferenza c’è ogni volta che viene a mancare una persona, c’è anche prima, durante la malattia. Quando la persona cara muore, continuo la preghiera e il mio cuore è in pace. Mi dico: "Ora è nelle mani del Signore, io posso solo pregare". E il lutto finisce. Questo mi è possibile perché ho lasciato la mia famiglia quando avevo 20 anni e mi sono abituata alla separazione. Penso che non sarebbe lo stesso se la persona mi vivesse accanto. È un paragone sciocco, ma quando è morto il mio cane che viveva con me, il lutto è durato di più. [...] Alla fine io non voglio guardare in faccia la morte, metto via le fotografie delle persone morte e continuo a pensare a loro come se fossero vive, non vado neanche ai funerali.
D: Vorrei parlare subito, perché questo argomento mi commuove di sicuro. Ho avuto solo l’esperienza della morte di mio padre. Anche i funerali di persone che non ho conosciuto mi commuovono moltissimo, fare le condoglianze è qualcosa che mi causa sofferenza...
D: A volte ascoltando la radio, mi giungono notizie di morti e mi assale la disperazione.

Claude: Le emozioni non vengono dall’esterno e le notizie non ci procurano emozioni. Non è la morte di un amico a procurarci tristezza: queste situazioni ci offrono l’occasione per toccare la nostra tristezza, la nostra paura, la nostra solitudine, la nostra disperazione. Quando puntiamo il dito verso qualcuno, ci liberiamo delle nostre responsabilità, per non accorgerci della natura della nostra sofferenza.
La mente può suggerirmi che se nascondo le foto nel cassetto, non avvertirò la perdita; se non ascolto la radio, non proverò dolore; se non vado ai funerali non sarò triste, non piangerò. Non sono le notizie, le fotografie a generare questi sentimenti in noi, si tratta semplicemente di avvenimenti che accadono nel tempo e nello spazio, sono degli attimi che ci consentono di avvicinarci alla natura della nostra sofferenza. Quando proviamo queste sofferenze e sappiamo che sono nostre, allora finalmente c’è la possibilità per la guarigione e la trasformazione. Fino a quando penseremo che sono le notizie, le foto, le cerimonie, possiamo anche pensare che se non andiamo al funerale non ci sentiremo tristi. Sentirsi semplicemente tristi, questo è il Dharma; questo è il modo in cui la pratica ci offre un servizio: addentrandoci in questa tristezza, non sapendo da dove venga, né a cosa porti: l’insegnamento del non conosciuto.
Non ci si può distogliere dalla tristezza né trattenerla, questo è l’insegnamento della via di mezzo. Allora saremo capaci di sperimentare il lutto. [...].
Portare il lutto è un processo molto naturale. Vivere in maniera diversa vuol dire impegnarsi nel processo di portare il lutto, di lasciare andare il desiderio egoistico, l’avidità e fare un passo verso il non conosciuto.
Attraverso il processo della perdita, noi sperimentiamo il lutto. La perdita più grande potrebbe essere... non so, le chiavi della macchina, non sappiamo quale potrebbe essere. Provare a immaginarlo è sofferenza, non è abbracciare l’insegnamento del non conosciuto. [...].
Portare il lutto non è sofferenza, ma guarigione e trasformazione: dategli il benvenuto, abbracciatelo, e saprete che passerà. Il Buddha ha insegnato l’impermanenza e la mancanza di un sé in tutte le cose. La mia natura è di invecchiare, di ammalarmi, di commettere errori, di essere confuso, la mia natura è di illuminarmi, di vivere la gioia. La sofferenza sta nel fatto che non siamo capaci di vivere questa natura.
Restare aperti a tutte le gioie e i dolori dell’universo, non aspettarsi che niente al di fuori di noi ci procuri stabilità e felicità. Quando lascio andare le aspettative, solo allora ho la possibilità di vivere la realtà del non conosciuto e di venire nutrito dall’amore e dai doni dell’intero universo; e potrò incontrare gli altri esattamente dove sono.
Sono triste per le persone che hanno lasciato il ritiro, per alcuni un po’ meno di altri: anche questa è la verità e vivendo nella verità di ciò che è in ognuna di queste esperienze si trova la chiave della mia illuminazione. Senza respingere nulla e senza attaccarsi a nulla. In realtà posso vedere quando sono attaccato e quando sto rifiutando, questo è il dono della pratica, questo è l’aiuto che ci danno gli strumenti della meditazione e nel momento di consapevolezza posso semplicemente permettermi di sentire il lutto.
Procedere lungo questo sentiero, indossare quest’abito, a volte mi fa sentire molto solo. Quando la gente siede in un angolo bevendo vino e fumando, divertendosi, non sono lì. Ma sono lì quando stanno per vomitare nel bagno, allora posso tenere loro la mano e confortarli. Posso far loro visita quando stanno per morire di cancro. In ogni momento mi sento tremendamente triste perché non posso aiutare nessuno a risvegliarsi, non ho alcun potere. Posso solo vivere ciò che mi è stato dato.
Quando ero molto giovane, avevo solo 18 anni, mi sono ritrovato seduto da solo nella giungla del Vietnam, tutto intorno a me c’erano solo morti o persone che piangevano la perdita dei loro cari. Ero coperto di sangue e sporco di fango, ero terrorizzato. Non avevo alcuna idea di come reggere ciò che stavo vivendo e dunque costruii dentro di me una prigione con delle mura molto alte per impedire a dei sentimenti così potenti di emergere, di avere accesso al mio sé.
Ho continuato a ricreare la violenza nella mia vita, contro gli altri, contro me stesso e tutti gli esseri senzienti.
Quando avevo 36 anni sedevo su una spiaggia e a un tratto iniziai a piangere per il ragazzo di 18 anni a cui non era mai stato concesso di avere 18 anni. Mi sentii davvero arrabbiato, confuso perché ormai avevo 36 anni e non più 18. Ma prima di poter vivere la mia età attuale, dovevo vivere i miei 18, 19, 20... anni, dovevo farne esperienza per la prima volta, e non nascondermi da loro. Fu questa la pratica che mi sostenne, mi nutrì e mi incoraggiò lungo il cammino. Portando il lutto abbiamo la possibilità di risvegliarci. [...].

D: Quando una persona muore, chi le era accanto sta molto male. Dopo un certo tempo può accorgersi che può continuare a comunicare: si tratta di una comunicazione diversa da quella precedente? L’altro può venire disturbato da questa comunicazione?

Claude: In realtà hai fatto diecimila domande e non una sola e nella tua domanda inoltre ci sono molte supposizioni.
Uno degli insegnamenti principali del Buddha è quello del non conosciuto: noi non possiamo conoscere il prossimo istante e la nostra responsabilità consiste proprio nel fare un passo nella direzione del non conosciuto e di portare testimonianza. Io non so se sia possibile o meno comunicare con i morti, non so se ci sia una vita dopo la morte, non ne ho idea. E non ho mai incontrato nessuno che potesse dire concretamente di aver fatto esperienza di un tale processo, del morire e rinascere di nuovo. Non mi metto a discutere su questa ipotesi, semplicemente non lo so.
Quando parlo con qualcuno che è vivo davanti a me, non so se mi sente, se mi capisce. Deve essere vero quindi anche nell’altro caso. L’abilità delle persone ad ascoltare è direttamente connessa alle cause e ai condizionamenti della loro vita, alla natura della loro sofferenza. La maggior parte delle persone non ascolta, interpreta.
Per ascoltare devo essere veramente presente e ascoltare ciò che viene detto, non ciò che penso venga detto: ascoltare senza fare nessuna interpretazione. Qualcuno mi chiede di raccogliere una scatola, devo soltanto tirarla su, non devo andare oltre. Ma molti, quando dico: "Raccogli la scatola" pensano: "Ma perché mai vuole che raccolga la scatola, quali sono le sue intenzioni? È un test?". Questa è la natura della sofferenza; quando dico di raccogliere la scatola sto dicendo semplicemente questo. È anche abbastanza vero che le persone non sono chiare nella loro comunicazione, non sono dirette sul punto. Se qualcuno vuole che io raccolga quella scatola, potrebbe però dire: "Accidenti, ma che cosa ci fa quella scatola lì?". Al che io potrei rispondere: "Non lo so". E allora l’altro si arrabbierebbe perché non ho raccolto la scatola: ma non me lo ha nemmeno chiesto.
Io rispondo semplicemente a ciò che mi viene messo davanti, non posso fare nient’altro. Non posso essere altro da ciò che sono e impararlo è il dono della meditazione, il dono degli insegnamenti buddhisti.
Risvegliarci alla natura della nostra sofferenza, alle cause e condizionamenti della nostra vita che ci impediscono di vivere pienamente. Quando mi risveglio alla natura della mia sofferenza, posso imparare ad accoglierla con benevolenza e solo allora inizierà a essere trasformata.
Nessuno muore mai veramente; si cessa di esistere in questa forma. Le persone possono non essere più presenti davanti a me in modo da poterle toccare in senso fisico, ma sono ancora vive in me quando penso a loro, quando le ricordo e dunque posso sentirmi libero di parlare loro.
Parlo spesso con mio padre che è morto nel 1973 e non so se mi senta o no, non importa. Gli parlo comunque e più sarò in grado di vivere pienamente, più chiaramente potrò parlargli. Molte delle conversazioni che faccio con mio padre non hanno nulla a che vedere con lui. Ma hanno a che fare con me.
Durante il servizio militare in Vietnam mi sono reso responsabile della morte di diverse centinaia di persone. Esse sono vive in me, posso vedere i loro volti, le circostanze delle loro morti e sento profondamente la mia responsabilità per la loro morte. La mia comunicazione con loro sta nel vivere la mia vita in modo diverso, risvegliandomi alle cause e ai condizionamenti della mia vita che mi portarono a decidere di andare volontario in guerra e di trovarmi nella situazione di causare la loro morte. Cammino con loro, vivendo la mia vita in modo diverso, espiando per le mie azioni, in modo che le loro vite non siano state sprecate.
Con mio padre esamino continuamente il mio rapporto con lui, anche se è morto ormai da 26 anni.
Dobbiamo ricordarci che ci sono due tipi di karma: quello che ereditiamo e quello che creiamo noi, non sono la stessa cosa ma non sono neanche diversi. Il karma che creo è connesso con quello che ho ereditato. Mio padre è dentro di me, è in questo senso che comprendo la reincarnazione. Non è che mio padre nasca nuovamente, ma nasce e vive in me e nel momento in cui guarisco, anche mio padre che è in me guarisce.
A volte la tristezza che sento è più grande del momento e comprendo che non sto soffrendo solo la mia tristezza, ma anche quella delle generazioni passate. Quando riesco ad accogliere tutta questa tristezza con gentilezza amorevole, allora potrà iniziare a essere trasformata. Così posso guarire mio padre, mia madre, che sono in me. Posso guardare tutte le generazioni passate attraverso ogni spazio e tempo, così come quelle future. È questo il dono di vivere la mia natura del risveglio. Quindi non mi interessano i concetti, ossia se sto disturbando il karma di qualcuno.
Risvegliandomi a ciò che mi tiene intrappolato in questa sofferenza vuol dire che smetto di fare le cose che mi tengono intrappolato nel ciclo della sofferenza.
Come posso affrontare la realtà delle persone che ho ucciso? Non posso restituire loro la vita, ma posso celebrare questa vita, smettere di distruggere questa vita perché attraverso di me loro sono ancora vivi: posso sentirli non con le mie orecchie ma con tutto il mio essere. Mi stanno dicendo: "Non permettere che le nostre vite siano state sprecate, siamo morti per mostrare al mondo che la violenza non è la via, la violenza non è una soluzione, la guerra non è una soluzione". Allora, per prima cosa, devo smettere di essere violento con me stesso ed è questo il modo in cui la pratica mi sostiene. [...].