giovedì 7 novembre 2019

Azione e non-azione nel Taoismo e nell’Induismo


 Tre sono le principali dottrine tradizionali che è possibile individuare nella plurimillenaria storia della Cina:
-          il Taoismo e il Confucianesimo, che sono parte integrante della cultura cinese originaria
-          il Buddhismo, che si diffuse in Cina, provenendo dall’India del Nord e del Sud, a partire dalla metà del I secolo d.C.
Ognuna di esse sfugge alle categorie con cui in Occidente si è cercato di “definire” in qualche modo le Vie Spirituali, le Vie di Saggezza e di Liberazione, soprattutto orientali. Si parla infatti sovente di “religione” a proposito del Buddhismo, del Taoismo, del Confucianesimo, dell’Induismo, nello stesso modo in cui se ne parla per l’Ebraismo, il Cristianesimo, l’Islam. Oppure vengono definite “filosofie”, come avviene per gli insegnamenti di Aristotele, Kant, Marx o Croce.
In realtà i termini “religione” e “filosofia” sono apparsi molto più tardi nelle lingue dell’India, della Cina o del Giappone, e solo dopo che quelle civiltà erano venute in contatto con l’Occidente. Esse infatti non conoscevano, non ammettevano, la distinzione tra sapere filosofico, religioso, scientifico, sociale: le varie dottrine costituivano invece le forme, le modalità specificamente assunte dalla Conoscenza Tradizionale, di per sé unica, nel suo adattarsi alle necessità del tempo e degli ambienti.
È significativo a questo proposito il fatto che il termine Taoismo, con cui l’Occidente designa ciò di cui qui si parla, tragga la sua origine da Tao, parola della lingua cinese alla quale gli Occidentali hanno aggiunto il consueto, inflazionato, perfino irritante, suffisso –ismo, che risponde all’eurocentrico bisogno di definire, concettualizzare, categorizzare, storicizzare ciò che in realtà sfugge alle definizioni, ai concetti, alle categorie, alle storicizzazioni.
E il termine Tao (o Dao, a seconda della traslitterazione) è correttamente traducibile proprio con Via, Sentiero, nonché metodo, disciplina, dottrina, padronanza di un’arte.
Tao è traducibile, forse, ma non è comunque definibile con concetti.
È detto nei testi: “Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao, il nome che può essere nominato non è l’eterno nome”.
E ancora: “Io non conosco il suo nome, lo designo come la Via”.
Il Tao è il Principio Primo, il Sostentatore, la Meta. È l’Assoluto privo di origine che di tutto è l’Origine. È la Realtà Ultima nella sua totalità, è privo di connotazioni antropologiche. È trascendente, ma anche immanente, poiché è il corso naturale delle cose: è la Via, ed è anche le vie, nella loro specificità. 
L’ideogramma Tao può aiutare a comprendere quanto si è detto:



Esso è composto da due parti: una, chuò (camminare), raffigura un piede che lascia delle orme:

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L’altra parte, shou (testa), è a sua volta composta da due elementi. Il primo è (occhio), ovvero ciò che rende riconoscibile un volto, la consapevolezza di sé:


Il secondo, sulla sommità, è composto da due segni che richiamano delle ciocche di capelli raccolti sul capo, così come erano portati da persone di alto rango:
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L’insieme raffigura quindi una persona che ha piena consapevolezza di sé (mostra il suo volto) e cammina speditamente sulla strada che ha scelto, lasciando delle tracce per chi intende seguire lo stesso sentiero.

Il Taoista è quindi colui che studia, pratica, percorre la Via del Tao, incamminandosi verso l’Origine, verso l’Armonia con la Sorgente del Tutto. In tal senso il Tao costituisce sia il cammino sia la meta.
Innumerevoli sono gli aspetti della dottrina taoista, le cui origini vengono fatte storicamente risalire al VI-V secolo a.C., ma in realtà quella è l’epoca in cui essa fu sistematizzata, codificata. Nel Taoismo si ritrovano infatti elementi dello sciamanesimo, delle tradizioni alchemiche, del simbolismo cosmologico del Libro dei Mutamenti (Yijing) e molti altri ancora, ovvero insegnamenti e pratiche che risalgono a quella che in Occidente, in mancanza di “documenti”, si è soliti chiamare pre-istoria.
Secondo quanto scrive Vincenzo di Ieso, (Li Xuanzong), responsabile della Chiesa Taoista d’Italia, i principi fondamentali del Taoismo, in estrema sintesi, sono l’Unità del Tutto, l’Armonia, il Mutamento, la Spontaneità, la Non-interferenza (www.daoitaly.org).

Non è ovviamente possibile in questa sede esaminarli tutti, per cui, ben consapevoli del fatto che essi sono profondamente interdipendenti, ci si limiterà a qualche breve considerazione sulla nozione di non-interferenza, ovvero il non-agire, in cinese wu wei.
Il testo in cui la modalità del non-agire è esposta è l’opera fondamentale del Taoismo, il Daodejing (Tao Te Ching), il Libro del Tao e della sua Virtù, dove jing (ching, king) indica un testo classico o a contenuto religioso, e de (te) è generalmente tradotto con Virtù, parola che qui non ha (solo) una valenza etica, bensì designa piuttosto il potere, la potenzialità del Tao.
Il Daodejing è tradizionalmente attribuito a Laozi (Lao Tzu, Lao Tse), una figura di cui non si sa quasi nulla, se non che fu probabilmente   un contemporaneo più anziano di Confucio (551 - 479 a.C.).
Il Tao, secondo il Daodejing, si attua mediante il non-agire (wu wei), ovvero l’agire che è non-agire (wei wu wei). Agire secondo il Tao, ovvero l’agire del Saggio, significa non cercare di trasformare il mondo, bensì essere ricettivo nei confronti delle leggi che ne guidano la trasformazione, non sforzarsi, essere spontaneo, e quindi in perfetta armonia col mondo.
Secondo Laozi il modo migliore di agire, a maggior ragione quando il Tao declina e si manifestano epoche di violenza, di confusione, di disgregazione dell’ordine cosmico, sociale ed umano, è non-agire, in quanto la forza finisce sempre per ritorcersi contro se stessa.
È detto nel Daodejing (64): “Chi opera fallisce / chi afferra perde / per questo il Saggio / non opera perciò non fallisce / non afferra perciò non perde / quando il volgare fa delle cose / sempre fallisce all’ultimo momento”. La violenza viene assorbita, quindi l’aggressione diviene inutile.
Si tratta di un paradosso, soltanto apparente, che Laozi spiega ricorrendo ad una metafora molto comune nel pensiero cinese: l’acqua. Un elemento umile, che riesce però ad avere la meglio su materiali più solidi non resistendo ad essi. Come il Tao, anche l’acqua scaturisce da una unica fonte, per poi manifestarsi in innumerevoli forme. È inafferrabile, in perenne mutamento, si adatta ad ogni situazione. Scorre sempre verso il basso, favorisce la vita, ed è perciò simbolo dell’energia Yin, il femminile, che conquista lo Yang. Ciò che è debole prevale sul forte: “Nel mondo non c’è cosa più molle e debole dell’acqua / eppure attacca il duro e il forte / nessuno può vincerla / nessuna cosa può sostituirla / il debole vince il forte / il molle vince il duro / nel mondo tutti lo sanno / ma non possono praticarlo” (78).
Nel famoso testo L’Arte della Guerra di Sunzi (Sun Tzu, V – IV sec. a.C.) si legge: “La disposizione delle truppe è a somiglianza dell’acqua. Come l’acqua tende ad evitare ogni altezza per scorrere verso il basso, così le truppe tenderanno ad evitare i punti forti del nemico per attaccarne i punti deboli; come l’acqua determina il suo corso in funzione del terreno così le truppe determinano le loro strategie vittoriose in funzione del nemico”. Come il Saggio di Laozi, così secondo Sunzi “il più grande condottiero è colui che vince senza combattere”, ma non – si badi – colui che rinuncia al combattimento.
Ugualmente, il non-agire è alla base delle arti marziali cinesi (wu shu, dove wu è guerra, shu è arte, metodo) che si diffusero in tutto l’Estremo Oriente (il famoso judo, ad esempio, è la lettura giapponese del termine ruodao, la Via del molle…): colui che usa la forza è già per questo in una posizione di inferiorità, poiché la sua stessa forza si ritorcerà contro di lui.
La nozione di wu wei costituisce anche il fondamento della riflessione e dell’azione politica: agire secondo il Tao, agire nel non-agire, permette di mantenere ordine ed equilibrio tra gli uomini e le istituzioni.
È detto nel Daodejing (3): “Se non si esaltano gli uomini di talento, si ottiene che il popolo non lotti. / Se non si dà valore ai beni difficili da ottenere, si ottiene che il popolo non rubi. / Se non gli si mostra ciò che potrebbe bramare, si ottiene che il cuore del popolo non sia turbato. / Ecco per quale ragione il Santo, nella sua opera di governo, svuota il cuore (degli uomini) e riempie il loro ventre, indebolisce la loro volontà e rafforza le loro ossa, in modo da ottenere che il popolo sia costantemente ignaro e senza desideri, e che coloro che sanno non osino agire. Egli pratica il Non-agire, e in questo caso non c'è nulla che non sia ben governato”.
E ancora: “Un paese si governa con la dirittura / Una guerra si conduce con gli espedienti / Ma è con il non-fare che si conquista il mondo / Come lo so? / Da questo: / Quanto più regnano al mondo divieti e proibizioni / Tanto più il popolo s’impoverisce. / Quanto più il popolo possiede armi taglienti / Tanto più imperversa il disordine nel paese / Più abbondano sagacia e destrezza / E più ne risultano stravaganti oggetti / Più si moltiplicano leggi e decreti / E più abbondano ladri e banditi / Perciò il Santo dice: / Se pratico il non-agire, da sé il popolo si trasformerà / Se amo la quiete, da sé il popolo si correggerà / Se sto senza far nulla, da sé il popolo si arricchirà / Se sto senza desideri, da sé il popolo tornerà alla semplicità” (57).
Anche il ritualismo di Confucio trovò solide basi nel wu wei taoista. Come è scritto nei Dialoghi, “il Maestro disse: Chi meglio di Shun seppe governare tramite il non-agire? Gli bastava, per far regnare la pace, star seduto in tutta la sua maestà col viso rivolto a mezzogiorno.
Colui che governa tramite il suo solo potere morale [de, te] è come la stella polare, immobile sul suo asse, ma centro d’attrazione per ogni pianeta”.

Il non-agire vince quindi per attrazione, per assorbimento, non per costrizione, in quanto si fonda sull’armonia, sulle qualità dell’essere anziché su quelle dell’avere o del fare.
Non si tratta affatto di superiorità etica, non è la rivincita del mite nei confronti del violento, della vittima verso il carnefice. E neppure è l’astuzia di Ulisse contro Polifemo o l’abilità di Davide contro Golia.
E nemmeno – punto che deve essere chiaro – si tratta di non fare nulla, di passività, men che meno di rassegnazione. Non-agire è essere in armonia con l’Universo, in modo tale che il Te (la potenza) del Tao possa manifestare la sua efficacia.
Il Saggio, dice Laozi, “si occupa del non-agire / pratica l’insegnamento senza parlare / lascia sviluppare gli esseri senza ostacolarli” (2). In un’altra versione: egli “si applica a non studiare e torna al punto che tutti oltrepassano. / Così egli sostiene il corso naturale dei diecimila esseri senza osare agire”.
Non-agire significa in ultima analisi astenersi dalle azioni intenzionali, dirette, che si fondano sull’attaccamento e generano ulteriore attaccamento, che si oppongono alla spontaneità, alla natura originaria dell’essere.
Si legga il Daodejing (28):
Riconosci in te ciò che è maschile / Ma attieniti a ciò che è femminile / Fatti burrone del mondo / Essere burrone del mondo / E’ unirsi alla Virtù costante / E’ tornare alla prima infanzia. / Riconosci in te il bianco / Ma attieniti al nero / Fatti norma del mondo / Essere norma del mondo / E’ partecipare della Virtù costante / E’ tornare al senza-limiti. / Riconosci in te la gloria / Ma attieniti all'oscurità / Fatti valle del mondo / Essere valle del mondo / E’ avere in abbondanza la Virtù costante / E’ tornare alla semplicità del legno grezzo. / Il blocco della semplicità originaria / Viene intagliato in utensili / Ma il Santo è il blocco integro e intatto / Ch'egli adotta come ministro / Poiché il Maestro dell'Arte si guarda dal tagliare”.
Come si nota Laozi preferisce il femminile al maschile, il bianco al nero, l’oscurità alla luminosità, il debole al forte. Ma non esclude il maschile, il forte ecc. Gli elementi che compongono le coppie degli opposti (a partire dalla coppia fondamentale Yin/Yang) non hanno un carattere esclusivo, sono invece complementari, questo perché il loro rapporto non è di tipo logico (aut-aut), bensì organico, relazionale (et-et), secondo un modello ciclico tipico della culture tradizionali e particolarmente evidente in Oriente.
Si è detto che la nozione di wu wei – assolutamente centrale nel Taoismo – può essere confusa con un atteggiamento passivo nei confronti della vita. Questa erronea visione è tipica dell’Occidente, l’Occidente della modernità, rivolto esclusivamente verso l’azione esteriore, la trasformazione del mondo, la produzione (oggettivazione-alienazione) di beni/merci, gli aspetti quantitativi, numericamente misurabili, della realtà.
Ma wu wei non è inazione, inerzia, quietismo. Lo comprese molto bene lo studioso francese della Tradizione René Guénon (1886 – 1951), che dedicò al Taoismo molte pagine delle sue opere. E lo ribadì ulteriormente in un articolo pubblicato postumo, Contro il “quietismo”. Qui egli affermò che “gli orientalisti non comprendono affatto il vero significato” del non-agire. Esso costituisce, contrariamente alla vulgata, “l’attività suprema, e questo perché esso è il più possibile distante dalla sfera dell’azione esteriore, ed è totalmente affrancato da tutte le limitazioni che a quest’ultima sono imposte dalla sua stessa natura [..]. È ovvio che il non- agire [..] implica, per colui che è giunto ad esso, un perfetto distacco non solo nei confronti dell’azione esteriore, ma anche nei confronti di ogni altra cosa contingente, e ciò perché un essere simile si pone al centro stesso della ‘ruota cosmica’, mentre le cose appartengono soltanto alla sua circonferenza”.
Il Saggio taoista è il vuoto al centro della ruota, il motore immobile di Aristotele.
Per Guénon dunque l’autentica forma dell’attività umana è il non-agire, l’attività spirituale, ovvero la contemplazione, ciò che agli occhi della mentalità occidentale risulta essere una attività inutile, una forma di oziosità che non “produce” alcuna ricchezza, che non accresce alcun PIL.

Le parole di Guénon rinviano immediatamente all’India tradizionale, che ugualmente attribuisce all’attività interiore, alla spiritualità, alla contemplazione, un ruolo superiore rispetto all’azione esteriore, che si svolge in un ambito puramente corporeo, fisico. Non a caso si parla in Occidente di passività, di inerzia, di inazione – gli stessi termini usati per il wu wei taoista - anche a proposito della pratica dello Yoga (ovviamente si fa qui riferimento all’autentico Yoga, non certo a quello proposto quasi sempre nelle metropoli occidentali).
Il nesso tra il wu wei taoista e l’agire secondo la dottrina induista fu colto anche dal grande orientalista italiano Giuseppe Tucci (1894 – 1984), che nella sua Apologia del Taoismo del 1924 scrisse: “L’azione – come dice la Bhagavadgītā, affermando un principio non del tutto dissimile da quello taoista, non può sopprimersi per il fatto semplicissimo che la vita stessa è azione”. L’approccio di Tucci è in parte diverso da quello di Guénon, soprattutto per il significato attribuito al termine azione, che Guénon distingue da attività, ma significativo è il rimando al mondo induista, e specificamente al testo che ne mostra l’essenza, la Bhagavadgītā citata da Tucci. Vediamolo più da vicino.
La Bhagavadgītā, il Canto del Beato, è un’opera in lingua sanscrita di circa 700 strofe, ed è parte integrante, il cuore stesso, dell’immensa epopea indiana del Mahābhārata, il più grande poema dell’umanità.
Secondo molti studiosi la Gītā fu composta nel II secolo a.C., ma Sarvepalli Radhakrishnan ne anticipa la redazione al V secolo, all’incirca l’epoca di Laozi, di Confucio, del Buddha, di Socrate.
Se il termine Yoga viene inteso nel suo corretto significato quale meta di una Via di Conoscenza e di Liberazione e nello stesso tempo come insieme dei metodi e delle applicazioni che a tale meta possono condurre, la Gītā, come afferma Radhakrishnan, “fornisce uno yogaśāstra [disciplina] comprensivo, ampio, elastico e multilaterale e che include varie fasi dello sviluppo e dell’ascesa dell’anima verso il divino. I vari yoga sono applicazioni particolari della disciplina interiore che mena alla liberazione dell’anima e ad un nuovo modo di intendere l’unità e il significato dell’essere uomo. Qualsiasi cosa si riferisca ad una siffatta disciplina prende il nome di yoga, come lo jñāna yoga o via della conoscenza, il bhakti yoga o via devozionale, il karma yoga o via dell’azione” (in sanscrito karma mārga).
Dal punto di vista letterario la Gītā è un dialogo tra due figure: Arjuna, il grande guerriero che è alla guida di uno dei due eserciti schierati in attesa della battaglia decisiva per le sorti del mondo – e Kṛṣṇa, Auriga del carro di Arjuna, suo Amico e Maestro Spirituale, ma che è in realtà l’incarnazione del Divino, la Persona Suprema, la Verità immutabile che sta dietro a tutte le apparenza e che si manifesta per rendere accessibile agli uomini la Conoscenza Suprema.
Nel primo capitolo della Gītā Arjuna, scorgendo in entrambi gli eserciti contrapposti molti suoi familiari, parenti, amici, compagni, esita a dare il segnale della battaglia, scende dal carro e manifesta a Kṛṣṇa i suoi dubbi e i suoi timori. Nonostante sia un principe del varṇa (casta) degli Kṣatriya, i guerrieri, egli è in preda allo sgomento, non distingue più una valida norma dell’agire:
Arjuna disse: Caro Kṛṣṇa, nel vedere i miei amici e parenti schierati davanti a me con spirito bellicoso, sento le mie membra tremare e la mia bocca seccarsi. Tutto il mio corpo rabbrividisce e i miei capelli si rizzano. Il mio arco Gāṇḍiva mi scivola dalle mani e la pelle mi brucia. O uccisore del demone Keśī, non posso più restare qui. Non sono più padrone di me, e la mia mente si smarrisce. Prevedo solo avvenimenti funesti. Non vedo che cosa posso portare di buono l’uccisione dei miei parenti in questa battaglia; mio caro Kṛṣṇa, non potrei neppure desiderare un’eventuale vittoria, il regno o la felicità” (I, 28-31).
Kṛṣṇa, l’Auriga, il Maestro Supremo, inizia allora a guidare Arjuna esponendogli le Vie dello Yoga, fino al conseguimento di quella condizione superiore che il discepolo in realtà già possiede dentro di sé.
Il problema che Arjuna si pone – perché tutti gli uomini lo pongano a se stessi – è se sia miglior cosa agire o rinunciare all’azione, ritirarsi dal mondo. Ciò che Kṛṣṇa gli propone in risposta è la necessità dell’azione, di una vita attiva nel mondo, fondata però sulla vita interiore, in indissolubile unione con lo Spirito Eterno. L’azione, secondo la Gītā è ciò che l’uomo è tenuto a compiere, non solo perché è un essere sociale, ma in quanto individuo destinato alla realizzazione spirituale. Astenersi dall’azione è impossibile. Kṛṣṇa non sta affatto difendendo l’opportunità della guerra. La guerra, che proprio Kṛṣṇa – come racconta il Mahābhārata – non era riuscito ad evitare nonostante tutti i suoi sforzi, rappresenta qui l’occasione che Egli, quale Divino Maestro, utilizza per far comprendere in che modo, con quale spirito, ogni opera, anche la guerra, debba essere compiuta.
L’esitazione di Arjuna, il quale peraltro aveva già affrontato innumerevoli battaglie, non è dovuta ad una scelta etica di non-violenza, non è il frutto di una evoluzione spirituale, ma al contrario è causata dall’ignoranza, dall’offuscamento determinato dagli attaccamenti. Egli stesso ne è consapevole: “Ora sono confuso, non so più qual è il mio dovere e ho perso la calma a causa di una debolezza meschina” (II, 7). E Kṛṣṇa conferma quale sia la causa: “Non si deve mai rinunciare al dovere prescritto. Se, nell’illusione, l’uomo abbandona il dovere prescritto, la sua rinuncia è sotto l’influenza dell’ignoranza” (XVIII, 7).
Agire, quindi, ma la qualità dell’azione è di fondamentale importanza: Kṛṣṇa esorta Arjuna a combattere senza passione e malanimo, senza odio né collera. Lottare contro il male spinti dall’avversione porta ad una sicura sconfitta. L’agire con animo devoto e sincero, senza attaccamento nei confronti dei risultati, con una attitudine mentale di distacco significa camminare sulla Via della evoluzione interiore.
L’azione deve essere conseguente alla propria natura. È questo un punto imprescindibile per comprendere come la radice delle due concezioni, il non-agire taoista e l’azione secondo la Gītā, sia la medesima: Arjuna, precisa Radhakrishnan, “è un capo famiglia, che appartiene alla casta dei guerrieri, parla tuttavia come un saṃnyāsin, e non perché si sia elevato allo stadio della pura profonda mancanza di passioni e dell’amore per l’umanità, ma perché si fa prendere da una compassione falsa. Ciascuno deve svilupparsi ed elevarsi a partire dal punto nel quale si trova”.
Questo è infatti l’insegnamento della Gītā, nella sezione conclusiva dell’opera: “Nessuno, né sulla Terra né tra gli esseri celesti, sui pianeti superiori, è libero dalle tre influenze della natura materiale. Brāhmaṇa, kṣatriya, vaiśya e śūdra si distinguono per le qualità che mani­festano nell'azione, o vincitore dei nemici, secondo le tre influenze della natura materiale. Serenità, controllo di sé, austerità, purezza, tolleranza, onestà, saggezza, conoscenza e pietà sono le qualità che accompagnano l'attività del brāhmaṇa. Eroismo, potenza, determinazione, ingegnosità, coraggio in battaglia, generosità e arte di governare sono le qualità che accompagnano le attività dello kṣatriya. La tendenza a coltivare la terra, ad allevare il bestiame e a commerciare sono legate all'attività del vaiśya. Il śūdra, invece, serve gli altri col suo la­voro. Seguendo, nelle sue attività, la propria natura, ogni uomo può diventare perfetto. Ascolta ora, ti prego, come si giunge a questo. Adorando il Signore, che è la fonte di tutti gli esseri ed è onnipresente, l'uomo può, compiendo il proprio dovere, raggiungere la perfezione. È meglio compiere il proprio dovere, anche se in modo imperfetto, che accettare il dovere di un altro e compierlo perfettamente. Eseguendo i doveri prescritti secondo la propria natura non s'incorre mai nel peccato” (XVIII, 40-47).
Agire in armonia con il Dharma, con il Tao, quindi con il cosmo, è agire nella modalità dell’essere e non in quella del fare, dell’avere. È ciò che consente il perfetto equilibrio tra tutti gli esseri, tra tutti gli elementi dell’Universo. L’alternativa è il caos, il disordine tra gli individui e nelle comunità, la rovina dei mondi: Kṛṣṇa stesso compie i doveri prescritti, pur non mancando di nulla e non essendovi alcun dovere prescritto per lui, in quanto Persona Divina (III, 22). “Se mi astenessi dal compiere i doveri prescritti – Egli afferma – tutti questi mondi andrebbero in rovina”, turbando così la pace degli esseri (III, 24).
Ovvero, come annota Radhakrishnan, la vita dell’uomo e la vita divina non sono termini in opposizione tra loro, non vi è separazione, ma solo l’illusione della separazione.
Non è dunque possibile non agire, ma mentre “l’ignorante compie il suo dovere con attaccamento al risultato, così anche il saggio agisce, ma senza attaccamento” (III, 25). Ciononostante il saggio non deve sconvolgere la mente degli ignoranti attaccati all’azione interessata, non deve incoraggiarli ad astenersi dall’azione, ma ad agire con spirito di devozione (III, 26).
In tal modo – come Arjuna giunge infine a comprendere – viene superata la dicotomia tra vittoria e sconfitta, tra successo e insuccesso, tra attaccamento e avversione. L’uomo ideale della Gītā va al di là degli estremi del quietismo e dell’azione compiuta in vista dei frutti del molteplice mondano. Egli compie le opere senza trasformarle in effetti. Fine dell’azione è il perfezionamento dell’individuo. In tal modo secondo la Gītā il karma yoga ha il suo culmine nel conseguimento della Conoscenza Superiore. Infatti esso non è separato da jñāna yoga e da bhakti yoga: la Gītā, scrive Radhakrishnan, “insiste sull’unità della vita dello spirito, che non può essere risolta nel sapere filosofico, nell’amore devoto o nell’azione strenua. L’opera, la conoscenza e la devozione sono complementari, tanto quando andiamo ancora alla ricerca del fine, come quando lo abbiamo raggiunto”.

Una citazione finale, quale spunto di riflessione per l’uomo occidentale, anche se ormai irrimediabilmente avviluppato nelle modalità del fare e dell’avere:
“Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: ‘Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti’. Ma Gesù le rispose: ‘Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta’.” (Lc 10, 38-42)


Testi utilizzati

Il Tao Te King, Ed. Laterza
Tao tē ching, Ed. Adelphi
A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Ed. Einaudi
P. Filippani Ronconi, Storia del pensiero cinese, Ed. Boringhieri
R. Guénon, Contro il “quietismo”, in Iniziazione e realizzazione spirituale, Ed. Luni
G. Tucci, Apologia del Taoismo, Ed. Luni
S. Radhakrishnan, Bhagavadgītā, Ed. Ubaldini
La Bhagavadgītā così com’è, Ed. Bhaktivedanta