lunedì 4 aprile 2022

Rileggere Pinocchio - Fiaba per Burattini o Discesa agli Inferi? - II parte

Della zoppia e del monosandalismo

 Il temporaneo claudicare di Geppetto può sembrare un particolare insignificante nell’economia del racconto. Ma in realtà esso rimanda al tema della simbologia della zoppia, e a quelli ad essa collegati del monosandalismo e della ferita sacra, spesso presenti nei miti, nelle fiabe, nelle storie sacre. Uno dei significati del simbolo è un contatto avvenuto tra il personaggio che ne è colpito e il mondo dei morti, o un legame permanente con il regno infero. Un altro significato indica una possibile condizione di menomazione spirituale del personaggio, oppure la sua condizione di iniziato che ha riconosciuto la propria dipendenza dalle leggi cosmiche e che non può appoggiarsi sulle conferme del mondo esterno, la seconda gamba (i simboli sono sempre portatori di più significati, spesso anche apparentemente in contraddizione tra loro). Spesso costui dovrà appoggiarsi ad un bastone, il quale rimanda a sua volta alla simbologia dell’albero e dell’axis mundi (si vedano il caduceo, le bacchette magiche, i bastoni degli sciamani), che collega il mondo visibile all’invisibile, il mondo di sopra a quello di sotto.

Un manoscritto, datato 1726, così descrive lo stato del candidato all’iniziazione massonica:

Un essere privo di ornamenti, né nudo, né vestito, né calzato, né scalzo, né inginocchiato, né in piedi, essendo tutto a metà non sarebbe completo in nessuna cosa.

E nel 2004 egli è così descritto:

Né nudo, né vestito, ma in stato di decenza, braccio e seno sinistri scoperti, gamba e ginocchio destri messi a nudo, piede sinistro scalzo, una lunga corda che termina con un nodo scorsoio intorno al collo e gli occhi bendati.

In particolare, il ginocchio destro messo a nudo rappresenta i sentimenti di umiltà propri del neofita che parte alla ricerca della verità, e il piede sinistro scalzo il rispetto del luogo in cui si sta per entrare, luogo santo perché vi si cerca la Verità.

Si rammenti a tal proposito l’ipotetica appartenenza di Collodi alla Massoneria…

 Alcuni esempi più o meno famosi potranno chiarire quanto i simbolismi legati alla zoppia, alle ferite agli arti inferiori e al monosandalismo siano importanti e diffusi.

 Un primo, noto esempio è rappresentato dalla figura di Efesto/Vulcano, figlio di Zeus ed Era, cacciato dall’Olimpo alla nascita in quanto la madre non sopportava la sua deformità dovuta alla zoppia. Efesto era un artigiano, il fabbro degli dei, ed era infatti associato al fuoco e ai vulcani, il luogo per eccellenza il cui il mondo superiore è in contatto con quello infero.


 Altrettanto noto è il personaggio biblico di Giacobbe, figlio di Isacco e Rebecca e fratello gemello di Esaù. Una notte, Giacobbe sostenne una misteriosa lotta, che nel testo biblico (Genesi, XXXII) è così descritta:

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all'anca. Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l'articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l'articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico”. Come si vede, nel corso di quella vera e propria teomachia Giacobbe rimase zoppo.

La sua figura è altresì nota per il suo sogno (Genesi, XXVIII), nel quale vide una scala che univa il cielo e la terra, lungo la quale gli angeli salivano e scendevano. Immagine che è parte integrante dell’iconografia simbolica della Massoneria: Terribilis est locus iste.

Va poi ricordato Edipo, che il padre Laio lasciò a morire ferendolo ai piedi, per evitare che si avverasse la profezia secondo la quale il bambino avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Il che poi avvenne.

Etimologicamente parlando, Edipo deriva dal greco Oidipous, "piede gonfio", "dai piedi gonfi" per le ferite.

Secondo il mito, alla fine della sua vita Edipo, cieco per essersi strappato gli occhi (la visione esteriore) giunge all'ingresso degli Inferi. Si siede, si spoglia, chiede di essere lavato dalle figlie e con loro intona il proprio lamento funebre. Appena terminato il canto, una voce dal cielo lo chiama, dopodiché esplode un tuono. Dopo aver affrontato un abisso di disperazione, attraverso il rito e la catarsi Edipo diviene qualcosa di altro da sé che sfugge alle leggi della vita e della morte che valgono per gli uomini.

E poi Cenerentola, che rimane temporaneamente zoppa in quanto privata di una calzatura, iniziando così un percorso che la porterà alla realizzazione. Della sua storia esistono più di 300 varianti, a cominciare dall’antico Egitto e dalla Grecia classica.

E ancora Dioniso, il cui nome significa giovane figlio di Zeus, ma per alcuni studiosi l'etimologia è invece legata al significato di "dio notturno" (theos-nykios). O anche "nato due volte" (di-genes) o "il fanciullo dalla doppia porta".

E Achille, il cui “punto debole” era notoriamente il tallone.

E San Rocco (XII sec.), il cui attributo iconografico principale è la ferita sulla coscia, causata della peste, una “sacra ferita” che lo costringeva a deambulare appoggiandosi ad un bastone.


 Si vedano anche il Viandante del Trittico del Fieno e il Figlio Prodigo di Hieronymus Bosch (1453 – 1516).



 Infine, alcuni esempi di zoppie profondamente simboliche, a dimostrazione di come i miti non muoiano, ma spesso riaffiorino sotto altre forme, come fiumi carsici: il capitano Achab, che inseguì i suoi fantasmi fino alla morte; il personaggio televisivo del Dr. House, un uomo complesso non abituato a convivere con le emozioni proprie e altrui, dipendente dagli oppiacei per combattere il dolore alla gamba; uno dei più vecchi personaggi Disney, Pietro Gambadilegno (Peg Leg Pete), creato nel 1925, una figura negativa antagonista di Topolino, che perderà l’arto artificiale negli USA negli anni ’40 e a partire dagli anni ’50 in Italia, dove continuerà però a mantenere il nome.

 Quanto a Geppetto, la sua menomazione alla gamba, organo della motilità, indicherebbe secondo Carosi “la testimonianza di una incapacità ad esprimere fino in fondo il progetto”. C’è in Geppetto una sorta di inadeguatezza, di limite alle sue capacità di portare a termine, in prima persona, il progetto di divenire lui stesso una persona superiore e altresì di creare tale persona, come si vedrà. (Es. al termine del racconto: “E il mio babbo dov’è? Ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buonumore come una volta, il quale avendo ripreso subito la sua professione di intagliatore…”). Tutto, o quasi, come una volta.

 Ancora sul nome

 Giunto a casa, Geppetto “prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino”.

Si pose a, non iniziò a. Prima, invece, si chiese: “Che nome gli metterò?

Prima l’idea, poi il nome, infine l’opera. L’idea e il nome precedono l’oggetto.

Nelle società tradizionali l’imposizione del Nome non era casuale né arbitraria, in quanto il vero Nome corrispondeva all’essenza dell’essere che lo riceveva. Il vero Nome di un essere non doveva servire all’uso quotidiano, esteriore, ma doveva essere quanto più vicino alla sua verità essenziale. L’attribuzione del Nome era quindi uno dei momenti centrali di ogni rito iniziatico.

Lo sapeva bene l’ignoto redattore di Genesi II,19: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'Uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’Uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'Uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche”.

Geppetto pare quindi conoscere il vero Nome del Burattino, e lo sceglie a ragion veduta, quando afferma: “Questo nome gli porterà fortuna”. Ma egli dice anche che di tutti i Pinocchi che conosceva, “il più ricco di loro chiedeva l’elemosina”. Geppetto augura forse alla sua creatura un futuro da mendicante? No, poiché conosceva Matteo: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Matteo V,3).

 A proposito del corpo del burattino

 Capelli – fronte – occhi (a differenza dell’arte tradizionale hindu, nella quale gli occhi della divinità sono gli ultimi ad essere raffigurati).

Dopo gli occhi gli fece il naso”.

Quanto alle origini del naso, nel saggio Quel copione di Collodi del 2018 Gianni Greco porta quale possibile fonte di ispirazione per la lunghezza del naso di Pinocchio le illustrazioni di Edward Lear per il suo A Book of Nonsense (1846).

Ma ciò che più importa, è rigettare ancora una volta la facile interpretazione pseudo-psicoanalitica che vorrebbe accostare il naso che si allunga e si accorcia ad una manifestazione legata al sesso. Una interpretazione quasi offensiva per la sua rozzezza, sia per il romanzo sia per la psicoanalisi. Basti solo pensare alla qualità vegetale e non animale di Pinocchio, che rimanda al naso come ad un ramo, che viene tagliato con la potatura e quindi ricresce. La conclusione del racconto renderà ancor più evidente l’erroneità di una interpretazione “erotica”, in quanto Pinocchio andrà al di là della semplice condizione umana con la sua divisione in sessi.

Non è un caso, data la prevalenza del pensiero materialista nel momento storico presente, che tale interpretazione pornografica sia stata così facilmente proposta ed accolta. Nello stesso modo in cui per maestro Ciliegia quel pezzo di legno non era altro che… un pezzo di legno.

La qualità vegetale di Pinocchio si rivela con forza quando Geppetto gli fabbrica le gambe e i piedi e lo posa a terra. Pinocchio non impara a camminare, ha solo le gambe aggranchite. Non appena sgranchite, il burattino cammina e corre, quindi esce dalla casa e scappa. L’energia dinamica che possiede è superiore a quella di ogni altro essere, “perché è una creatura che parte dalla qualità di uomo-vegetale, che ha superato la gravità dell’uomo di argilla” (Carosi).

Pinocchio e il Golem. Una modesta proposta per una futura riflessione.

Già all’inizio dell’opera, si manifesta quella inadeguatezza di Geppetto di cui sopra: appena finite le mani, Pinocchio gli porta via la parrucca, e si prende gioco del suo creatore. Geppetto se ne rattrista, e per la prima volta afferma: “Me lo merito, dovevo pensarci prima! Ormai è tardi!”. Le stesse parole ripete una seconda volta quando viene arrestato dal tutore dell’ordine a causa dello scompiglio provocato dalla fuga di Pinocchio: “E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!”.

Geppetto ricorda qui il titano Prometeo, “colui che pensa prima” (contrapposto al fratello Epimeteo, “colui che pensa dopo”), in quanto incapace di portare a compimento su di sé l’opera di realizzazione, e quindi imprigionato: Geppetto come il Prometeo incatenato, costretto a rimpiangere, a “rodersi il fegato”.

Non a caso, nella prefazione della propria tesi di laurea in filosofia (1841) Marx, il fondatore del materialismo moderno, cita le parole rivolte da Prometeo al dio Ermete: “io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero esser di Giove”. Scrive Marx: “Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico”. Martire, ovvero testimone: di una sconfitta, di un limite: l’incapacità di guardare al divino se non in chiave di mancanza di libertà.

 Protagonisti, deuteragonisti, antagonisti: il Grillo Parlante

 Dopo aver mangiato il frutto dell’albero proibito, Adamo ed Eva fuggono, e alla domanda di Dio – “Dove sei?” – l’Uomo risponde: “Ho udito il tuo passo nel giardino e ho avuto paura perché io sono nudo e mi sono nascosto” (Genesi, III).

Similmente Pinocchio dopo la fuga ritorna alla casa di Geppetto tuttora imprigionato (“mi sono nascosto”), si rifugia nella casa-interiorità, ancora privo di abiti (“io sono nudo”) poiché Geppetto non ne aveva ancora approntati, e lì ode una voce: “Crì-crì-crì! – Chi è che mi chiama? Disse Pinocchio tutto impaurito”. “Ho avuto paura”, aveva detto Adamo.

Il testo di Collodi è pieno di animali parlanti, gatti, volpi, serpenti, pesci, lumache… Ma solo il Grillo è espressamente detto Grillo-parlante, quasi si trattasse di una specie animale particolare. Come in effetti è.

Abito in questa casa da più di cent’anni”. Sta parlando di una presenza che precede l’esistenza stessa di Pinocchio, una presenza al di là del tempo ordinario, così come lo spazio che “occupa” non è quello fisico, ma quello dell’interiorità del burattino-Adamo. Ma Pinocchio non è affatto pronto, dimostra qui la stessa cecità di Maestro Ciliegia, ha paura, non riconosce la voce della coscienza dell’Io, rimane chiuso nel rifugio della in-coscienza, rifiuta ogni progetto che non sia quello di “mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo”.

E pertanto anche le “profezie” del Grillo-parlante restano inascoltate: “diventerai da grande un bellissimo somaro”, “tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono sempre allo spedale o in prigione”.

E come il profeta Giovanni, vox clamantis in deserto, fu condannato alla decapitazione, così il Grillo fu colpito “nel capo” da un martello di legno, di quel legno di cui era fatta la testa di Pinocchio.

Anche il Card. Biffi nella sua rilettura di Pinocchio evidenzia il carattere a-temporale del Grillo-parlante, quale simbolo di una coscienza che è sì individuale ma non per questo relativa. È individuale in quanto “riflesso di una norma obbiettiva cui ci si deve riferire”, una norma che precede l’individuo, che lo trascende. Se così non fosse, nessuna morale potrebbe avere valore universale, né potrebbe sopravvivere a lungo, giungendo ben presto ad una auto-estinzione. Con gli inevitabili effetti per l’individuo e per la collettività.

 Primi passi sulla Via

 La morte della coscienza porta con sé inevitabili conseguenze: “Era una nottataccia d’inferno”, Pinocchio ha “una gran paura dei tuoni e dei lampi”, fuori è “tutto buio e tutto deserto”, “Pareva il paese dei morti”.

Fame, luci e suoni terrificanti, immagini da oltretomba, tenebre. Così Pinocchio compie i suoi primi passi sulla Via.

Rientrato ancora una volta in casa, dopo aver ricevuto una secchiata d’acqua in testa da un uomo cui aveva chiesto del pane, Pinocchio si addormenta con i piedi accanto alla stufa. Ma “i piedi, che erano di legno gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere”.

Il successivo risveglio è solo un risveglio fisiologico, ordinario, poiché succede alla morte della coscienza; le prove che Pinocchio ha affrontato con gli elementi (aria – la tempesta, acqua – la secchiata, fuoco – la stufa) culminano in una caduta, a causa della perdita dei piedi, della facoltà di muoversi.

 Dopo la caduta, Geppetto-padre si fa Geppetto-medico, e pur rimanendo al livello materiale (non riconoscendo nel Pinocchio-pinolo la sua potenzialità evolutiva), ricostruisce i piedi del burattino ad un livello superiore: la sua non è comunque una semplice ripetizione del gesto precedente: “due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio”. L’artigiano si fa, è, artista, come avviene in ogni società tradizionale.

 Dopo la caduta, dice Genesi III, all’Uomo e alla Donna “si aprirono allora gli occhi…e scoprirono di essere nudi; perciò cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture”.

Poi, dopo la cacciata dall’Eden, “il Signore fece all’Uomo e a sua Moglie delle tuniche di pelle e li vestì” (Genesi, III).

Ugualmente, Geppetto preparò per Pinocchio, fino ad allora nudo, perché non ancora consapevole di sé, come Adamo ed Eva, “un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza di albero e un berrettino di midolla di pane”.

Dopo l’atto terapeutico (i piedi), ecco l’atto sacerdotale, la vestizione, con elementi del mondo vegetale, assolutamente conformi alla natura vegetale di Pinocchio.

 Con i nuovi piedi Pinocchio riacquista la motilità, con gli abiti acquisisce la possibilità della relazione con l’Altro.

Ed infine, l’Abbecedario. Strumento fondamentale per uscire nuovamente, anzi, ora per uscire veramente da casa, e muovere il primo passo di ogni cammino spirituale dell’uomo: lo studio.

Da qui (cap. VIII) in poi Geppetto non compare più nel racconto, il suo ruolo di Creatore, Padre, Medico, è terminato. Ed anche quando riapparirà, nel cap. XXXV, il penultimo, il suo ruolo sarà secondario, per cui egli, diversamente da Pinocchio, rimarrà “come una volta”.

 Con il suo Abbecedario nuovo, colmo di buoni sentimenti e buone intenzioni, Pinocchio compie i primi passi nella Via, verso la scuola. Ma la sua mente è subito distratta da una musica lontana di pifferi e di grancassa. È la sua prima prova, dopo aver introiettato la coscienza dell’Io (la morte del Grillo) che gli consente di/lo obbliga a – compiere scelte non dettate solo dagli istinti primordiali (la fame). E la prova avviene attraverso le orecchie, quell’organo che Geppetto aveva dimenticato di scolpire nella testa del burattino. 

 Pinocchio non supera la prima prova: “Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola”. Così, “infilò giù per la strada traversa”, “una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare”.

Pinocchio abbandona “la strada che menava alla scuola”, così come 500 anni prima un altro Viandante aveva scritto di sé: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita”.

Lo sapeva bene l’Evangelista: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Matteo, VII, 13-14). È il significato del simbolismo del labirinto, in cui perdersi per iniziare il cammino verso il Centro, il proprio Sé.

 Impossibile non menzionare qui la famosa storia del pifferaio magico, risalente al XIII secolo, e che fu trascritta dai fratelli Grimm nella prima metà del XIX sec. Essa narra di un suonatore di piffero magico che, su richiesta del borgomastro, allontana da Hamelin i ratti al suono del suo strumento; quando la cittadinanza si rifiuta di pagarlo per l'opera, questi si vendica irretendo i bambini del borgo al suono del piffero e portandoli via con sé. Interessante notare che al termine della storia il pifferaio e i bambini entrano in una fenditura della montagna che si rinchiude dietro di loro. Tutti, tranne un piccolo zoppo che non era riuscito a camminare veloce come i compagni e per questo piange disperato. Anche qui si ritrovano gli elementi del rapporto con la caverna come passaggio verso il mondo infero, o verso la trascendenza… La zoppia, quindi, come salvezza, o come limite ad un possibile sviluppo del percorso evolutivo. Perfetto esempio della pluralità dei significati dei miti e dei simboli.

 Più in generale, è da dire che il tema del potere di fascinazione della musica è centrale in uno dei più antichi e conosciuti miti della tradizione occidentale, il mito di Orfeo, figlio di un re tracio (o forse dello stesso Apollo) e della Musa Calliope (“dalla bella voce”). Con il suo strumento, la lira, incantava esseri viventi, piante e perfino le rocce. Riuscì, grazie al potere dei suoni, ad affascinare Caronte, Cerbero e i giudici dei morti, e, sceso agli inferi, convinse Ade a restituire Euridice al mondo dei viventi (cui non giunse).

 


Si noti inoltre un dettaglio, qui inserito di sfuggita, ma che – lo si vedrà – rivestirà una grande importanza nel seguito del racconto: il paesetto da cui giunge la musica sorge sul mare, il luogo dell’origine della vita sul pianeta (“lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque” Genesi I). E l’acqua è da sempre il luogo simbolico delle nascite e delle ri-nascite, delle trasformazioni, è l’elemento sacro dei riti di iniziazione, di passaggio, di purificazione. L’elemento che Pinocchio dovrà attraversare per trovare il proprio autentico Sé.