mercoledì 10 gennaio 2024

INTRODUZIONE AL PENSIERO TRADIZIONALE CINESE - 9 - Il Dharma del Buddha dall'India alla Cina - I

 

Lezione 9 – Il Dharma del Buddha dall’India alla Cina_I


Che cosa, o Malunkyaputta, ho spiegato? “Questo è il dolore”, o Malunkyaputta, ciò ho spiegato; “questa è l'origine del dolore”, ciò ho spiegato; “questa è la cessazione del dolore”, ciò ho spiegato; “questa è la via che porta alla cessazione del dolore”, ciò ho spiegato.

Così disse il Beato. (Majjhima Nikaya, 63)

& & & & & &

Quell’aspetto dell’antica Tradizione a noi noto come “Buddhismo” ebbe storicamente origine nell’India settentrionale del VI secolo a.C., in un periodo in cui la Tradizione Vedica stava vivendo una profonda crisi: “si era dissolto – scrive Hans Schumann nell’ottimo testo Il Buddha storico (Ed. Salerno) – l’entusiasmo divinatorio che aveva consentito mille anni prima ai veggenti indoariani di ascoltare dagli dèi la voce del sapere (Veda) dentro il proprio cuore e di versare quanto avevano udito (śruti) in inni, era morto l’orgoglio letterario con cui avevano sintetizzato questi ultimi a Veda, a “sapere” sacro (..). Il secolo di Gotama intendeva [gli inni vedici] soltanto come canti magici che operavano meccanicamente. I riti sacrificali erano diventati sempre più complicati e lunghi, sempre più dispendiosi per il sacrificante le offerte e gli onorari dei sacerdoti. Il contenuto numinoso della religione era quasi soffocato dalla proliferazione delle esatte pratiche rituali”.

Tale momento di crisi è riscontrabile nei testi della spiritualità indiana anche dal punto di vista storico: se i Veda riflettono condizioni di vita rurali, negli scritti buddhisti compare invece l’immagine di una nuova civiltà urbana, il che ci dice che  era in atto nell’India dell’epoca una profonda trasformazione economica, sociale e culturale.

 

Fatto non marginale che richiederebbe riflessioni di rado affrontate, la figura stessa del principe Siddharta Gotama Shakyamuni, il Buddha di questa era oscura, non compare nell’ambito della casta sacerdotale, i Brahmani, bensì nella casta dei guerrieri, gli Kṣatriya, a cui appartenevano il padre di Siddharta, il raja Shuddhodana, e la madre Mayadevi.

Così come si svolge interamente nell’ambito della casta degli Ksatriya la vicenda narrata in uno dei testi spirituali più amati e più importanti dell’Induismo, il Canto del Divino (Bhagavadgītā), scritto probabilmente intorno al III secolo a.C.

Infatti i protagonisti, Arjuna e il Signore Kṛṣṇa manifestatosi nella forma dell’auriga di Arjuna, sono entrambi guerrieri.

 

Questa breve premessa  sulla (momentanea) crisi della tradizione vedica indiana e la coeva origine del Buddhadharma ci introduce al tema dell’ingresso in Cina del Buddhismo stesso, che avvenne diversi secoli dopo, in un’epoca durante la quale la società, la politica e la cultura cinese stavano attraversando una altrettanto profonda crisi, in parte simile a quella già vissuta dal mondo indiano.

 

Inizialmente gli insegnamenti del Buddha (in Cinese Fo, in Giapponese Butsu o Nyorai) entrarono in Cina intorno al II secolo d.C. sulle spalle dei mercanti indiani e sul dorso dei loro animali, grazie alla spinta verso l’esterno esercitata dalla dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), la quale aveva occupato le oasi situate lungo la Via della Seta e favorito lo sviluppo dei rapporti commerciali con i popoli “barbari” dell’ovest (tra cui i Romani, attraverso la mediazione dei Parti) e con il ricco e potente impero Kusana, nato nell’India del Nord e nell’Asia centrale.

Fu grazie alla crisi politica e al crollo della dinastia Han che il Buddhismo si rafforzò sul territorio cinese con l’arrivo di monaci e maestri e con la formazione delle prime comunità di praticanti del Dharma, le quali per motivi politici ricevettero l’appoggio dall’una o dall’altra delle dinastie che combattevano tra loro per il potere dopo la fine degli Han.

In parallelo con la crisi politica dell’Impero, anche la crisi delle grandi tradizioni filosofiche e religiose favorì l’affermarsi del Dharma del Buddha in Cina. Il Confucianesimo subiva la trasformazione della ritualità in un rigido formalismo privo di significato ed incapace di operare per la crescita spirituale delle persone e delle istituzioni. Il Daoismo era sempre più intriso di quel pensiero magico latente nelle interpretazioni più superficiali di testi come il Libro dei Mutamenti (Yi Jing), ed era quindi altrettanto incapace di svolgere il ruolo che ad esso avevano assegnato gli insegnamenti di Laozi e di Zhuangzi.

Il vuoto spirituale lasciato dall’inaridirsi delle tradizioni originarie fu così inevitabilmente colmato dal Buddhismo, che grazie alla disciplina delle sue comunità monastiche e al valore indiscutibile degli insegnamenti impartiti dai maestri acquisì un consenso sempre più vasto nel popolo e nella corte imperiale.

Si diffuse anche la pratica del pellegrinaggio da parte dei primi fedeli buddhisti cinesi verso l’India, terra d’origine del Dharma, e i pellegrini ritornavano nella Terra di Mezzo (Zhongguo, la Cina) portando i testi dei Sutra e dei commentari.

Lentamente e pazientemente si cominciò anche a risolvere un problema fondamentale, quello della traduzione dei testi buddhisti dalle lingue originarie in cui erano redatti (soprattutto il pali e il sanscrito) in cinese. Si trattava non solo di tradurre i Sutra e gli altri testi, ma di renderli veramente comprensibili e praticabili cercando “una terminologia che facesse da ponte, dal punto di vista speculativo e religioso, tra i concetti della cultura indiana e quelli della cultura cinese” (Arena, Storia del Buddhismo Ch’an, Ed. Mondadori). Non solo, ma in un primo tempo i Sutra furono tradotti in cinese arcaico, praticamente sconosciuto negli ambienti popolari.

Vennero quindi chiamati in Cina grandi maestri di tradizione indiana, primo tra tutti Kumarajiva, che diedero vita a valide scuole di traduttori. Ma soprattutto ciò che agevolò molto il lavoro dei traduttori e la comprensione degli insegnamenti da parte dei Cinesi fu la loro profonda conoscenza delle pratiche della meditazione, che costituivano il nucleo vivente sia della tradizione buddhista sia di quella daoista. Le metodiche della meditazione e i relativi conseguimenti sul piano spirituale e su quello filosofico costituirono una vera e propria stele di Rosetta che facilitò la reciproca comprensione tra due culture linguisticamente diverse ma affini dal punto di vista della Tradizione.

Ad esempio, se nell’ambito delle pratiche meditative i Cinesi adottarono con favore le tecniche yogiche legate al controllo delle fasi respiratorie, già ben note ai praticanti del Daoismo, dal punto di vista filosofico essi trovarono notevoli affinità fra la nozione buddhista di vacuità, l’assenza di sostanzialità dei fenomeni (śunyata in sanscrito), e il wu daoista, il non-essere, o hsü, vuoto, cavo, inteso come Suprema Realtà.

Un altro importante esempio di affinità tra le due tradizioni è offerto dalla nozione (in verità pre-buddhista) di karma (dalla radice kr-, da cui creazione), l’azione, l’attività umana. L’azione generata dall’ignoranza, avidyā, costituisce per i Buddhisti il “carburante” del meccanismo della ruota del saṃsāra, l’esistenza ciclica condizionata, permeata dalla sofferenza (duḥkha). In maniera non dissimile, i Daoisti proponevano la nozione di wei-wu-wei, l’agire-non-agire, ovvero un’azione che non andasse ad interferire con il corso armonico e spontaneo del Cosmo. In termini buddhisti, un agire che non contribuisca ad alimentare il fuoco della sofferenza, ma anzi porti alla sua estinzione (nir-vana).

Molti elementi facilitavano dunque una reciproca comprensione e arricchimento tra Buddhismo e Daoismo: il Buddhadharma aveva costituito una forma di reazione, un ritorno alle origini rispetto al dogmatismo brahmanico, e poteva quindi proporsi come stimolo per il Daoismo nel reagire al formalismo in cui era caduto il Confucianesimo e nel contrastare la propria stessa deriva verso il pensiero magico. Entrambi rifuggivano dalla pura speculazione fine a sé stessa, e questo aspetto era perfettamente adeguato al pragmatismo tipico della mentalità cinese. 

Anche la storia dell’umanità di quell’epoca contribuiva a tale evoluzione: in India il Buddhismo era praticamente scomparso, a causa delle proprie crisi interne ma soprattutto a causa delle invasioni dei Musulmani, che a partire dall’VIII secolo sterminarono le comunità monastiche, inflissero danni irreparabili alle espressioni artistiche legate alla cultura buddhista e induista, distrussero le grandi università come Nalanda – nelle quali vivevano e studiavano migliaia di monaci – riducendole a cumuli di mattoni ancora oggi visibili. Di conseguenza cessarono del tutto sia i pellegrinaggi cinesi in India sia gli arrivi degli eruditi indiani in Cina.

 

I resti dell'Università di Nalanda

 

A quel punto il Buddhismo in Cina iniziò necessariamente ad assumere una forma propria, indipendente anche se non difforme da quella originaria. Il Canone pali (Tripiṭaka, il Triplice Canestro) e molti fondamentali Sutra sanscriti  e commentari erano stati ormai tradotti e su queste basi teoriche si formarono le diverse scuole che giunsero a comporre una forma sinizzata e “daoistizzata” del Buddhismo. Il che corrisponde peraltro perfettamente alla natura stessa dell’insegnamento del Buddha: non-dogmatico, pragmatico, non istituzionale, finalizzato alla liberazione degli esseri dalla sofferenza e non alla costruzione di nuove categorie o concetti. Infatti se come il Buddha insegna ogni fenomeno è vuoto di esistenza intrinseca, è dipendente da ogni altro fenomeno, è impermanente, allora il Buddhismo stesso non può porsi come categoria speculativa, come catechismo, come opinione ultima da affiancare alle altre o più “vera” delle altre. E men che meno come istituzione immutabile e indiscutibile.

Lo stesso Buddha storico fu equiparato dai Cinesi ai grandi maestri daoisti, come Laozi e Chuangzi (si rammenti che si narra che Laozi al termine della sua vita si sia recato in India e sia diventato il guru del futuro Buddha).

La centrale figura buddhista del Bodhisattva, l’Essere la cui natura è il Risveglio, la personificazione del principio della Compassione o del principio della Saggezza, acquisì in Cina i tratti del Saggio daoista: esseri superiori immersi nell’armonico fluire del Dao,  al di là del pensiero logico e del linguaggio discorsivo, ma non avulsi dalla quotidianità, presenti nel mondo senza essere del mondo, costantemente dediti ad un agire nel non-agire, spontaneamente votati ad aiutare gli esseri senzienti a liberarsi dal dolore, pur consapevoli della fondamentale vacuità della sofferenza e degli stessi esseri sofferenti.

 

Il Bodhisattva della Compassione

A partire dal VII secolo (dinastia T’ang) nacquero e si diffusero in Cina dieci diverse scuole buddhiste, che costituivano spesso il prolungamento nel tempo e nello spazio di altrettante scuole che si erano precedentemente formate in India sulla base dei diversi testi e maestri di riferimento, con differenze di dottrina e di pratica anche importanti che non causavano però fratture insanabili o conflitti.

Alcuni esempi: la Scuola della consistenza del tutto, corrispondente ai Sarvastivadinah indiani, o la Scuola della realtà compiuta (in India erano chiamati Sautrantikah). Unicamente cinese era invece la Scuola della disciplina, che si occupava soprattutto di problematiche disciplinari ed etiche. Un esempio di fusione tra tematiche cinesi, indiane ed elementi della tradizione popolare è la Scuola della retta parola, una scuola esoterica che contribuì allo sviluppo di culti tantrici, con risvolti magici, fino a derive superstiziose. Ebbe molta fortuna in Giappone, con il nome di Shingon.

 

Guan Yin