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mercoledì 24 maggio 2017

I passi miracolosi del Buddha e della Vergine Maria

Il Buddhacarita (Le gesta del Buddha) di Aśvaghoṣa è un’opera del II secolo d.C. nella quale è poeticamente narrata la vita del Buddha Śākyamuni dalla sua nascita fino al conseguimento del Risveglio.
Tra i tanti eventi straordinari che accompagnano l’ultima rinascita del Sublime, nel Canto I si legge di un fatto meraviglioso: appena nato, colui che, “bello del colore dell’oro di gran pregio, illuminava tutto l’orizzonte[1], immediatamente si alza ritto in piedi e cammina. Così canta Aśvaghoṣa: “Simile alla costellazione dei Sette Veggenti, mosse allora sette passi sicuri, levàti con calma e direttamente, [appoggiati] con fermezza e lunghi di falcata.
E rivolgendo con contegno leonino lo sguardo ai quattro punti cardinali, disse queste parole rapportate al suo fine futuro: Per conseguire l’Illuminazione io sono nato, per il bene delle creature; questa è la mia ultima esistenza nel mondo[2].

Immagine tradizionale del Buddha bambino
Non si tratta comunque di una invenzione letteraria di Aśvaghoṣa.
Infatti, nel Maha-padana Sutta, un Sūtra del Canone Pali, quindi ben più antico del Buddhacarita, il Risvegliato narra la storia di Vipassi, il primo dei Buddha che lo avevano preceduto, ed afferma tra l’altro: “Quando il Bodhisatta è appena nato si alza in piedi e compie sette passi verso Nord, poi coperto da un bianco baldacchino scruta i quattro punti cardinali, e grida con voce di toro: Sono il signore del mondo, il supremo del mondo. Questa è la mia ultima nascita, non ci saranno altre esistenze[3].

Secondo il Lalitavistara, il Sūtra che andiamo traducendo su questo stesso blog, lo stesso evento miracoloso si svolge in maniera ancor più articolata: il Buddha bambino compie sette passi verso levante, altri sette verso sud, e ancora sette verso ponente e poi verso nord. Ed infine, sette passi verso la regione inferiore e sette verso la regione superiore. Ogni passo del Buddha è accompagnato dallo sbocciare di fiori di loto sotto ai suoi piedi e dalle sue parole, con cui la voce leonina del Beato conferma verso tutte le direzioni dello spazio la sua ultima rinascita e la definitiva liberazione dalle sofferenze [4].

I sette passi nel film di Bertolucci
 L’immagine del piccolo Siddhārtha che appena nato è in grado di camminare (e di parlare) è stata in anni recenti (1993) ripresa e tradotta in immagini cinematografiche dal regista Bernardo Bertolucci nel suo Piccolo Buddha (Little Buddha), l’ultimo film della cosiddetta trilogia orientale, insieme con L’ultimo Imperatore (1987) e Il tè nel deserto (1990). Anche se a parere di chi scrive la sequenza dei sette passi non è tra le migliori di un film peraltro non disprezzabile…
Anche nel film, ad ogni passo del piccolo Buddha fiori di loto sbocciano sotto i suoi piedi, un elemento che come si è visto non compare nel Sūtra canonico né nel Buddhacarita, ma che è invece riportato nel Lalitavistara e in altre narrazioni tradizionali sulla nascita del Sublime.

I sette passi del Buddha rimandano a miti più antichi, riportati nei testi fondamentali delle tradizioni induiste, in particolare a quelle legate al culto del dio Viṣṇu, manifestazione personificata dell’energia solare. Uno degli appellativi di Viṣṇu è infatti Trivikrama, ovvero colui che compie i tre grandi passi attraversando il cielo, come il carro del sole fa dall’alba al mezzogiorno al tramonto.
Nel Ṛg-veda è detto:
 “Io celebro le gesta eroiche di Viṣṇu, che misurò le regioni terrene e ha reso stabile la regione di sopra compiendo lui, dal vasto incedere, tre passi. Per questa impresa eroica Viṣṇu è lodato, lui che abita sulla montagna come una bestia selvaggia, aggirandosi ovunque, nei suoi tre grandi passi abitano tutti gli esseri, che la mia invocazione possa raggiungere Viṣṇu il toro che abita la montagna e che da solo ha misurato con i tre passi queste ampie sfere”.
Gli stessi tre passi che compie il sacerdote vedico nell’offerta sacrificale, rigenerando il cosmo come fece e farà il dio, fino al dissolvimento del presente universo.  

Trivikrama
Dal testo vedico ebbe origine il mito del quinto Avatara [5] di Viṣṇu, Vāmana, il Nano. Secondo il mito, il re Bali era diventato un despota, in quanto aveva ottenuto grandi poteri grazie alla forza della sua ascesi, alla quale nemmeno gli dei potevano opporsi. Gli dei, preoccupati, chiesero a Viṣṇu di intervenire. Egli, in forma di sacerdote nano, Vāmana, si presentò alla corte del re, uomo peraltro pio e devoto del dio Indra. Il re gli offrì un dono, e Vāmana gli chiese un po’ di terra, quanta ne avrebbe potuto misurare con tre dei suoi piccoli passi. Bali, caritatevole, acconsentì, ma il nano si trasformò nel gigantesco Viṣṇu Trivikrama e con due soli passi superò tutti i territori del regno. Non fece, per compassione, il terzo passo, lasciando così a Bali le regioni degli Inferni. In questo mito, il Viṣṇu Trivikrama creatore dei mondi diviene sì il distruttore di un regno, ma in compenso restaura con la sua opera il Dharma, l’Ordine cosmico, al quale l’ordine “terrestre”, politico e sociale, aveva cessato di conformarsi per la volontà di potenza del re.

Vamana
I tre passi del Viṣṇu vedico e poi del Viṣṇu puranico indicano il carattere universale del dio, essendo l’universo tripartito nelle tre zone di cielo, terra e acque. Non vi è quindi contraddizione tra i tre passi di Viṣṇu e i sette (o multipli di sette) passi del Buddha, in quanto esprimono lo stesso significato di universalità.
Come pure non vi è contraddizione tra il fatto che l’Avatara Vamana è un adulto, non un neonato come il piccolo Buddha. Non a caso, infatti, Vamana è descritto come un essere di statura molto piccola, gracile, apparentemente debole e indifeso. Come un bambino, quindi.

Per chi è immerso nella tradizione occidentale è facile pensare il Tre come simbolo di totalità (es. la Trinità), ma anche il Sette riveste un profondo significato simbolico, sia nel lontano Oriente sia nell’area mediterranea: esso “presiede all’inizio e al ritorno, allo sviluppo e alla risoluzione[6], giocando quindi un ruolo fondamentale nei processi ciclici.
Si pensi ai sette giorni della creazione biblica, ai sette colori di base, alle sette stelle dell’Apocalisse, che rimandano ai Sapta Ṛṣi dei Veda, ovvero i Sette Veggenti citati dal Buddhacarita; e ancora, i sette Cakra, i centri energetici dello Yoga; i sette pianeti dell’astrologia (i cui nomi ricorrono nei sette giorni della settimana – essendo la domenica il giorno del Dominus, ovvero del sole, Sunday); i sette metalli del percorso di trasmutazione alchemico. Sette sono i bracci del candelabro ebraico, i colli di Roma e i suoi Re; sette le Pleiadi figlie di Atlante; nel Cattolicesimo, sette sono i Sacramenti, le Virtù e i Peccati capitali, i Dolori patiti dalla Vergine Maria; e si potrebbe continuare ancora, fino, perché no, ai Sette Nani, o ai Sette Samurai di Kurosawa…

A proposito di simbologia, se si visualizza la figura geometrica generata dai passi del Buddha bambino sul piano orizzontale secondo il Lalitavistara, si ottiene un quadrato, percorso in senso orario, quindi porgendo il fianco destro al Centro (come avviene nella circumambulazione di uno stūpa), a partire dal punto α, che diviene quindi anche il punto ω [7]:

E il quadrato è simbolo della Terra, della base, della stabilità, dell’equilibrio [8]. Esso si forma sul principio della perfezione del Quattro. La stessa Gerusalemme Celeste è di forma quadrata, mentre circolare è il Paradiso Terrestre.
E il Quattro, principio di perfezione, concorre con l’universalità del Tre a generare la totalità di cui il Sette è portatore: 4 + 3 = 7.

 Ed infine un ultimo rimando, suggerito dai precedenti riferimenti alla tradizione giudaico-cristiana e alla figura della Vergine Maria, che volentieri propongo alla riflessione di chi legge.
Un importante testo cristiano è il Protovangelo di Giacomo, che la Chiesa ufficiale non considera canonico ma preferisce situare tra i cosiddetti Vangeli Apocrifi, anche se da esso trae molti particolari della vita di Maria, madre di Gesù, e che ha costituito fonte di ispirazione per buona parte dell’arte sacra cristiana, come d’altra parte è avvenuto per molti dei Vangeli Apocrifi. È attribuito a Giacomo il Minore, “fratello” di Gesù, e sarebbe stato composto intorno al 150 d.C., anche se studi recenti lo fanno risalire ad epoche a noi più vicine (intorno al IV secolo).
Ma ciò che lo avvicina a quanto fin qui detto sui passi del Buddha e del dio Viṣṇu è il racconto delle prime settimane di vita di Maria, la futura Madre di Gesù.
Vi si legge:
Di giorno in giorno la bambina cresceva. Quando ebbe sei mesi, la madre [Anna], la pose a terra, per vedere se stava ritta. Essa fece sette passi e tornò in grembo a lei. La madre la sollevò, dicendo: Come è vero che vive il Signore mio Dio, tu non camminerai più su questa terra, finché non ti avrò condotta al Tempio del Signore. E le costruì un santuario nella sua camera da letto e non permetteva che essa toccasse nulla di profano e di impuro[9].

I sette passi della Vergine Maria
Sette passi, quindi, come il Buddha neonato. E, al di là del numero, come Viṣṇu, l’Onnipervadente dio solare. Così come figura solare è certamente il Buddha, e con lui il Cristo, che nasce nei giorni del Sol Invictus caro ai Romani.
Passi che lasciano – ci si consenta il facile gioco di parole – impronte profonde, non nella storia (come il “piccolo passo per un uomo” di Neil Armstrong sulla Luna), ma nello spirito, il che è ben più importante.

Non è il caso di proseguire ulteriormente nella ricerca di analogie tra le vicende relative alla vita del Buddha o della madre Māyādevī e quelle di Gesù Cristo o di Maria Vergine.
Ritengo invece più importante dare alcune indicazioni di metodo, che traggo dalle parole di Marco Vannini, il più volte citato studioso della mistica cristiana, e non solo.
Analogia non è genealogia” – dice Vannini –, “la somiglianza delle forme non significa necessariamente identità di origine. Ovvero non si possono sempre spiegare manifestazioni analoghe o parallele deducendone una derivazione o influssi diretti dell’una sull’altra[10]. Nel nostro caso, se è piuttosto evidente, anche per motivi storici e geografici, una derivazione dei sette passi del Buddha dai miti vaiṣṇava, è bene invece astenersi da un approccio storicistico nel confrontare l’episodio del Buddhacarita con quello del Protovangelo di Giacomo. Val meglio, credo, pensarli con una chiave di lettura dei simboli in essi presenti e comuni alla spiritualità umana di ogni epoca e luogo, utilizzando magari gli strumenti della psicologia del profondo.


[1] Aśvaghoṣa, Le gesta del Buddha, a cura di A. Passi, Ed. Adelphi, pag. 17.
[2] Id.
[3] Maha-padana Sutta, 1, 29; in: Digha Nikaya, Silakkandhavagga.
Si veda: http://www.canonepali.net/dn/dn_14.htm.
Cfr. anche V. Cucchi (a cura di), La vita di Buddha nei testi del Canone Pali, Ed. Xenia, pag. 4.
[4] P.E. de Foucaux (trad. di) Le Lalitavistara, Ed. Les Deux Océans, pag. 78-79.
[5] L’Avatara è l’incarnazione della parte non-manifesta del dio che crea il mondo con solo una parte di se stesso, secondo la dottrina vedica. Esso “discende” sulla Terra per salvare gli esseri dalla sofferenza e dal male. Il Buddha è considerato nell’Induismo un Avatara di Viṣṇu, il nono, e penultimo.
Cfr. A. Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi, pag. 144 e seg.
[6] J.M. Vivenza, Dizionario guénoniano, Ed. Arkeios, pag. 376-377.
[7]Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine”. Apocalisse, 22,13.
[8] Dizionario guénoniano, pag. 335-336.
[9] Protovangelo di Giacomo, VI,1. In: M. Craveri (a cura di), I Vangeli Apocrifi, Ed. Einaudi, pag. 11-12.
[10] C. Augias – M. Vannini, Inchiesta su Maria, Ed. Rizzoli, pag. 194.


mercoledì 19 novembre 2014

Su alcune fonti della vita del Buddha - III


Le opere di Asvaghosa e la letteratura Kavya e Mahakavya


Il passaggio dai Jataka del Canone Pali al Jatakamala di Arya Sura, testo che del Canone non fa parte, segna il definitivo manifestarsi dell’interesse del mondo buddhista nei confronti della biografia del Buddha, che continua ancora ad essere visto come un essere umano (le vite passate non sono una particolarità dei Risvegliati, lo è semmai la capacità di ricordarle), ma che diviene sempre più oggetto di venerazione quasi come una divinità, un oggetto devozionale, cosa che indubbiamente è lontana dalla lettera e dallo spirito dei suoi ultimi insegnamenti, anche se lo spirito di compassione deve sempre spingere a comprendere i bisogni degli uomini, i quali non si trovano tutti ad uno stesso grado di maturazione spirituale (anche qui, la legge del karma è in opera!).

Tale fenomeno ha comunque contribuito, dal punto di vista letterario, alla nascita di quello che probabilmente è il testo classico più conosciuto e più bello sulla vita di Siddhartha Gautama Shakyamuni, il Buddhacarita ("Le gesta del Buddha") di Asvaghosa.

È difficile attribuire una esatta datazione alla vita e alle opere di Asvaghosa (in effetti non esiste una vera e propria storiografia per quanto riguarda l’India fino a circa l’anno 1000 d.C.): visse nell’India del Nord all’epoca della dinastia

Asvaghosa nell'iconografia cinese
Kushana, una popolazione indoeuropea che dal I al III sec. d.C. dominò le terre dall’Afghanistan alla Valle del Gange e a nord fino al Pamir, e che ebbe molti contatti con i mondi romano, greco-ellenistico e cinese, assorbendone importanti elementi culturali (si pensi all’arte del Gandhara). Asvaghosa visse probabilmente tra il 50 a.C. e il 100 d.C., apparteneva sicuramente alla casta brahmanica, conosceva infatti molto bene il sanscrito e la tradizione vedica. Solo in tarda età, si dice perché sconfitto in un pubblico dibattito, si convertì e prese i voti, divenendo discepolo di colui che lo aveva battuto, come tradizionalmente accadeva. Forse, divenne poi poeta di corte al seguito del re Kaniska. Viene ricordato tradizionalmente come uno dei “padri fondatori” del buddhismo Mahayana.

La sua opera principale è il Buddhacarita, “Le gesta del Buddha(1), una biografia del Buddha Shakyamuni che si differenzia nettamente dalla letteratura precedente relativa alla vita del Buddha (cioè i singoli episodi riportati nei sutra o negli altri testi del Canone Pali), in quanto non è discontinua né frammentaria nella narrazione, ed è priva altresì della ripetitività tipica dei testi canonici. Si distacca inoltre dalle altre “vite” sanscrite ormai perdute e risalenti ai primi anni della nostra era “in quanto opera unitaria, completa [..], colta e scritta in un sanscrito estremamente curato rispetto alla lingua mista delle altre produzioni coeve” (2).

La traduzione italiana del testo, pubblicata nella Biblioteca Adelphi, comprende i canti I-XIV, ovvero dalla nascita di Siddhartha fino al Risveglio sotto l’albero pipal. I canti successivi (da XV a XXVIII) non sono stati inclusi in quanto l’originale sanscrito è andato perduto e ancora non esistono traduzioni critiche delle versioni cinese e tibetana.

Può essere interessante, dal punto di vista letterario, sottolineare come l’opera di Asvaghosa possa essere definita come un kavya, uno stile usato dai poeti di corte indiani e caratterizzato dall’uso di metafore, similitudini ed altre figure letterarie, con un esplicito intento estetico. Il Buddhacarita è anzi un mahakavya (un “gran poema”), secondo la codifica del critico indiano Dandin (VII sec.): infatti un mahakavya deve essere diviso in canti, è “sorto da una narrazione storica o è comunque munito di verità; è aderente al quadruplice vantaggio (3), ha un eroe ingegnoso e nobile. È adornato da descrizioni di città, oceani, montagne [..], da bevute e feste d’amore, da separazioni, da matrimoni, da descrizioni dei successi di un principe [..] e dal trionfo dell’eroe(4). Un ulteriore importante requisito è il rasa, il gusto, il sapore, ovvero l’esperienza estetica che l’opera suscita nello spettatore/lettore. E il rasa prevalente del Buddhacarita nel suo complesso è lo shanta rasa, il “gusto” della pace interiore, mentre in singoli passi si può riscontrare il rasa della compassione (Siddhartha che conosce le sofferenze degli esseri umani), o del disgusto (le donne addormentate) ecc.
Una apsara, ninfa celeste
Un’altra famosa opera di Asvaghosa, che dimostra ulteriormente l’interesse del mondo buddhista della sua epoca per le vite dei Santi e che rientra anch’esso nella “categoria” letteraria del mahakavya, è il Saundarananda (“Nanda il Bello”), nel quale si narra la vicenda di Nanda, un fratellastro del Buddha Shakyamuni (5): “fonte di gioia senza fine in famiglia. Lungo di braccia e ampio di petto, leonine le spalle, taurino lo sguardo, egli, per il sublime aspetto era noto col soprannome di Bello. Come l’inizio del mese di Madhu (6), come il sorgere della luna nuova, come il dio disincarnato reincarnato (7), egli splendeva di maestà graziosa(8).
Nanda è profondamente tormentato: ha scelto di seguire il Buddha ed è divenuto monaco, ma il ricordo e il desiderio della bellissima moglie Sundari lo perseguitano. Allora il Buddha, ricorrendo alla sua capacità di usare gli abili mezzi, lo porta al cospetto delle meravigliose ninfe celesti, le Apsaras, al cui confronto la bellezza della moglie scompare. Nanda rivolge allora il proprio desiderio verso le ninfe e approfondisce la sua pratica del Dharma, unico mezzo, gli viene detto, per conquistarle. Ma proprio la pratica stessa fa sì che il desiderio si estingua, e Nanda può quindi ottenere il Risveglio.

La presenza delle caratteristiche kavya e mahakavya nell’opera di Asvaghosa spiega certamente la fortuna che ebbe nel suo tempo, nonché il fatto che tuttora il lettore rimanga affascinato e meravigliato dalla sua narrazione. Non per nulla, diceva il critico Dandin, un mahakavya è una “delizia per l’umanità e [..] dura per più di un’epoca cosmica(9).


NOTE
(1) Asvaghosa, Le gesta del Buddha, Ed. Adelphi.
(2) A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, in: Asvaghosa, Le gesta del Buddha, pag. 232. Due sono le “vite” a cui si fa qui riferimento: il Mahavastu (la “Grande Storia”, tra il II sec. a.C. e il IV d.C.) e il Lalitavistara Sutra (il “Sutra dei Giochi”), di poco posteriore.
(3) I “quattro vantaggi” corrispondono alle quattro finalità della vita umana secondo la tradizione hindu: il piacere, l’amore (kama), il lavoro, il benessere materiale (artha), il dovere civile, morale, religioso (dharma), la liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha). Nel caso del kavya buddhista, solo il quarto elemento ha valore, la liberazione dalla sofferenza, il Nirvana. Gli altri tre possono anzi divenire un ostacolo. Cfr. A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, pagg. 236-237.
(4) Id., pag. 236.
(5) Asvaghosa, Nanda il Bello, Ed. Adelphi.
(6) In sanscrito madhu indica il miele, forse il riferimento è all’inizio della primavera.
(7) È Kama, dio dell’amore, incenerito dallo sguardo di Shiva.
(8) Asvaghosa, Nanda il Bello, pag.25.
(9) A. Passi, Il Buddhacarita e il suo autore, pag. 236.