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mercoledì 22 febbraio 2017

René Guénon e le forme tradizionali del sacro


La lezione su René Guénon del 21 febbraio, nell’ambito del corso 2016-17 dell’Unisabazia, è stata tenuta dall’amico Renato Breviglieri dell’Unitre Valbormida.
Breviglieri – che ringraziamo per la collaborazione – è l’autore del testo da lui stesso utilizzato per il suo intervento, che ci ha gentilmente inviato e che qui di seguito pubblichiamo per intero.

L’autore e la sua vita

         René Jean-Marie-Joseph Guénon, conosciuto anche come Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya dopo la conversione all'Islam (Blois, 15 novembre 1886 – Il Cairo, 7 gennaio 1951) [1]. Nel 1912 si convertì all’islam (26 anni) e nel 1930 lasciò la Francia per stabilirsi in Egitto dove morì nel 1951 (65 anni).
È stato uno scrittore, esoterista, intellettuale francese. Non lo troviamo citato nella storia del pensiero filosofico occidentale.
Mauro Tonko Peretti all’inizio del primo paragrafo del suo intervento su “Arthur Schopenhauer legge le Upanishad” scrive “Proprio secondo Nietzsche, un pensiero filosofico “è sempre la confessione autobiografica del pensatore che lo enuncia”. Per Schopenhauer, poi, “ogni biografia è una patografia”.
René Guénon
Bisogna inquadrare Guénon nell’epoca in cui è vissuto, un XX secolo erede dell’esoterismo e dell’occultismo dell’‘800. Questo fa sì che nel mondo ci siano ammiratori di Guénon che ritengono i sui scritti incontestabili. A lui possiamo riconoscere di aver provato a vivere una via e di aver lasciato degli scritti che sono chiari e utili per ricavarne informazioni e testimonianze sulle mentalità dell’epoca.
Questo per introdurre il pensiero di René Guénon sviluppandosi nel fermento degli ambienti esoterici e religiosi dell’inizio del 1900. In quegli ambienti, nella ricerca della sua via, sviluppa una sua concezione di Tradizione e di Metafisica che lo farà passare da varie esperienze sino ad approdare nell’Islam.
Frequentatore precoce degli ambienti esoterici. A 20 anni frequenta la Scuola Ermetica ed è iniziato: all’Ordine Martinista, alla Chiesa Gnostica, alla Massoneria. Fonda l’Ordine del Tempio.
Tra questi associazioni va posta l’attenzione sull’Ordine Martinista in quanto fondato da Louis-Claude de Saint-Martin che nell’ultima sua opera pubblicata nel 1802, Il mistero dell’uomo-spirito, scrive: “…grande sapere verrà dallo studio delle opere che giungono dall’India”, riferendosi alla pubblicazione in Francia delle Upanishad, o parte di esse, avvenuta alla metà del XVIII secolo.
Louis-Claude de Saint-Martin dopo il periodo passato con il suo iniziatore Jacques de Livron de la Tour de la Case Martines de Pasqually prosegue su una sua via mistica e viene influenzato da Jacob Böhme (1575 –1624) ciabattino che dopo essere stato “illuminato” diventa filosofo, teologo, mistico e alchimista luterano tedesco. Fu uno dei principali esponenti del misticismo cristiano moderno, ed era detto dai suoi contemporanei «Philosophus teutonicus».
L’anello di congiunzione tra la mistica cristiana di Böhme e le intuizioni sull’oriente di Louis-Claude de Saint-Martin è dato dalla figura di Johann Georg Gichtel (1638 –1710) è stato un filosofo, teologo e mistico tedesco. Egli intuisce, non risultano prove di contatti con l’India, i sette centri energetici segreti del corpo umano, già conosciuti nella letteratura indiana come chakra e li pubblica nel libro Theosophia Practica (1696).

Immagine dall'opera di Gichtel
Nel 1912 a 26 anni ha il suo contatto con l’esoterismo islamico. Nel 1913 incontra l’Indù Swami Narad Mani che lo documenta sulla Società Teosofica. Si laurea nel 1915 in filosofia.
Parte nel 1930 a 44 anni per il Cairo d’Egitto dove si risposa con la figlia dello Shaykh Muhammad Ibrahim. Era rimasto vedovo nel 1928 dopo 16 anni di matrimonio. Muore nel 1951 a 65 anni.


 Le opere


Inizia giovane a scrivere e la sua produzione letteraria sarà di 27 titoli, 10 pubblicati postumi.  L’elenco delle sue opere sono alla fine di questo documento. A 23 anni, 1909, fonda la rivista La Gnose dove appaiono; il suo primo scritto intitolato “Il Demiurgo” articoli sulla Massoneria e la prima stesura de “Il simbolismo della Croce” e de “L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedānta”.
Nel 1921 pubblica “Introduzione generale allo studio delle dottrine Indù” in cui precisa in quale accezione occorre intendere alcune nozioni quali; tradizione, religione, metafisica, teologia, filosofia, esoterismo, essoterismo, realizzazione. Termini fondamentali per comprendere il suo pensiero nelle opere successive.
La realizzazione spirituale e l’ortodossia alla Tradizione sono il fulcro delle opere di René Guénon. Tradizione intesa non come mero insieme di usi e costumi ma come trasmissione di un patrimonio simbolico e metodologico. Come un veicolo imprescindibile per accostarsi alla metafisica, termine con il quale egli intende la conoscenza sovrarazionale da realizzare attraverso il procedimento immediato dell’intuizione intellettuale.
Proprio alla metafisica dedica il primo capitolo “Generalità sul Vedānta” nel libro “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedānta”. Libro che richiede una conoscenza specifica ed approfondita della cultura induista e bramanica per comprendere le diverse interpretazioni e sfumature.
L’autore ci introduce al concetto di Darśana nelle dottrine indù. Vedere sotto altre angolazioni la stessa sorgente e riconoscere che tutti i punti di vista sono ortodossi. Le varie concezioni metafisiche e cosmologiche dell’India non sono dottrine differenti ma soltanto, secondo certi punti di vista ed in direzioni differenti, sviluppi non incompatibili di una sola dottrina. Specifica che i vari orientalisti e studiosi delle religioni hanno errato nel definire il Vedānta una religione, una filosofia o qualcosa di analogo ai due concetti precedenti.
Vedānta va inteso come il fine, lo scopo, la conclusione dei Vedā e dell’insegnamento delle Upanishad. Nelle sue considerazioni riconosce tutto come appartenente all’ortodossia ma colloca il buddismo fuori dall’ortodossia. Ha un rapporto epistolare con Ananda Kentish Coomaraswamy che gli fa notare che non è d’accordo nel indicare il buddismo come una via fuori dall’ortodossia. Questa classificazione la farà anche quando tratterà confucianesimo e taoismo.
Il messaggio di Guénon è che bisogna elevarsi in base alle proprie capacità, lavorare sui simboli con un costante lavoro individuale.
Nelle varie opere troviamo sempre riferimenti all’oriente, sia che tratti di India, Islam o Ebraismo, sempre ricercando nelle varie vie gli aspetti metafisici. È sorprendete la vastità culturale dell’autore che iniziando a sperimentare in vari campi da giovane ed a scrivere le sue riflessioni ci ha lasciato una testimonianza basilare per capire il passaggio della spiritualità e dell’esoterismo dal XIX al XX secolo.
Seguendo cronologicamente suoi scritti troviamo, relativamente all’oriente, i seguenti argomenti:
a) Abbozzo di quello che diventerà poi il libro L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedānta (1909);
b) Introduzione generale allo studio delle dottrine indù (1921) che pone le basi del significato dei termini che utilizzerà;
c) Oriente e Occidente (1924);
d) L'uomo e il suo divenire secondo il Vedānta (1925) tutto dedicato all’approfondimento dei testi sacri indiani;
e) Il Re del Mondo (1927); in cui tratta di Agarttha, del Kali-yuga;
f) Autorità spirituale e potere temporale (1929). Tratta la natura rispettiva dei Brahmani e degli Kshatriya.
g) Il simbolismo della Croce (1931); libro fondamentale per capire cosa intende Guénon per simbolo. Espone la teoria indù dei tre guna, spiega lo swastika, il simbolo estremo-orientale dello yin-yang, equivalenza metafisica di nascita e morte. La grande Triade.
h) La Metafisica orientale (1939);
i) Considerazioni sull'iniziazione (1946); in cui tratta la nascita dell’Avatāra.
j) La Grande Triade (1946);
k) Iniziazione e realizzazione spirituale (1952); in cui tratta Guru e upaguru.
l) Simboli della Scienza sacra (1962); L’albero ed il Vajra. Kâla-mukha.

         Sono partito dal libro L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta. L’edizione su cui mi sono basato è quella pubblicata dalle Edizioni Adelphi, prima edizione del 2015. Il testo è composto da 24 capitoli e ha alla fine un indice dei termini sanscriti che ci aiutano ritrovare i collegamenti all’interno dell’opera.
         Nella prefazione l’autore scrive che trattare troppi argomenti o fare accostamenti azzardati non è giustificabile e che quindi sceglie di scrivere di un argomento, anche se in maniera non esaustiva, per fare della metafisica – e non della pseudo-metafisica come fanno i filosofi europei.  Prosegue scrivendo che le intenzioni dell’autore non sono quelle di uno storico e che vuole fare comprensione e non erudizione, che gli interessa solo la verità delle idee e non fare filosofia.

Guénon - Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya

Concetti

L’opera di Guénon è concepita a partire da una ridefinizione in senso tradizionale della nozione di metafisica, intesa come “conoscenza dei principî di ordine universale” da cui tutto procede. Non un sistema sincretistico. Espone alcuni aspetti delle cosiddette “forme tradizionali”: Taoismo, Induismo, Islam, Ebraismo, Cristianesimo, Ermetismo, Libera Muratoria, Compagnonaggio, ecc.
L’intera opera è caratterizzata da una coerenza organica, sul piano formale e su quello sostanziale, tale da rendere Guénon un autore differente dalla maggior parte degli altri esoteristi.
Il suo richiamo continuo all’ortodossia ed all’esoterismo delle vie può farlo sembrare un sincretista ma è proprio questo che egli non vuole.
Proseguiamo con l’analisi della struttura del libro L'uomo e il suo divenire secondo il Vedānta.
Nel primo capitolo “Generalità sul Vêdânta” Guénon afferma che contrariamente alle opinioni fra gli orientalisti, il Vêdânta non è una filosofia, né una religione, né qualche cosa che partecipa più o meno dell’una e dell’altra.
         Ma cos’è il Vêdânta? Se per comodità, prendendo le notizie come fonti non di prima mano, andiamo a vedere Wikipedia troviamo: Vedānta è un termine sanscrito che ha il significato di fine dei Veda.
Il termine intende indicare quindi sia le Upaniṣad, per l'appunto parte finale del corpus vedico, sia il fatto che esse rappresentino il culmine dello stesso corpus nel senso che indirizzano al fine ultimo dello stesso, il mokṣa ("liberazione"), sia nel senso che tale letteratura viene studiata per ultimo, dopo gli altri testi.
Il termine indica anche una tradizione dottrinale, detta altrimenti Uttaramīmāṃsā ("esegesi ulteriore"), che si fonda sul Brahmasūtra (conosciuto anche come Vedāntasūtra, Uttaramīmāṃsāsūtra o Śārīrakamīmāṃsāsūtra), testo teologico generalmente attribuito a Bādarāyaṇa (primi secoli della nostra èra; altra datazione III-II sec. a.C.) e composto di 555 aforismi. In tal senso questo alveo dottrinale fa particolare riferimento a un "triplice canone" (prasthanātraya: traya, tre; prasthanā, "punto di avvio") che corrisponde alle Upaniṣad, alla Bhagavadgītā, al Brahmasūtra di Bādarāyaṇa.
Sankara
Le correnti del Vedānta tradizionalmente sono sei, le principali correnti (sampradāya) indicate come le quali, pur radicandosi nel prasthanātraya, offrono dottrine e teologie assolutamente diverse tra loro:
la corrente di Śaṅkara (VI-VII secolo) fondata sulla dottrina del kevalādvaita;
la corrente di Rāmānuja (XI secolo) fondata sulla dottrina dello viśiṣtādvaita;
la corrente di Madhva (XIII secolo) fondata sulla dottrina dello dvaita;
la corrente di Nimbārka (XIV secolo) fondata sulla dottrina dello dvaitādvaita;
la corrente di Vallabha (XV-XVI secolo) fondata sulla dottrina dello śuddhādvaita;
la corrente di Caitanya (XVI secolo) fondata sulla dottrina dell’acintya-bhedābheda.

         L’autore prosegue affermando che il Vêdânta è un ramo metafisico della cultura indiana, che non è per tutti e che bisogna elevarsi in base alle proprie capacità.
         La lettura del primo capitolo è difficile per chi non ha un precedente base sulla cultura indiana. L’autore inizia scrivendo che “Le varie concezioni metafisiche e cosmologiche dell’India non sono, a rigore, dottrine differenti, ma soltanto sviluppi, secondo certi punti di vista e in direzioni diverse ma per nulla incompatibili, di una solo dottrina. Del resto, il vocabolo sanscrito darshana, che designa ciascuna di queste concezioni significa propriamente [visione] o [punto di vista]…
Nel secondo capitolo tratta della distinzione fondamentale fra il Sé e l’io. Rendendosi conto della complessità dell’esposizione e delle diramazioni tra Universale, Individuale, Generale, Particolare, Collettivo, Singolare, alle pagine 31e 32 [2] riporta due schemi riassuntivi.
Il terzo capitolo lo dedica al centro vitale dell’essere umano dimora di Brahma. La sua vasta cultura gli permette di fare parallelismi tra la sede dell’Âtmâ che risiede nel più piccolo germe del più piccolo seme di miglio con la parabola del Vangelo di Matteo, 13, 31-32, “il Regno dei Cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo, esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande di tutti gli altri legumi e diviene un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi sui suoi rami”.
Nel quarto capitolo tratta di Purusha e Pakriti. Principio attivo e passivo, rappresentante il maschile ed il femminile. Dobbiamo avere sempre presente che essi non sono svincolati. Per esempio, nel corpo abbiamo i due principi. Nell’evoluzione spirituale abbiamo varie inversione dei due principi nei vari stadi.
Il ventiquattresimo capitolo tratta dello stato spirituale dello Yogî: l’Identità Suprema. Questa unione che dovrebbe essere comune a tutte le vie. Basta saperne trovare l’essenza.
Sapendo di avere appena sfiorato la complessità dell’opera di René Guénon, termino con una citazione per ricondurmi al titolo:
“Il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della storia della coscienza. L'esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto dall'uomo per costruire un mondo che abbia un significato. Le ierofanie e i simboli religiosi costituiscono un linguaggio preriflessivo. Trattandosi di un linguaggio specifico, sui generis, esso necessita di un'ermeneutica propria”.
(Mircea Eliade, Discorso pronunciato al Congresso di Storia delle religioni di Boston il 24 giugno 1968).

Note

1. https://it.wikipedia.org/wiki/Ren%C3%A9_Gu%C3%A9non 18/02/2017 14.00.
2. René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, Adelphi Edizioni S.p.A., Milano, 2015, 1a edizione­.


Glossario minimo

Brahmā: adattato anche in Brahma è nella lingua sanscrita l’adattamento in genere maschile del termine di genere neutro Brahman e indica, a partire da testi recenziori hinduisti, quella divinità predisposta all'emanazione/creazione dell’universo materiale.
Brahmā acquisisce quindi quel ruolo che nei testi più antichi è riservato a Prajāpati ma a differenza di quest’ultimo Brahmā non è una divinità suprema quanto piuttosto è al servizio di altre divinità considerate supreme.
Brahmā non deve essere confuso con il Brahman upaniṣadico che intende invece indicare quell’unità cosmica da cui tutto procede e da cui procede anche Brahmā che ne risulta un agente. Anche se va tenuto presente che nel loro variegarsi le teologie hinduiste possono intendere lo stesso Brahman come mera potenza impersonale della divinità principale intesa come Persona suprema, e di volta in volta indicata come Kṛṣṇa/Viṣṇu o Śiva o queste, viceversa, possono rappresentare solo una sua manifestazione.

Brahmanesimo: con il termine Brahmanesimo gli storici delle religioni e gli orientalisti intendono la religione dell’India generatasi intorno all'ultima letteratura vedica, quella inerente ai Brāhmaṇa e alle Upaniṣad "vediche". Rappresenta lo sviluppo del Vedismo e si avvia intorno al IX secolo a.C. terminando nei primi secoli della nostra Era con l’ingresso dell’Induismo.
Il passaggio dal Vedismo al Brahmanesimo corrisponde alla progressiva sostituzione delle figure sacerdotali coinvolte nei riti sacrificali. Se nel primo Veda, il Ṛgveda, l'officiante delle libagioni è l’hotṛ (corrispondente allo zaotar dell'Avesta), accompagnato da altre figure sacerdotali minori, con il passare dei secoli e con l’elaborazione dottrinale all'interno degli stessi Veda, sopraggiunge la figura dell’udgātṛ il cantore delle melodie del Sāmaveda, sostituito poi anch’esso come figura sacerdotale primaria dallo adhvaryu, il mormorante i mantra relativi allo Yajurveda e infine con il Brahmanesimo, dal brahmano, l’ultimo dei sacerdoti che sovrintendeva alla correttezza del rito, riparando a qualsiasi errore, e detentore dell'ultimo Veda, l’Atharvaveda.

Darśana: (dalla radice sanscrita drś, cioè "vedere") è un aggettivo e un sostantivo neutro sanscrito dai molteplici significati.
In qualità di aggettivo darśana indica "che espone", "che mostra", "che sa", "che insegna", "che rivela".
In qualità di sostantivo neutro darśana possiede numerosi significati che vanno dalla "vista", all’"indagine", al "discernimento", all’"opinione", alla "dottrina".
Nell’ambito delle cosiddette "teologie" o filosofie religiose induiste il termine darśana indica un sistema teorico o interpretativo frutto di un "punto di vista".
Tali sistemi interpretativi prendono avvio dal pieno periodo del Brahmanesimo fino agli inizi dell’Induismo (dal IV secolo a.C. al IV secolo d.C.).
La necessità di pronunciare un astika ("è così") rispetto alla interpretazione dei Veda rientra tra i "quattro obiettivi dell'uomo" (quattro puruṣārtha) stabiliti dai Dharmasūtra (VI secolo a.C.-V secolo d.C.). L’ultimo di questi obiettivi denominato mokṣa inerisce al saṃnyāsin (il rinunciante) il quale deve necessariamente mettere in atto quelle vie di liberazione collegate ai Veda che lo emancipino dalla schiavitù del karman. Da qui la necessità di elaborare delle darśana sulla comprensione della realtà e sulle vie di emancipazione.
Secondo Gianluca Magi, la nascita e lo sviluppo delle darśana corrisponde alla nascita e allo sviluppo delle correnti religiose, come il Buddhismo e il Jainismo, considerate eterodosse dai brahmani:
«Questa minaccia delle scuole eterodosse rende impellente per la filosofia brāhmaṇica l’adozione di un metodo logico-critico in grado di fondare concezioni teoretiche tali da resistere alle critiche delle varie scuole, e per contrattaccare a propria volta. In tal modo viene organizzata ogni forma di pensiero; ogni materia passa attraverso il filtro di questi sei metodi, le conclusioni, spesso contraddittorie, consentono di esaminare le problematiche filosofiche in modo equilibrato. Questi sei metodi, chiamati appunto "punti di vista" (darśana), considerati sei aspetti di una singola tradizione ortodossa sono...»
(Gianluca Magi. Darśana, in "Enciclopedia filosofica" vol. 3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2534 e segg.)

Ishvara: è un concetto in Induismo, con una vasta gamma di significati che dipendono l’epoca e la scuola dell’Induismo. Nei testi antichi di filosofia indiana, a seconda del contesto, Ishvara può significare supremo dell'anima, righello, signore, re, regina o il marito. In testi medievali indù, a seconda della scuola di induismo, Ishvara significa Dio supremo, dio personale, Sé.
In Shaivism, Ishvara è sinonimo di "Shiva", a volte come Maheshvara o Parameshvara che significa il "Supremo Signore", o come Ishta-deva (dio personale). In Vaishnavism, è sinonimo di Vishnu. In tradizionali movimenti Bhakti, Ishvara è una o più divinità di preferenze di un individuo da politeista canone della divinità dell’induismo. Nei moderni movimenti settari, come Arya Samaj e Brahmoism, Ishvara assume la forma di un Dio monoteistico. In Yoga della scuola di induismo, è qualsiasi "divinità personale" o "ispirazione spirituale". Nella scuola Vedanta, Ishvara è un Universale monistico che collega ed è l’Unità di tutto e tutti.

Karma: (adattamento del termine sanscrito trascritto come kárman o più comunemente karman) è un termine d’uso nelle lingue occidentali traducibile come "atto", "azione", "compito", "obbligo", e nei Veda inteso come "atto religioso", "rito". Il karma indica, presso le religioni e le filosofie religiose indiane, o originarie dell’India, il generico agire volto a un fine, inteso come attivazione del principio di "causa-effetto", quella legge secondo la quale questo agire coinvolge gli esseri senzienti nella fruizione delle conseguenze morali che ne derivano, vincolandoli così al saṃsāra, il ciclo delle rinascite. Quello del karma è uno dei concetti nucleari delle dottrine induiste, strettamente connesso all'altro del mokṣa, inteso quest’ultimo sia dal punto di vista soteriologico, e cioè salvezza dal saṃsāra, sia dal punto di vista spirituale, come conseguimento di una condizione superiore, diversamente intesa a seconda della dottrina.

Māyā: indica diverse dottrine filosofiche e religiose originarie dell’India nonché, come nome proprio, la madre di Gautama Buddha o uno dei nomi della dea Lakṣmī.
Il significato originario di māyā è quello di "creazione", ma ha successivamente acquisito il significato di "illusione".

Mokṣa: sostantivo maschile della lingua sanscrita dal significato di "liberazione", "affrancamento", "emancipazione", "salvezza". Mokṣa è uno dei cardini delle dottrine religiose e spirituali dell’India, comune a tutte le correnti e tradizioni dell’induismo, al jainismo, al sikhismo, e affine al nirvāṇa del buddhismo. La liberazione, variamente interpretata e diversamente conseguibile a seconda del contesto, è principalmente intesa come salvezza dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), ma anche quale conseguimento di una condizione spirituale superiore.

Saṃsāra: (devanāgarī संसार, "scorrere insieme") indica, nelle religioni dell’India quali il Brahmanesimo, il Buddhismo, il Giainismo e l’Induismo, la dottrina inerente al ciclo di vita, morte e rinascita. È talora raffigurato come una ruota.
In senso lato e in un significato più tardo, viene ad indicare anche "l’oceano dell'esistenza", la vita terrena, il mondo materiale, che è permeato di dolore e di sofferenza, ed è, soprattutto, insostanziale: infatti, il mondo quale noi lo vediamo, e nel quale viviamo, altro non è che miraggio, illusione māyā. Immerso in questa illusione, l’uomo è afflitto da una sorta di ignoranza metafisica (avidyā), ossia da una visione inadeguata della vita terrena e di quella ultraterrena: tale ignoranza conduce l’uomo ad agire trattenendolo così nel saṃsāra.

Upaniṣad: sono un insieme di testi religiosi e filosofici indiani composti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (le quattordici Upaniṣad vediche) anche se progressivamente ne furono aggiunti di minori fino al XVI secolo raggiungendo un numero complessivo di circa trecento opere aventi questo nome.
Trasmesse per via orale, furono messe per iscritto per la prima volta nel 1656 quando il sultano musulmano Dara Shikoh (1615-1659) ordinò la traduzione dal sanscrito al persiano di cinquanta di esse e quindi la loro resa in forma scritta.
Il termine Upaniṣad deriva dalla radice verbale sanscrita: sad (sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino) ossia "sedersi vicino", ma più in basso (ad un guru, o maestro spirituale), suggerendo l'azione di ascolto di insegnamenti spirituali.
Questo termine richiama chiaramente, come evidenziato da Mario Piantelli, anche un insegnamento "esoterico". Significativo è che persino la Bhagavadgītā si qualificava come upaniṣad nel colophon dei manoscritti del Mahābhārata e che, evidenzia Piantelli ricordando le note dell'antico commentatore Bhāskara, le persone di bassa casta che l’avessero ascoltata avrebbero subito la stessa sorte di coloro che avessero ascoltato le Upaniṣad senza averne la qualifica: gli sarebbe stato versato del piombo fuso nelle orecchie. Questo spiega la ragione per cui le Upaniṣad non furono mai messe per iscritto ma sempre trasmesse per via orale solo a persone che erano autorizzate a riceverne gli insegnamenti.
Le Upaniṣad sono, dunque, commentari "segreti" (rahasya) dei Veda, nonché loro 'fine', nel senso di completamento dell’insegnamento vedico; per questo motivo sono anche conosciuti come Vedānta (Fine dei Veda) e sono alla base del pensiero religioso indiano che attraverso il Brahmanesimo giungerà, nella nostra era, a costituire quel complesso di dottrine e pratiche che va sotto il nome di Induismo.

Veda: sono un’antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii che invasero intorno al XX secolo a.C. l’India settentrionale, costituenti la civiltà religiosa vedica, divenendo, a partire dalla nostra era, opere di primaria importanza presso quel differenziato insieme di dottrine e credenze religiose che va sotto il nome di Induismo. Il Veda più antico è senza dubbio il Ṛgveda, cui seguono gli altri tre: Sāmaveda, Yajurveda, e Atharvaveda. Nel complesso questa letteratura religiosa descrive gli indoari come nomadi guerrieri in conflitto con le popolazioni locali, eredi della Civiltà della valle dell'Indo. I testi vedici descrivono le popolazioni autoctone come di pelle scura oggi identificate come dravidiche. Gli indoari indicavano sé stessi come ārya (nobili) riservando il termine dāsa (anche dasyu, successivamente col significato di "schiavo") alle popolazioni autoctone con cui erano venuti a contatto. Secondo gli indoari, questi dāsa non veneravano divinità né possedevano riti religiosi quanto piuttosto veneravano un "fallo" (pene eretto, sanscrito liṅgaṃ, denominato dio-pene o dio-coda Siśnadeva). Secondo Alf Hiltebeitel la scoperta di oggetti di forma fallica nella Valle dell'Indo fa supporre come corretta la descrizione vedica di questi culti, peraltro anticipatori del culto del Liṅgaṃ nello Śivaismo.

Vedānta: è un termine sanscrito che ha il significato di fine dei Veda (anta, "fine", del Veda).

Opere

(Le date fanno riferimento alla prima edizione francese)

Libri
Introduzione generale allo studio delle dottrine indù (1921), Adelphi
Le théosophisme, histoire d'une pseudo-religion (1921), Éditions Traditionnelles
Errore dello spiritismo (1923), Luni Editrice
Oriente e Occidente (1924), Luni Editrice
L'uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta (1925), Adelphi
L'esoterismo di Dante (1925), Adelphi
Il Re del Mondo (1927), Adelphi
La crisi del Mondo moderno (1927), Edizioni Mediterranee
Autorità spirituale e potere temporale (1929), Luni Editrice
San Bernardo (1929), Luni Editrice
Il simbolismo della Croce (1931), Luni Editrice
Gli Stati molteplici dell'essere (1932), Adelphi
La Metafisica orientale (1939), Luni Editrice
Il regno della quantità e i segni dei tempi (1945), Adelphi
La Grande Triade (1946), Adelphi
Considerazioni sull'iniziazione (1946), Luni Editrice
I princìpi del calcolo infinitesimale (1946), Adelphi

Pubblicazioni postume
a cura di Jean Reyor (alias di Marcel Clavelle):
Iniziazione e realizzazione spirituale (1952), Luni Editrice
Sull'esoterismo cristiano (1954), Luni Editrice
a cura di Michel Vālsan:
Simboli della Scienza sacra (1962), Adelphi
a cura di Roger Maridort:
Études sur la Franc-maçonnerie et le Compagnonnage - tome I (1964), Éditions Traditionnelles
Études sur la Franc-maçonnerie et le Compagnonnage - tome II (1965), Éditions Traditionnelles
Studi sull'Induismo (1966), Luni Editrice
Forme tradizionali e cicli cosmici (1970), Mediterranee
Scritti sull'esoterismo islamico e il Taoismo (1973), Adelphi
Recensioni (1973), Luni Editrice
Mélanges (1976) trad. it. Il Demiurgo e altri saggi, Adelphi


Altre pubblicazioni
Écrits pour Regnabit (1999) - a cura di PierLuigi Zoccatelli - raccolta di tutti gli articoli scritti da R. Guénon per la rivista «Regnabit»
Psychologie, a cura di Alessandro Grossato (2001) - attribuzione di un quaderno di appunti raccolti da uno studente di un corso di filosofia tenuto a Sétif (Algeria) da R. Guénon negli anni 1917-1918.
Articles et comptes rendus - tome I (2002) - miscellanea
La corrispondenza fra Alain Daniélou e René Guénon, a cura di Alessandro Grossato (2002)
Il risveglio della tradizione occidentale (2002) - miscellanea
La Tradizione e le tradizioni, a cura di Alessandro Grossato (2003) - miscellanea
Lettere a Julius Evola (2005)
Recueil (2013) - a cura di Mircea Tamaş - miscellanea
Fragments doctrinaux (2013) - a cura di Mircea Tamaş - trad. it Frammenti dottrinali, Luni Editrice - estratti di circa 600 lettere a una trentina di corrispondenti
Orient et Occident (2014) - a cura di Mircea Tamaş - miscellanea
Le Sphinx, Recueil, Textes parus dans la France Antimaçonnique (2015) - articoli giovanili di R. Guénon (a firma le Sphinx) scritti a difesa e supporto della Libera Muratoria, pubblicati nella rivista «La France Antimaçonnique»

Filmografia su René Guénon
Film che trattano la figura di René Guénon:
Un'altra giovinezza - Youth without Youth (2007), di Francis Ford Coppola, tratto dalla novella di Mircea Eliade e interpretato da Tim Roth
Il mistero di Dante (2014), di Louis Nero, interpretato da F. Murray Abraham

(testo di Renato Breviglieri
immagini inserite dal curatore del blog)


mercoledì 14 dicembre 2016

Arthur Schopenhauer legge le Upanishad


Alcune domande possono legittimamente sorgere durante lo studio della storia della filosofia, quali: fino a che punto la biografia di un pensatore può influire sul suo sistema filosofico, e fino a che punto è corretto giudicarne il pensiero anche sulla base degli eventi della sua storia personale?
Ad esempio, si può studiare Giovanni Gentile prescindendo dalla sua totale fedeltà al fascismo, che gli costò la vita? La relazione adulterina che l’autore del Capitale intrattenne con Helene Demuth, proletaria governante di casa Marx, è solo gossip? E l’episodio torinese di Nietzsche che abbraccia un cavallo difendendolo dalle frustate del vetturino, ha a che fare con la sua filosofia o è solo un sintomo di follia? Innumerevoli sono gli esempi possibili.

Arthur Schopenhauer

Proprio secondo Nietzsche, un pensiero filosofico “è sempre la confessione autobiografica del pensatore che lo enuncia[1]. Per Schopenhauer, poi, “ogni biografia è una patografia[2]!
La vita e il pensiero di Arthur Schopenhauer sono in effetti un perfetto esempio di ciò di cui si sta parlando. Per lui si può dire, meglio che per ogni altro filosofo, che “la sua filosofia è in gran parte la sua stessa vita[3] (per ora accettiamo quest’ultima affermazione, ma con beneficio d’inventario).
Egli stesso scrisse nel 1832: “A diciassette anni, digiuno di qualsiasi istruzione scolastica di alto livello, fui turbato dallo strazio della vita proprio come Buddha in gioventù, allorché prese coscienza della malattia, della vecchiaia, del dolore, della morte. La verità, che mi parlava in modo così chiaro e manifesto dal mondo, presto ebbe la meglio sui dogmi giudaici che erano stati inculcati anche in me, e ne conclusi che un mondo siffatto non poteva essere l’opera di un essere infinitamente buono, bensì di un demonio, che aveva dato vita alle creature per deliziarsi alla vista dei loro tormenti[4].
Lo strazio di cui Schopenhauer parla è riferito alla morte del padre, un ricco commerciante di origini tedesche, che nel 1805 si era suicidato, lasciando il diciassettenne Arthur (era nato a Danzica[5] nel 1788) alle cure della giovane madre, una scrittrice di scarso talento interessata più alla letteratura che alla propria famiglia, la quale ben presto si staccò da Arthur e dalla figlia minore per trasferirsi a Weimar, dove fondò un salotto letterario frequentato anche da Goethe e dai fratelli Grimm.

Danzica
Dopo la morte dell’amato padre il giovanissimo Arthur iniziò a dedicarsi agli studi classici, prima a Gotha e poi a Weimar. Studiò anche molte materie scientifiche, ma soprattutto filosofia, in particolare Platone e Kant, che rimasero per lui punti di riferimento fondamentali. Si laureò con una tesi in filosofia (Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente), della quale la madre disse che le sembrava trattarsi di un testo per farmacisti. Al che il figlio rispose con una profezia che descrive molto bene il loro rapporto: “Sarà ancora letta quando dei tuoi romanzetti non esisterà neppure una copia nei solai[6]. Dopo di allora non si rividero mai più.
Fino al 1851, anno in cui il suo lavoro cominciò ad essere apprezzato, non solo in Germania ma anche in Italia, dove viaggiò a lungo, e in Inghilterra, la vita di Schopenhauer fu un susseguirsi di problemi economici (la banca dove aveva tutti i suoi depositi fallì), di insuccessi e delusioni nell’ambito culturale e lavorativo, di difficoltà nei rapporti umani.
Alla fine del 1818 pubblicò la sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione[7], ma fu un tale fallimento che quasi tutte le copie finirono al macero.
Ebbe profonde divergenze con Goethe, e poi con Hegel, suo imbattibile competitore nelle docenze universitarie. Secondo Schopenhauer, quest’ultimo era “spacciato [..] come un grande filosofo”, ma in realtà era “un ciarlatano piatto, privo di spirito, nauseante, disgustoso, ignorante”, la cui influenza ha prodotto “la corruzione intellettuale di tutta una generazione erudita [8].
Una relazione sentimentale con un’italiana finì nel nulla, poi dal 1820 al 1826 ebbe una burrascosa liaison con una corista dell’opera di Berlino, che in quegli anni gli diede un figlio, di cui però non era il padre. Si dice anche che, essendo in attesa di un figlio dalla domestica, lasciò alla propria sorella il compito di risolvere il problema (il bambino poi nacque morto)[9].
Durante una lite con una donna che faceva rumore nell’anticamera, la spinse e le procurò delle lesioni. Ne nacque un procedimento civile, e Schopenhauer le dovette pagare un vitalizio fino alla morte.
Inoltre, a causa di una lunga malattia rimase per un anno rinchiuso in una stanza, e ne uscì sordo da un orecchio.
Intanto aveva pubblicato diverse opere filosofiche, che però non riscuotevano il riconoscimento sperato nel mondo accademico e nell’editoria. Fino, come accennato, alla svolta positiva del 1851, quando uscirono i due volumi dei Parerga e paralipomena[10], che finalmente gli valsero un notevole successo editoriale e schiere di discepoli. Il suo capolavoro di trent’anni prima, Il mondo, fu ampiamente rivalutato e ripubblicato più volte, e la critica si accorse finalmente di Schopenhauer, compreso Francesco De Sanctis, che nel 1858 scrisse un saggio comparandone il pensiero con quello di Leopardi.
Ma pochi anni dopo, nel 1860, morì per una improvvisa malattia polmonare.

Il mondo come volontà e rappresentazione

Alcuni temi sommariamente accennati nella citazione del 1832 stanno a fondamento della sua opera del 1818, Il mondo: la sofferenza della vita, che si impone come verità al di sopra della dogmatica giudaico-cristiana, ormai divenuta una inaccettabile mitologia; l’impotenza dell’uomo, e ancor più del filosofo, sul mondo; l’impossibilità della coesistenza della vita e della verità; e soprattutto, per quanto qui ci interessa, la costante presenza in Schopenhauer del pensiero orientale, in particolare gli insegnamenti delle Upanishad [11] e dei testi buddhisti.
Schopenhauer riprende da Platone il tema dell’interiorità dell’anima come “sede” della verità: è necessario rivolgersi a se stessi per avvicinarsi alla verità, la quale risulta però separata dal mondo e dalla felicità. Una vita ospitata dalla verità è possibile, ma senza felicità. E la felicità è possibile, ma senza vita, in un altro mondo.
Per Schopenhauer il mondo è quindi rappresentazione: il mondo è la mia rappresentazione, questa è l’affermazione perentoria con cui si apre la sua opera; l’uomo sa “di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede il sole e una mano che sente il contatto d’una terra[12]. Conoscere è un evento dell’anima, che “crea il mondo come noi lo conosciamo, e il mondo è il suo sogno[13]. Come nel capolavoro di Caldéron de la Barca, La vida es sueño (1653), nel quale è inconsapevolmente riproposta la storia della vita del principe Siddhartha, il futuro Buddha…[14]
Schopenhauer è molto netto: “tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola: rappresentazione[15]. Da un lato il soggetto, quindi, che non può essere oggetto di conoscenza, al di fuori dello spazio e del tempo, indiviso in ogni essere capace di avere rappresentazioni. Dall’altro l’oggetto, condizionato dalle forme del tempo e dello spazio che ne producono la molteplicità.
La rappresentazione è ordinata dalle connessioni instaurate dall’intelletto: il tempo, lo spazio, e la causalità, che costituisce la realtà della materia, realtà che è azione dell’oggetto sugli altri oggetti. La conoscenza è fondamentalmente intuizione dei rapporti causali tra gli oggetti, mentre la ragione è discorsiva ed ha a che fare con concetti astratti.
La realtà non si riduce interamente alla rappresentazione, che è soltanto fenomeno. Il mondo ha un noumeno, un’essenza, una cosa in sé, costituito dalla volontà[16].  Alle spalle dell’intelletto e del mondo che si rappresenta c’è una volontà assoluta che, proprio in quanto viene prima della ragione, è cieca pulsione. Si ritiene comunemente che le azioni del corpo siano effetto della volontà. Per Schopenhauer sono la volontà stessa nella sua manifestazione oggettiva. Il corpo è la volontà divenuta rappresentazione: la volontà è la cosa in sé di cui la rappresentazione è la manifestazione. La volontà, egli scrive, “si manifesta in ogni cieca forza naturale, si manifesta anche nella meditata condotta dell’uomo. La differenza che separa la forza cieca dal procedere riflessivo concerne il grado della manifestazione, non l’essenza della volontà che si manifesta[17]. Essa, in quanto noumeno, si sottrae alle forme del fenomeno (la causalità, lo spazio, il tempo) che individuano e moltiplicano gli esseri (principium individuationis, lo chiama Schopenhauer). Non partecipando del principium individuationis, la volontà è unica in tutti gli esseri; non essendo sottoposta alla causalità, è assolutamente libera, cieca nel suo agire. È l’insieme delle forze, anzi, la forza che agisce in natura sotto nomi diversi: gravità, magnetismo, elettricità, stimoli ecc., tutte manifestazioni di un’unica forza, la volontà di vivere, che opera ad ogni livello, nella materia inorganica, nel mondo vegetale, animale, umano. Nei livelli più bassi è impulso cieco, nell’animale è impulso intuitivo, nell’uomo è ragione che agisce spinta dalla motivazione, ma pur sempre schiava della volontà.
Diviene pertanto chiaro il senso del titolo – e del contenuto – del capolavoro di Schopenhauer: “la rappresentazione è il mascheramento razionale della volontà[18], ciò che appare come razionale è invece volontaristico, l’ordine che scorgiamo nel mondo è solo espressione della cieca volontà di vivere. Per Leibniz questo è il migliore dei mondi possibili, per Schopenhauer è il peggiore, ai limiti della stessa possibilità di esistenza. È il pessimismo per cui il suo pensiero è ricordato nella storia della filosofia occidentale ed è stato paragonato a quello di Leopardi. Per lui, “la [..] vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi”. “Nella vita borghese [la noia] è rappresentata dalla domenica, come il bisogno [ovvero il dolore] dai sei giorni di lavoro[19]. Infatti, volere è desiderare un oggetto assente, e l’assenza è dolore. Ma se l’oggetto del desiderio è conseguito, allora subentra la noia, a causa dell’estinzione del desiderio. In ultima analisi, la vita è dolore, e la volontà di vivere costituisce la causa del dolore.

Una possibile via di liberazione dalla condizione di sofferenza è costituita dalla contemplazione estetica, che è disinteressata rispetto al possesso dell’oggetto, e non segue le regole della razionalità, è priva di scopo. In particolare, l’espressione più alta dell’arte è secondo Schopenhauer la tragedia, nella quale si rivelano al meglio “il dolore senza nome, l’affanno dell’umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli innocenti[20]. Ma la liberazione attraverso l’arte è momentanea e parziale, procura soltanto un temporaneo sollievo, una forma di conforto.
 Un altro rimedio consiste nel riconoscimento dell’unità della volontà in tutti gli esseri, ovvero il riconoscimento dell’altro come me stesso. È il tat tvam asi, “Questo sei tu”, dell’India vedica. Il pensiero di essere separati dagli altri, e dal dolore, è solo apparenza, inganno: è il velo di Maya, la dea dell’attività creatrice che nasconde la realtà dell’assenza di separazione, l’illusorietà del principium individuationis. Di tale riconoscimento, la giustizia è il primo passo, il secondo è costituito dalla compassione (nel suo significato etimologico) che lacera il velo di Maya[21]. Questa forma di empatia è solo però un patire-insieme, che annulla ogni interesse per ciò che è stato riconosciuto. La conoscenza dell’esse (la volontà irrazionale che è fondamento della rappresentazione) non produce alcun inter-esse.
L’unica via d’uscita è data dall’ascesi, della rinuncia alla vita. Non nel senso del suicidio, che al contrario ne costituisce una affermazione, in quanto nega solo la particolare condizione di vita in cui si trova chi lo commette. Ma nel senso di rinuncia ai bisogni e alle soddisfazioni che la ragione presenta ingannevolmente come motivazioni e finalità dell’agire. I motivi sono sostituiti dai quietivi, la voluntas dalla noluntas.
La prima delle rinunce è la perfetta castità, in quanto rinuncia alla fondamentale manifestazione della volontà, l’impulso alla generazione. Per Schopenhauer l’amore è sempre sotto la spinta degli interessi alla riproduzione. La scelta sessuale non è mai individuale, ma sempre compiuta nell’interesse della specie. Allo stesso scopo, liberarsi dalla volontà di vita, tendono poi le altre forme della rinuncia: la povertà, il sacrificio, ecc.
Al termine del percorso l’uomo diviene libero. Nelle sue stesse parole, “quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.[22].

L’Oriente di Schopenhauer

Un passo interessante de Il mondo è quello che precede immediatamente la citazione di cui sopra. Qui esorta a non temere il nulla, senza fare però come gli Indiani, che lo ammantano “in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti[23].
Queste parole costituiscono una ulteriore prova del fatto che Schopenhauer conosceva bene le tradizioni della spiritualità estremo orientale, soprattutto Induismo e Buddhismo, con l’ovvio limite della quantità di testi a quel tempo pervenuti in Europa e della qualità delle traduzioni. Schopenhauer li lesse, li studiò a fondo e ne fu profondamente influenzato, come dimostrato da molti aspetti specifici della sua filosofia e dal suo complesso, nonché dalla terminologia utilizzata. Benché ciò sia di immediata evidenza, molti testi di storia della filosofia vi accennano solo en passant, o non ne parlano affatto[24]. Mentre molti intellettuali dell’epoca privilegiavano la cultura greco-romana e quella giudaico-cristiana ed erano al più semplicemente incuriositi da ciò che cominciava a sorgere ad Est, Schopenhauer ruppe decisamente con l’eurocentrismo dominante, criticando quello che chiamava il “pregiudizio classico” e studiò seriamente i testi della spiritualità dell’India che aveva a disposizione, fino ad identificare in essa “il bacino originario cui attinsero sia l’Egitto, Pitagora, Platone, il Neoplatonismo e tutta la mitologia greco-romana sia il vero Cristianesimo neotestamentario”, visto come un riflesso della luce dell’Asia caduto purtroppo sul suolo giudaico[25]. Auspicò addirittura – ed in parte fu buon profeta – un benefico influsso delle culture indiane sull’Occidente, che avrebbe potuto produrre un rinascimento europeo dello spirito orientale. Le grandi tradizioni del Brahmanesimo e del Buddhismo avrebbero potuto consentire di “salvare quel che di eternamente valido v’è nel Cristianesimo, riuscire a separare di nuovo dal nucleo essenziale di verità che è in esso ciò che vi è stato congiunto dall’esterno[26], cioè i dogmi e le mitologie ebraiche. Corretto appare quindi un giudizio espresso su Schopenhauer da uno studioso, che lo definì “l’ultimo eretico del cristianesimo e il patriarca del buddhismo occidentale[27].

Il Buddha di Schopenhauer
Anche dai dettagli della sua biografia si evidenziano l’interesse e l’intimità di Schopenhauer con la cultura indiana e cinese: la sua biblioteca orientale era ricchissima di testi[28], e già è stata citata la similitudine da lui stesso proposta tra la sua giovinezza e quella di Siddhartha Shakyamuni. Nel suo salotto faceva mostra di sé una statua di bronzo del Buddha di cui era orgoglioso, e negli anni della maturità si rivolgeva ai conoscenti dicendo “noi Buddhisti”. Inoltre, il suo cane barbone si chiamava Atman, in sanscrito essenza, spirito vitale, anima individuale…
Al di là degli aneddoti biografici, Schopenhauer non perdeva mai l’occasione “per tessere le lodi della filosofia e della religiosità indiane e per sottolinear[ne] l’intima conformità con il proprio pensiero[29]. Egli stesso definì prima “paradossale” e poi “prodigiosa” la corrispondenza tra la sua filosofia e il Buddhismo, non solo nell’etica o in altri aspetti specifici, ma nell’insieme delle loro dottrine[30]. Poco prima della morte scrisse: “Buddha, Eckhart[31] e io insegniamo nella sostanza la stessa cosa[32].
Ed infatti le sue opere, a partire dal 1814, sono sempre più ricche di riferimenti ai testi orientali – dalle Upanishad al Tao Te Ching, dai Purana all’I Ching, dalla Bhagavadgita ai Sutra buddhisti – e soprattutto alla visione dell’uomo e del suo essere nel mondo che essi propongono e che Schopenhauer afferma sostanzialmente di accogliere e di fare sua.
In sintesi, gli elementi-base della corrispondenza Schopenhauer/Oriente possono essere così riassunti:
- la rappresentazione (il mondo come illusione, sogno) e il velo di Maya;
- la volontà e il Brahman o il tian dei Cinesi (il principio di tutte le cose) – per cui la sua opera maggiore potrebbe intitolarsi Il mondo come Brahman e Maya;
- l’ateismo (il non-teismo) e il pessimismo del Brahmanesimo e del Buddhismo (definizioni peraltro molto discutibili);
- i miti della metempsicosi (reincarnazione) e della rinascita, collegati alla sussistenza metafisica della volontà;
- samsara (esistenza ciclica condizionata) e nirvana (estinzione della sofferenza) come affermazione e negazione della volontà;
- sul conseguente piano etico: il tat tvam asi, il non-io, e la compassione.

Per concludere, è però altrettanto doveroso individuare le rilevanti discordanze tra le due concezioni, e quindi i limiti oggettivi e soggettivi (dottrinali e personali) dell’orientalismo di Schopenhauer.
Per citare solo un paio di pareri, secondo René Guénon Schopenhauer ha “ridicolamente distorto il Buddismo riducendolo a una specie di moralismo ‘pessimista’ e [ha] dato la giusta misura del suo livello intellettuale cercando ‘consolazioni’ nel Vedanta[33]. Per Von Glasenapp, poi, “si può dire che l’interpretazione schopenhaueriana della storia del pensiero metafisico indiano e le relative concezioni del Vedanta e del Buddhismo siano oggi [1960] per molti aspetti superate e forniscano un quadro dei fatti senza dubbio interessante ma tutt’altro che fedele[34].
Tra le molte possibili, ecco alcune delle contestazioni:
- l’impossibilità di definire complessivamente ateistiche o anti-teistiche le scuole filosofiche indiane, in molte delle quali è presente la figura del dio personale (Ishvara, Krishna), Signore del cosmo;
- la mancata distinzione tra Brahmanesimo e Buddhismo, in generale e all’interno delle singole scuole (es. Buddhismo Hinayana e Mahayana), e, conseguentemente
- l’appiattimento delle filosofie indiane in una sorta di hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere; più nel dettaglio:
- l’errore dell’identificazione del Brahman del Vedanta con la volontà, in quanto il Brahman non ha nulla a che vedere con la brama (nonostante l’intrigante assonanza dei termini), non è pulsione cieca, e quindi fondamento della sofferenza, bensì spirito puro, Sat-Cit-Ananda, Essere-Coscienza-Beatutidine Supreme;
- la totale incompatibilità tra la dottrina brahmanica dell’atman quale substrato durevole dell’apparenza e gli insegnamenti buddhisti su anatman (non-sé), anitya (impermanenza), sunyata (vacuità), pratitya samutpada (co-produzione condizionata di tutti i fenomeni, compreso l’io).

Un altro punto fondamentale, l’accentuazione degli aspetti pessimistici delle concezioni indiane, soprattutto del Buddhismo, ci porta direttamente ad una considerazione finale, che riguarda complessivamente il pensiero e la biografia di Schopenhauer. L’insegnamento del Buddha sulle Quattro Nobili Verità inizia sì con le verità della sofferenza (duhkha-satya) e della sua origine (samudaya-satya), ma prosegue con l’esposizione della cessazione della sofferenza stessa (nirodha-satya) e della Via che porta alla cessazione (marga-satya), ovvero l’Ottuplice Sentiero. Non può pertanto essere definito come una concezione pessimista. Esso costituisce invece una visione del tutto realistica, non per un cieco atto di fede nelle parole del Buddha o di altri Maestri, ma per la verificabilità su se stessi della validità del Dharma.
Schopenhauer, come si è visto all’inizio, ha paragonato la sua sofferenza a quella del Buddha, ne ha studiato la vita e gli insegnamenti, ma si è come arrestato sulla soglia: ha riconosciuto il proprio dolore, ha compreso come il dolore permei di sé l’esistenza di tutti gli esseri e quali ne siano le cause. E infine ha intravisto nelle parole del Buddha o delle Upanishad la concreta possibilità di una via di liberazione, attraverso la messa in pratica di tali parole – in particolare attraverso la meditazione –, ma di questo passo decisivo, del passaggio dalla teoria alla prassi, non v’è traccia nelle sue opere, né soprattutto nella sua vita reale, trascorsa alla ricerca di gratificazioni accademiche, di successi editoriali, di denaro, di fama, di amori insoddisfacenti, pur continuando a definirsi “buddhista” con i conoscenti. E nel contempo crogiolandosi nel proprio dolore e creando così ulteriore sofferenza, per sé e per gli altri. Forse, rivolgendo di tanto in tanto uno sguardo afflitto alla sua amata statuina del Buddha, in un angolo del salotto. Del perché, non è dato sapere.
Magari, vedere il Sentiero e scegliere di non percorrerlo è stato un gesto coerente, la vittoria finale di una volontà cieca ed irrazionale votata al dolore…
D’altra parte, il tempo del fare filosofia, del vivere la filosofia come concreto esercizio spirituale che porta all’evoluzione di sé, all’autentica liberazione, era ormai troppo lontano.





[1] Cit. in M. Onfray, Buddha, il cane e il flauto, in: http://letterainternazionale.it/testi-di-archivio/buddha-il-cane-e-il-flauto/
[2] Id. – Per patografia si intende la “ricostruzione delle patologie psichiche di personaggi celebri fondate sulle informazioni biografiche e sull’esame delle loro opere”, in: http://www.treccani.it/enciclopedia/patografia/
[3] Z. Zini, Schopenhauer, Ed. Athena, pag. 5
[4] A. Schopenhauer, Il mio Oriente, Ed. Adelphi, pag. 15
[5] In quell’anno Danzica era ancora indipendente, in quanto solo nel 1793 fu incorporata nel Regno di Prussia
[6] Cit. in U. Galimberti, Schopenhauer, in: E. Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. 5 pag. 1210
[7] Di qui in poi citata come Il mondo
[8] Cit. in Galimberti, pag. 1196
[9] Cfr. Onfray, Buddha, il cane…
[10] Titolo traducibile con “cose aggiunte e cose tralasciate”. Si tratta di una raccolta di scritti “minori” su diversi argomenti, di tono divulgativo, che espongono gli ultimi sviluppi del suo pensiero
[11] Il termine indica l’atto di sedersi ai piedi di un Maestro. Si tratta di un gruppo di testi sacri dell’Induismo, redatti tra il IX e il VI secolo a.C., che forniscono la base della scuola filosofico-religiosa del Vedanta, che vi si ispira per quanto riguarda l’analisi della realtà dell’atman e del Brahman e che sfocia nella metafisica del monismo assoluto. Cfr. AA.VV., Dizionario delle religioni orientali, Ed. Vallardi, pag. 340
[12] Cit. in Galimberti, pag. 1200
[13] Galimberti, pag. 1200
[14] Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-beato-iacopo-da-varagine-e-la-strana.html
[15] Cit. in Galimberti, pag. 1202
[16] Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET, vol. III pag. 144 e segg.
[17] Cit. in Abbagnano, pag. 146
[18] Galimberti, pag. 1205
[19] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, §57, in: http://www.liberliber.it
[20] Cit. in Galimberti, pag. 1208
[21] Cfr. Abbagnano, pag. 151
[22] Schopenhauer, I, §71
[23] Id.
[24]I manuali che non riportano le nozioni orientaleggianti di Schopenhauer, o che le riportano in modo troppo approssimativo, restituiscono il suo pensiero in modo gravemente monco e riduttivo; tali manuali[..] anche quando si limitano ad esporre nozioni che ritengono "occidentali", in realtà ne deformano più o meno fortemente il significato, proprio perché non tengono conto degli influssi orientali che hanno agito in Schopenhauer”. P. Scroccaro, Schopenhauer e l’Oriente, in: http://www.ariannaeditrice.it
[25] G. Gurisatti, Schopenhauer e l’India, in: A. Schopenhauer, Il mio Oriente, pag. 191
[26] A. Lanza, Il pensiero di Schopenhauer su buddhismo e cristianesimo, in Paramita n. 55/1995, pag. 33
[27] Cit. in Lanza, pag. 34
[28] Cfr. l’Appendice a pag. 171 in: Schopenhauer, Il mio Oriente
[29] Gurisatti, pag. 188
[30] Id., pag. 190
[31] Meister Eckhart (Eckhart von Hochheim, 1260-1327) è stato uno dei più importanti teologi, filosofi e mistici renani del Medioevo cristiano, e ha segnato profondamente la storia del pensiero tedesco
[32] Gurisatti, pag. 190
[33] R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Ed. Studi Tradizionali, pag. 265
[34] Cit. in Gurisatti, pag. 215