La lezione
su René Guénon del 21 febbraio, nell’ambito del corso 2016-17 dell’Unisabazia, è
stata tenuta dall’amico Renato
Breviglieri dell’Unitre Valbormida.
Breviglieri
– che ringraziamo per la collaborazione – è l’autore del testo da lui stesso utilizzato
per il suo intervento, che ci ha gentilmente inviato e che qui di seguito
pubblichiamo per intero.
L’autore e la sua vita
René
Jean-Marie-Joseph Guénon,
conosciuto anche come Shaykh 'Abd
al-Wahid Yahya dopo la conversione all'Islam (Blois, 15 novembre 1886 – Il
Cairo, 7 gennaio 1951) [1]. Nel 1912 si convertì all’islam (26 anni) e nel 1930 lasciò
la Francia per stabilirsi in Egitto dove morì nel 1951 (65 anni).
È
stato uno scrittore, esoterista, intellettuale francese. Non lo troviamo citato
nella storia del pensiero filosofico occidentale.
Mauro
Tonko Peretti all’inizio del primo paragrafo del suo intervento su “Arthur
Schopenhauer legge le Upanishad” scrive “Proprio
secondo Nietzsche, un pensiero filosofico “è sempre la confessione
autobiografica del pensatore che lo enuncia”. Per Schopenhauer, poi, “ogni
biografia è una patografia”.
René Guénon |
Bisogna inquadrare Guénon nell’epoca in cui è vissuto, un XX
secolo erede dell’esoterismo e dell’occultismo dell’‘800. Questo fa sì che nel
mondo ci siano ammiratori di Guénon che ritengono i sui scritti incontestabili.
A lui possiamo riconoscere di aver provato a vivere una via e di aver lasciato
degli scritti che sono chiari e utili per ricavarne informazioni e
testimonianze sulle mentalità dell’epoca.
Questo
per introdurre il pensiero di René Guénon sviluppandosi nel fermento degli
ambienti esoterici e religiosi dell’inizio del 1900. In quegli ambienti, nella
ricerca della sua via, sviluppa una sua concezione di Tradizione e di Metafisica
che lo farà passare da varie esperienze sino ad approdare nell’Islam.
Frequentatore
precoce degli ambienti esoterici. A 20 anni frequenta la Scuola Ermetica ed è
iniziato: all’Ordine Martinista, alla Chiesa Gnostica, alla Massoneria. Fonda
l’Ordine del Tempio.
Tra
questi associazioni va posta l’attenzione sull’Ordine Martinista in quanto
fondato da Louis-Claude de Saint-Martin che nell’ultima sua opera pubblicata
nel 1802, Il mistero dell’uomo-spirito, scrive: “…grande sapere verrà
dallo studio delle opere che giungono dall’India”, riferendosi alla
pubblicazione in Francia delle Upanishad, o parte di esse, avvenuta alla metà
del XVIII secolo.
Louis-Claude
de Saint-Martin dopo il periodo passato con il suo iniziatore Jacques de Livron
de la Tour de la Case Martines de Pasqually prosegue su una sua via mistica e
viene influenzato da Jacob Böhme (1575 –1624) ciabattino che dopo essere stato
“illuminato” diventa filosofo, teologo, mistico e alchimista luterano
tedesco. Fu uno dei principali esponenti del misticismo cristiano moderno, ed
era detto dai suoi contemporanei «Philosophus teutonicus».
L’anello
di congiunzione tra la mistica cristiana di Böhme e le intuizioni sull’oriente
di Louis-Claude de Saint-Martin è dato dalla figura di Johann Georg Gichtel
(1638 –1710) è stato un filosofo, teologo e mistico tedesco. Egli intuisce, non
risultano prove di contatti con l’India, i sette centri energetici segreti del
corpo umano, già conosciuti nella letteratura indiana come chakra e li pubblica nel libro Theosophia
Practica (1696).
Nel
1912 a 26 anni ha il suo contatto con l’esoterismo islamico. Nel 1913 incontra
l’Indù Swami Narad Mani che lo documenta sulla Società Teosofica. Si laurea nel
1915 in filosofia.
Parte
nel 1930 a 44 anni per il Cairo d’Egitto dove si risposa con la figlia dello
Shaykh Muhammad Ibrahim. Era rimasto vedovo nel 1928 dopo 16 anni di
matrimonio. Muore nel 1951 a 65 anni.
Le
opere
Inizia
giovane a scrivere e la sua produzione letteraria sarà di 27 titoli, 10
pubblicati postumi. L’elenco delle sue
opere sono alla fine di questo documento. A 23 anni, 1909, fonda la rivista La
Gnose dove appaiono; il suo primo scritto intitolato “Il Demiurgo”
articoli sulla Massoneria e la prima stesura de “Il simbolismo della Croce”
e de “L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedānta”.
Nel
1921 pubblica “Introduzione generale allo studio delle dottrine Indù” in
cui precisa in quale accezione occorre intendere alcune nozioni quali; tradizione,
religione, metafisica, teologia, filosofia, esoterismo, essoterismo,
realizzazione. Termini fondamentali per comprendere il suo pensiero nelle
opere successive.
La
realizzazione spirituale e l’ortodossia alla Tradizione sono il fulcro delle
opere di René Guénon. Tradizione intesa non come mero insieme di usi e costumi
ma come trasmissione di un patrimonio simbolico e metodologico. Come un veicolo
imprescindibile per accostarsi alla metafisica, termine con il quale
egli intende la conoscenza sovrarazionale da realizzare attraverso il
procedimento immediato dell’intuizione intellettuale.
Proprio
alla metafisica dedica il primo capitolo “Generalità sul Vedānta”
nel libro “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedānta”. Libro che
richiede una conoscenza specifica ed approfondita della cultura induista e
bramanica per comprendere le diverse interpretazioni e sfumature.
L’autore
ci introduce al concetto di Darśana
nelle dottrine indù. Vedere sotto altre angolazioni la stessa sorgente e
riconoscere che tutti i punti di vista sono ortodossi. Le varie concezioni
metafisiche e cosmologiche dell’India non sono dottrine differenti ma soltanto,
secondo certi punti di vista ed in direzioni differenti, sviluppi non
incompatibili di una sola dottrina. Specifica che i vari orientalisti e
studiosi delle religioni hanno errato nel definire il Vedānta una religione, una filosofia o qualcosa di analogo ai due
concetti precedenti.
Vedānta va inteso come il fine, lo scopo,
la conclusione dei Vedā e
dell’insegnamento delle Upanishad.
Nelle sue considerazioni riconosce tutto come appartenente all’ortodossia ma
colloca il buddismo fuori dall’ortodossia. Ha un rapporto epistolare con Ananda
Kentish Coomaraswamy che gli fa notare che non è d’accordo nel indicare il
buddismo come una via fuori dall’ortodossia. Questa classificazione la farà
anche quando tratterà confucianesimo e taoismo.
Il
messaggio di Guénon è che bisogna elevarsi in base alle proprie capacità,
lavorare sui simboli con un costante lavoro individuale.
Nelle
varie opere troviamo sempre riferimenti all’oriente, sia che tratti di India,
Islam o Ebraismo, sempre ricercando nelle varie vie gli aspetti metafisici. È
sorprendete la vastità culturale dell’autore che iniziando a sperimentare in
vari campi da giovane ed a scrivere le sue riflessioni ci ha lasciato una
testimonianza basilare per capire il passaggio della spiritualità e
dell’esoterismo dal XIX al XX secolo.
Seguendo
cronologicamente suoi scritti troviamo, relativamente all’oriente, i seguenti
argomenti:
a) Abbozzo
di quello che diventerà poi il libro L’Uomo e il suo divenire secondo il
Vedānta (1909);
b) Introduzione
generale allo studio delle dottrine indù (1921) che pone le basi del significato dei termini
che utilizzerà;
c) Oriente
e Occidente
(1924);
d) L'uomo
e il suo divenire secondo il Vedānta
(1925) tutto dedicato all’approfondimento dei testi sacri indiani;
e) Il
Re del Mondo
(1927); in cui tratta di Agarttha,
del Kali-yuga;
f) Autorità
spirituale e potere temporale (1929). Tratta la natura rispettiva dei Brahmani
e degli Kshatriya.
g) Il
simbolismo della Croce
(1931); libro fondamentale per capire cosa intende Guénon per simbolo. Espone
la teoria indù dei tre guna, spiega
lo swastika, il simbolo
estremo-orientale dello yin-yang,
equivalenza metafisica di nascita e morte. La grande Triade.
h) La
Metafisica orientale
(1939);
i) Considerazioni
sull'iniziazione
(1946); in cui tratta la nascita dell’Avatāra.
j) La
Grande Triade
(1946);
k) Iniziazione
e realizzazione spirituale
(1952); in cui tratta Guru e upaguru.
l) Simboli
della Scienza sacra
(1962); L’albero ed il Vajra. Kâla-mukha.
Sono partito dal libro L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta. L’edizione su cui mi sono basato è quella pubblicata
dalle Edizioni Adelphi, prima edizione del 2015. Il testo è composto da 24
capitoli e ha alla fine un indice dei termini sanscriti che ci aiutano
ritrovare i collegamenti all’interno dell’opera.
Nella prefazione
l’autore scrive che trattare troppi argomenti o fare accostamenti azzardati non
è giustificabile e che quindi sceglie di scrivere di un argomento, anche se in
maniera non esaustiva, per fare della metafisica – e non della
pseudo-metafisica come fanno i filosofi europei. Prosegue scrivendo che le intenzioni
dell’autore non sono quelle di uno storico e che vuole fare comprensione e non
erudizione, che gli interessa solo la verità delle idee e non fare filosofia.
Guénon - Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya |
Concetti
L’opera
di Guénon è concepita a partire da una ridefinizione in senso tradizionale
della nozione di metafisica, intesa come “conoscenza dei principî di ordine
universale” da cui tutto procede. Non un sistema sincretistico. Espone alcuni
aspetti delle cosiddette “forme tradizionali”: Taoismo, Induismo, Islam,
Ebraismo, Cristianesimo, Ermetismo, Libera Muratoria, Compagnonaggio, ecc.
L’intera
opera è caratterizzata da una coerenza organica, sul piano formale e su quello
sostanziale, tale da rendere Guénon un autore differente dalla maggior parte
degli altri esoteristi.
Il
suo richiamo continuo all’ortodossia ed all’esoterismo delle vie può farlo
sembrare un sincretista ma è proprio questo che egli non vuole.
Proseguiamo
con l’analisi della struttura del libro L'uomo e il suo divenire secondo il
Vedānta.
Nel primo capitolo “Generalità sul Vêdânta” Guénon afferma che contrariamente alle opinioni fra gli
orientalisti, il Vêdânta non è una
filosofia, né una religione, né qualche cosa che partecipa più o meno dell’una
e dell’altra.
Ma cos’è il Vêdânta? Se per comodità, prendendo le
notizie come fonti non di prima mano, andiamo a vedere Wikipedia troviamo: Vedānta è un termine sanscrito che ha il
significato di fine dei Veda.
Il termine intende indicare quindi sia le
Upaniṣad, per l'appunto parte finale del corpus vedico, sia il fatto che esse
rappresentino il culmine dello stesso corpus nel senso che indirizzano al fine
ultimo dello stesso, il mokṣa ("liberazione"), sia nel senso che tale
letteratura viene studiata per ultimo, dopo gli altri testi.
Il termine indica anche una tradizione
dottrinale, detta altrimenti Uttaramīmāṃsā ("esegesi ulteriore"), che
si fonda sul Brahmasūtra (conosciuto anche come Vedāntasūtra, Uttaramīmāṃsāsūtra
o Śārīrakamīmāṃsāsūtra), testo teologico generalmente attribuito a Bādarāyaṇa
(primi secoli della nostra èra; altra datazione III-II sec. a.C.) e composto di
555 aforismi. In tal senso questo alveo dottrinale fa particolare riferimento a
un "triplice canone" (prasthanātraya: traya, tre; prasthanā,
"punto di avvio") che corrisponde alle Upaniṣad, alla Bhagavadgītā,
al Brahmasūtra di Bādarāyaṇa.
Sankara |
Le correnti del Vedānta tradizionalmente
sono sei, le principali correnti (sampradāya) indicate come le quali, pur
radicandosi nel prasthanātraya, offrono dottrine e teologie assolutamente
diverse tra loro:
la corrente di Śaṅkara (VI-VII secolo)
fondata sulla dottrina del kevalādvaita;
la corrente di Rāmānuja (XI secolo)
fondata sulla dottrina dello viśiṣtādvaita;
la corrente di Madhva (XIII secolo)
fondata sulla dottrina dello dvaita;
la corrente di Nimbārka (XIV secolo)
fondata sulla dottrina dello dvaitādvaita;
la corrente di Vallabha (XV-XVI secolo)
fondata sulla dottrina dello śuddhādvaita;
la corrente di Caitanya (XVI secolo)
fondata sulla dottrina dell’acintya-bhedābheda.
L’autore prosegue
affermando che il Vêdânta è un ramo
metafisico della cultura indiana, che non è per tutti e che bisogna elevarsi in
base alle proprie capacità.
La lettura del primo
capitolo è difficile per chi non ha un precedente base sulla cultura indiana.
L’autore inizia scrivendo che “Le varie concezioni metafisiche e
cosmologiche dell’India non sono, a rigore, dottrine differenti, ma soltanto
sviluppi, secondo certi punti di vista e in direzioni diverse ma per nulla
incompatibili, di una solo dottrina. Del resto, il vocabolo sanscrito darshana,
che designa ciascuna di queste concezioni significa propriamente [visione] o
[punto di vista]…”
Nel
secondo capitolo tratta della distinzione fondamentale fra il Sé e l’io.
Rendendosi conto della complessità dell’esposizione e delle diramazioni tra
Universale, Individuale, Generale, Particolare, Collettivo, Singolare, alle
pagine 31e 32 [2] riporta due schemi
riassuntivi.
Il
terzo capitolo lo dedica al centro vitale dell’essere umano dimora di Brahma. La
sua vasta cultura gli permette di fare parallelismi tra la sede dell’Âtmâ che risiede nel più piccolo germe
del più piccolo seme di miglio con la parabola del Vangelo di Matteo, 13,
31-32, “il Regno dei Cieli è simile a un
granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo, esso è il più
piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande di tutti gli
altri legumi e diviene un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a
riposarsi sui suoi rami”.
Nel
quarto capitolo tratta di Purusha e Pakriti. Principio attivo e passivo,
rappresentante il maschile ed il femminile. Dobbiamo avere sempre presente che
essi non sono svincolati. Per esempio, nel corpo abbiamo i due principi.
Nell’evoluzione spirituale abbiamo varie inversione dei due principi nei vari
stadi.
Il
ventiquattresimo capitolo tratta dello stato spirituale dello Yogî: l’Identità Suprema. Questa unione
che dovrebbe essere comune a tutte le vie. Basta saperne trovare l’essenza.
Sapendo
di avere appena sfiorato la complessità dell’opera di René Guénon, termino con una
citazione per ricondurmi al titolo:
“Il
sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della
storia della coscienza. L'esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo
sforzo compiuto dall'uomo per costruire un mondo che abbia un significato. Le
ierofanie e i simboli religiosi costituiscono un linguaggio preriflessivo.
Trattandosi di un linguaggio specifico, sui generis, esso necessita di
un'ermeneutica propria”.
(Mircea
Eliade, Discorso pronunciato al Congresso di Storia delle religioni di Boston
il 24 giugno 1968).
Note
1. https://it.wikipedia.org/wiki/Ren%C3%A9_Gu%C3%A9non 18/02/2017
14.00.
2. René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta,
Adelphi Edizioni S.p.A., Milano, 2015, 1a edizione.
Glossario
minimo
Brahmā: adattato anche in Brahma è nella lingua sanscrita l’adattamento
in genere maschile del termine di genere neutro Brahman e indica, a partire da testi recenziori hinduisti, quella
divinità predisposta all'emanazione/creazione dell’universo materiale.
Brahmā acquisisce quindi quel ruolo che nei testi più antichi è
riservato a Prajāpati ma a differenza di quest’ultimo Brahmā non è una divinità
suprema quanto piuttosto è al servizio di altre divinità considerate supreme.
Brahmā non deve essere confuso con il Brahman upaniṣadico che intende invece indicare quell’unità cosmica
da cui tutto procede e da cui procede anche Brahmā che ne risulta un agente.
Anche se va tenuto presente che nel loro variegarsi le teologie hinduiste
possono intendere lo stesso Brahman
come mera potenza impersonale della divinità principale intesa come Persona
suprema, e di volta in volta indicata come Kṛṣṇa/Viṣṇu o Śiva o queste,
viceversa, possono rappresentare solo una sua manifestazione.
Brahmanesimo: con il termine Brahmanesimo gli
storici delle religioni e gli orientalisti intendono la religione dell’India
generatasi intorno all'ultima letteratura vedica, quella inerente ai Brāhmaṇa e alle Upaniṣad "vediche". Rappresenta lo sviluppo del Vedismo e
si avvia intorno al IX secolo a.C. terminando nei primi secoli della nostra Era
con l’ingresso dell’Induismo.
Il passaggio dal Vedismo al Brahmanesimo corrisponde alla
progressiva sostituzione delle figure sacerdotali coinvolte nei riti
sacrificali. Se nel primo Veda, il Ṛgveda, l'officiante delle libagioni è
l’hotṛ (corrispondente allo zaotar dell'Avesta), accompagnato da
altre figure sacerdotali minori, con il passare dei secoli e con l’elaborazione
dottrinale all'interno degli stessi Veda,
sopraggiunge la figura dell’udgātṛ il
cantore delle melodie del Sāmaveda, sostituito
poi anch’esso come figura sacerdotale primaria dallo adhvaryu, il mormorante i mantra
relativi allo Yajurveda e infine con
il Brahmanesimo, dal brahmano, l’ultimo dei sacerdoti che sovrintendeva alla
correttezza del rito, riparando a qualsiasi errore, e detentore dell'ultimo Veda, l’Atharvaveda.
Darśana: (dalla
radice sanscrita drś, cioè
"vedere") è un aggettivo e un sostantivo neutro sanscrito dai
molteplici significati.
In qualità di aggettivo darśana
indica "che espone", "che mostra", "che sa",
"che insegna", "che rivela".
In qualità di sostantivo neutro darśana
possiede numerosi significati che vanno dalla "vista", all’"indagine",
al "discernimento", all’"opinione", alla
"dottrina".
Nell’ambito delle cosiddette "teologie" o filosofie
religiose induiste il termine darśana
indica un sistema teorico o interpretativo frutto di un "punto di
vista".
Tali sistemi interpretativi prendono avvio dal pieno periodo del Brahmanesimo
fino agli inizi dell’Induismo (dal IV secolo a.C. al IV secolo d.C.).
La necessità di pronunciare un astika
("è così") rispetto alla interpretazione dei Veda rientra tra i
"quattro obiettivi dell'uomo" (quattro puruṣārtha) stabiliti dai Dharmasūtra
(VI secolo a.C.-V secolo d.C.). L’ultimo di questi obiettivi denominato mokṣa inerisce al saṃnyāsin (il rinunciante) il quale deve necessariamente mettere in
atto quelle vie di liberazione collegate ai Veda
che lo emancipino dalla schiavitù del karman.
Da qui la necessità di elaborare delle darśana
sulla comprensione della realtà e sulle vie di emancipazione.
Secondo Gianluca Magi, la nascita e lo sviluppo delle darśana corrisponde alla nascita e allo
sviluppo delle correnti religiose, come il Buddhismo e il Jainismo, considerate
eterodosse dai brahmani:
«Questa minaccia delle scuole
eterodosse rende impellente per la filosofia brāhmaṇica l’adozione di un metodo
logico-critico in grado di fondare concezioni teoretiche tali da resistere alle
critiche delle varie scuole, e per contrattaccare a propria volta. In tal modo
viene organizzata ogni forma di pensiero; ogni materia passa attraverso il
filtro di questi sei metodi, le conclusioni, spesso contraddittorie, consentono
di esaminare le problematiche filosofiche in modo equilibrato. Questi sei
metodi, chiamati appunto "punti di vista" (darśana), considerati sei
aspetti di una singola tradizione ortodossa sono...»
(Gianluca Magi. Darśana, in "Enciclopedia
filosofica" vol. 3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2534 e segg.)
Ishvara: è
un concetto in Induismo, con una vasta gamma di significati che dipendono l’epoca
e la scuola dell’Induismo. Nei testi antichi di filosofia indiana, a seconda
del contesto, Ishvara può significare
supremo dell'anima, righello, signore, re, regina o il marito. In testi
medievali indù, a seconda della scuola di induismo, Ishvara significa Dio supremo, dio personale, Sé.
In Shaivism, Ishvara è
sinonimo di "Shiva", a volte come Maheshvara
o Parameshvara che significa il
"Supremo Signore", o come Ishta-deva
(dio personale). In Vaishnavism, è sinonimo di Vishnu. In tradizionali movimenti
Bhakti, Ishvara è una o più divinità di preferenze di un individuo da
politeista canone della divinità dell’induismo. Nei moderni movimenti settari,
come Arya Samaj e Brahmoism, Ishvara assume la forma di un Dio monoteistico. In Yoga della scuola di induismo, è
qualsiasi "divinità personale" o "ispirazione spirituale". Nella
scuola Vedanta, Ishvara è un Universale
monistico che collega ed è l’Unità di tutto e tutti.
Karma:
(adattamento del termine sanscrito trascritto come kárman o più comunemente karman)
è un termine d’uso nelle lingue occidentali traducibile come "atto",
"azione", "compito", "obbligo", e nei Veda inteso come "atto
religioso", "rito". Il karma
indica, presso le religioni e le filosofie religiose indiane, o originarie
dell’India, il generico agire volto a un fine, inteso come attivazione del
principio di "causa-effetto", quella legge secondo la quale questo
agire coinvolge gli esseri senzienti nella fruizione delle conseguenze morali
che ne derivano, vincolandoli così al saṃsāra,
il ciclo delle rinascite. Quello del karma
è uno dei concetti nucleari delle dottrine induiste, strettamente connesso
all'altro del mokṣa, inteso quest’ultimo
sia dal punto di vista soteriologico, e cioè salvezza dal saṃsāra, sia dal punto di vista spirituale, come conseguimento di
una condizione superiore, diversamente intesa a seconda della dottrina.
Māyā: indica
diverse dottrine filosofiche e religiose originarie dell’India nonché, come
nome proprio, la madre di Gautama Buddha o uno dei nomi della dea Lakṣmī.
Il significato originario di māyā
è quello di "creazione", ma ha successivamente acquisito il
significato di "illusione".
Mokṣa:
sostantivo maschile della lingua sanscrita dal significato di
"liberazione", "affrancamento", "emancipazione",
"salvezza". Mokṣa è uno dei
cardini delle dottrine religiose e spirituali dell’India, comune a tutte le
correnti e tradizioni dell’induismo, al jainismo, al sikhismo, e affine al nirvāṇa del buddhismo. La liberazione,
variamente interpretata e diversamente conseguibile a seconda del contesto, è
principalmente intesa come salvezza dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), ma anche quale conseguimento
di una condizione spirituale superiore.
Saṃsāra: (devanāgarī संसार,
"scorrere insieme") indica, nelle religioni dell’India quali il
Brahmanesimo, il Buddhismo, il Giainismo e l’Induismo, la dottrina inerente al
ciclo di vita, morte e rinascita. È talora raffigurato come una ruota.
In senso lato e in un significato più tardo, viene ad indicare
anche "l’oceano dell'esistenza", la vita terrena, il mondo materiale,
che è permeato di dolore e di sofferenza, ed è, soprattutto, insostanziale:
infatti, il mondo quale noi lo vediamo, e nel quale viviamo, altro non è che
miraggio, illusione māyā. Immerso in
questa illusione, l’uomo è afflitto da una sorta di ignoranza metafisica (avidyā), ossia da una visione inadeguata
della vita terrena e di quella ultraterrena: tale ignoranza conduce l’uomo ad
agire trattenendolo così nel saṃsāra.
Upaniṣad:
sono un insieme di testi religiosi e filosofici indiani composti in lingua
sanscrita a partire dal IX-VIII secolo a.C. fino al IV secolo a.C. (le
quattordici Upaniṣad vediche) anche
se progressivamente ne furono aggiunti di minori fino al XVI secolo
raggiungendo un numero complessivo di circa trecento opere aventi questo nome.
Trasmesse per via orale, furono messe per iscritto per la prima
volta nel 1656 quando il sultano musulmano Dara Shikoh (1615-1659) ordinò la
traduzione dal sanscrito al persiano di cinquanta di esse e quindi la loro resa
in forma scritta.
Il termine Upaniṣad
deriva dalla radice verbale sanscrita: sad
(sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino) ossia "sedersi
vicino", ma più in basso (ad un guru,
o maestro spirituale), suggerendo l'azione di ascolto di insegnamenti
spirituali.
Questo termine richiama chiaramente, come evidenziato da Mario
Piantelli, anche un insegnamento "esoterico". Significativo è che
persino la Bhagavadgītā si
qualificava come upaniṣad nel
colophon dei manoscritti del Mahābhārata
e che, evidenzia Piantelli ricordando le note dell'antico commentatore Bhāskara,
le persone di bassa casta che l’avessero ascoltata avrebbero subito la stessa
sorte di coloro che avessero ascoltato le Upaniṣad
senza averne la qualifica: gli sarebbe stato versato del piombo fuso nelle
orecchie. Questo spiega la ragione per cui le Upaniṣad non furono mai messe per iscritto ma sempre trasmesse per
via orale solo a persone che erano autorizzate a riceverne gli insegnamenti.
Le Upaniṣad sono, dunque,
commentari "segreti" (rahasya)
dei Veda, nonché loro 'fine', nel
senso di completamento dell’insegnamento vedico; per questo motivo sono anche
conosciuti come Vedānta (Fine dei Veda) e sono alla base del pensiero
religioso indiano che attraverso il Brahmanesimo giungerà, nella nostra era, a
costituire quel complesso di dottrine e pratiche che va sotto il nome di
Induismo.
Veda: sono
un’antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli arii che
invasero intorno al XX secolo a.C. l’India settentrionale, costituenti la
civiltà religiosa vedica, divenendo, a partire dalla nostra era, opere di
primaria importanza presso quel differenziato insieme di dottrine e credenze
religiose che va sotto il nome di Induismo. Il Veda più antico è senza dubbio il Ṛgveda, cui seguono gli altri tre: Sāmaveda, Yajurveda, e Atharvaveda. Nel complesso questa
letteratura religiosa descrive gli indoari come nomadi guerrieri in conflitto
con le popolazioni locali, eredi della Civiltà della valle dell'Indo. I testi vedici
descrivono le popolazioni autoctone come di pelle scura oggi identificate come
dravidiche. Gli indoari indicavano sé stessi come ārya (nobili) riservando il termine dāsa (anche dasyu,
successivamente col significato di "schiavo") alle popolazioni autoctone
con cui erano venuti a contatto. Secondo gli indoari, questi dāsa non veneravano divinità né
possedevano riti religiosi quanto piuttosto veneravano un "fallo"
(pene eretto, sanscrito liṅgaṃ,
denominato dio-pene o dio-coda Siśnadeva). Secondo Alf Hiltebeitel la scoperta
di oggetti di forma fallica nella Valle dell'Indo fa supporre come corretta la
descrizione vedica di questi culti, peraltro anticipatori del culto del Liṅgaṃ nello Śivaismo.
Vedānta: è un termine sanscrito che ha il significato di fine dei Veda (anta, "fine", del Veda).
Opere
(Le
date fanno riferimento alla prima edizione francese)
Libri
Introduzione
generale allo studio delle dottrine indù (1921), Adelphi
Le
théosophisme, histoire d'une pseudo-religion (1921), Éditions Traditionnelles
Errore dello
spiritismo (1923), Luni Editrice
Oriente e
Occidente (1924), Luni Editrice
L'uomo e il suo
divenire secondo il Vêdânta (1925), Adelphi
L'esoterismo di
Dante
(1925), Adelphi
Il Re del Mondo (1927),
Adelphi
La crisi del
Mondo moderno (1927), Edizioni Mediterranee
Autorità
spirituale e potere temporale (1929), Luni Editrice
San Bernardo (1929), Luni
Editrice
Il simbolismo
della Croce (1931), Luni Editrice
Gli Stati
molteplici dell'essere (1932), Adelphi
La Metafisica
orientale (1939), Luni Editrice
Il regno della
quantità e i segni dei tempi (1945), Adelphi
La Grande
Triade
(1946), Adelphi
Considerazioni
sull'iniziazione (1946), Luni Editrice
I princìpi del
calcolo infinitesimale (1946), Adelphi
Pubblicazioni postume
a
cura di Jean Reyor (alias di Marcel Clavelle):
Iniziazione e
realizzazione spirituale (1952), Luni Editrice
Sull'esoterismo
cristiano (1954), Luni Editrice
a
cura di Michel Vālsan:
Simboli della
Scienza sacra (1962), Adelphi
a cura
di Roger Maridort:
Études sur la
Franc-maçonnerie et le Compagnonnage - tome I (1964), Éditions Traditionnelles
Études sur la
Franc-maçonnerie et le Compagnonnage - tome II (1965),
Éditions Traditionnelles
Studi
sull'Induismo (1966), Luni Editrice
Forme
tradizionali e cicli cosmici (1970), Mediterranee
Scritti
sull'esoterismo islamico e il Taoismo (1973), Adelphi
Recensioni (1973), Luni
Editrice
Mélanges (1976) trad.
it. Il Demiurgo e altri saggi,
Adelphi
Altre pubblicazioni
Écrits pour
Regnabit
(1999) - a cura di PierLuigi Zoccatelli - raccolta di tutti gli articoli
scritti da R. Guénon per la rivista «Regnabit»
Psychologie, a cura di
Alessandro Grossato (2001) - attribuzione di un quaderno di appunti raccolti da
uno studente di un corso di filosofia tenuto a Sétif (Algeria) da R. Guénon
negli anni 1917-1918.
Articles et
comptes rendus - tome I (2002) - miscellanea
La
corrispondenza fra Alain Daniélou e René Guénon, a cura di
Alessandro Grossato (2002)
Il risveglio
della tradizione occidentale (2002) - miscellanea
La Tradizione e
le tradizioni, a cura di Alessandro Grossato (2003) - miscellanea
Lettere a
Julius Evola (2005)
Recueil (2013) - a
cura di Mircea Tamaş - miscellanea
Fragments
doctrinaux (2013) - a cura di Mircea Tamaş - trad. it Frammenti dottrinali, Luni Editrice - estratti di circa 600 lettere
a una trentina di corrispondenti
Orient et
Occident
(2014) - a cura di Mircea Tamaş - miscellanea
Le Sphinx,
Recueil, Textes parus dans la France Antimaçonnique (2015) -
articoli giovanili di R. Guénon (a firma le Sphinx) scritti a difesa e supporto
della Libera Muratoria, pubblicati nella rivista «La France Antimaçonnique»
Filmografia su René Guénon
Film
che trattano la figura di René Guénon:
Un'altra
giovinezza - Youth without Youth (2007), di Francis Ford Coppola, tratto
dalla novella di Mircea Eliade e interpretato da Tim Roth
Il mistero di
Dante
(2014), di Louis Nero, interpretato da F. Murray Abraham
(testo di Renato Breviglieri
immagini inserite dal curatore del blog)