sabato 28 gennaio 2017

Al di là del vero e del falso

Sul vero e sul falso, sulla menzogna nella religione, nella politica e non solo, sulla filosofia come pratica di libertà e di universalità.
Tratte da un altro importante scritto di Marco Vannini, un paio di pagine assolutamente inattuali che pongono Meister Eckhart e Nietzsche a confronto non tra loro, ma di fronte ad ognuno di noi.
Scrive Marco Vannini:

           È chiaro anche a Nietzsche che “la menzo­gna più frequente è quella che ciascuno fa a se stes­so; mentire agli altri è un caso relativamente ecce­zionale”, e questo “non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere una cosa così come si vede, è la condizione essenziale di tutti quel­li che appartengono in qualsiasi senso a questo o quel partito: l’uomo di partito è necessariamente un impostore”; ove il “partito” non va inteso solo in senso politico, ma in tutto ciò che costituisce grup­po, setta, chiesa, accademia – e perciò il filosofare moderno non ha nulla della libertà degli antichi, ma ha sempre “un colorito politico e poliziesco [...] alla sola conquista dell’apparenza erudita”.
Si comprende dunque la polemica di Nietzsche contro il cristiano come “ultima ratio della menzogna”, che “porta all’estrema perfezione quella tecnica giu­daica che è l’arte di mentire santamente”.
La menzogna è, infatti, particolarmente insi­diosa proprio nell'ambito religioso, perché li è capace di generare, attraverso l’immaginazione, quello stato d’animo carico di gioia, entusiasmo, dedizione, che può portare anche all’eroismo della virtù – e non a caso ci sono santi in tutte le religioni; ma, in quanto appunto frutto di immaginazione, menzogna, quello stato d’animo non può uscire dal finito, dal partico­lare della volontà propria, e così non giunge all'uni­versale e alla sua luce.
La menzogna tende infatti a riproporsi in ogni istante, tanto più forte quanto più si è rico­nosciuta la comune, naturale, malizia del mentale, dando luogo a una sempre maggiore pretesa di verità, per cui il distacco deve esercitarsi anche sul concetto stesso di verità.
E perciò estremamente significativo che il “mistico” Eckhart convenga con l’“ateo” Nietzsche sulla necessità di liberarsi anche dalla verità – ovvero dal preteso possesso di essa. Commentando il versetto paolino “Nunc vero liberati” (Rm 6, 22), il maestro medievale scrive infatti che “dobbiamo liberarci anche dalla verità, giacché beatitudine e salvezza sono date solo dall'essere nudo, privo di ogni idea che lo limita, in corrispondenza dei nostri modi di pensarlo”.

La menzogna, infatti, finisce solo quando terminano le proprie “verità”, che sono poi opinio­ni, convinzioni, ovvero i legami al proprio interesse: sotto questo profilo, infatti, le cosiddette “convin­zioni sono nemiche della verità, più pericolose delle menzogne”. È nel distacco che si giunge alla infini­ta, beata aghnosìa, ovvero a quel “non sapere” che è la fine delle menzogne, la libertà dalle opinioni, libertà dai contenuti, signoria dell'identico e del diverso.

Meister Eckhart


Il testo è tratto da:
Marco Vannini, Oltre il cristianesimo, Ed. Bompiani 2013, pag. 23 segg.

giovedì 19 gennaio 2017

Vero e falso, vero o falso

A proposito dei temi trattati sovente in questo blog – la filosofia e la pratica della filosofia, la religione e il vivere la religione, i testi “sacri” e il loro ruolo – proponiamo alla lettura e alla meditazione due brevi pagine tratte da un importante lavoro di Marco Vannini, ad oggi il maggiore studioso italiano di quel fenomeno genericamente chiamato “mistica”.
Secondo il parere di chi scrive, la riflessione sui passi citati - e sul libro nel suo complesso - non deve limitarsi alle religioni citate dall'Autore, ma va allargata a tutto il mondo della religiosità, e in particolare all'atteggiamento mentale del "credente" in relazione alla pratica della religione alla quale ritiene di "appartenere" - o che pensa gli "appartenga"...
I passi sono tratti dal già citato volume Prego Dio che mi liberi da Dio – La religione come verità e come menzogna, pubblicato nel 2010 da Bompiani. Il primo è a pagina 50, il secondo a pagina 60.
Scrive Vannini:

La verità delle religioni

L'elemento di verità delle religioni, lo spirituale, è quello costituito dal platonismo.
Esso non è un sistema, da opporre ad altri sistemi, ma, come Platone stesso dice, un esercizio dell'intelligenza - anzi, di tutta l'anima - verso la verità, verso Dio. Le dottrine raccolte da Platone non sono altro che il riassunto, per così dire, di un'esperienza religiosa millenaria, certamente non solo ellenica, che si offre all'uomo non come un prodotto già confezionato, ossia qualcosa da "credere", ma come filosofia, ovvero cammino verso la verità, verso la luce.
Infatti il platonismo è innanzitutto un'esperienza della conversione. Essa non va intesa però come usualmente si fa, ovvero quale acquisizione di una credenza, ma come una radicale inversione di cammino: dall'appropriatività al distacco - dunque passando per una morte dell'ego, cioè dello psichismo naturale.
La conversione è infatti il completo rovesciamento della naturalità animale: allontanamento dal sensibile, dall'appropriazione, dalla corporeità, che è l'elemento determinato, finito, mentre il vero io è il divino in noi - l'anima, contrapposta al corpo.
Tutta l'opera di Platone ha come fine quello di indicare il modo di "farsi simile a Dio, per quanto possibile":

Non è possibile che il male scompaia. Perché è necessario che ci sia sempre qualche cosa più o meno contraria al Bene. E questa cosa non può avere la sua sede tra gli dèi, ma è necessario che circoli in mezzo alla natura mortale, in questo mondo. Perciò bisogna sforzarsi di fuggire di quaggiù il più rapidamente possibile. La fuga è il farsi simile a Dio, per quanto possibile. Questo farsi simile consiste nel diventare giusto e santo con l'aiuto della ragione [...]. E il motivo vero è questo: mai, in alcun modo, Dio è ingiusto.

In questo senso, l'opera platonica esprime la religiosità più completa e più pura mai apparsa in Occidente, dalla quale ha tratto ispirazione e alla quale ha fatto riferimento per secoli la mistica, cristiana e non solo cristiana: quel poco di spirituale che c'è nelle culture ebraica e islamica è dovuto all'ispirazione platonica (e poi, naturalmente, neo-platonica).
Riprendendo certamente un motivo pitagorico, Platone presenta la filosofia non come una professione, e nemmeno come una ricerca solo intellettuale, ma come una scelta di vita, una forma di vita che coinvolge tutto l'uomo e dà un orientamento nuovo alla sua esistenza. Il filosofare è ciò che conduce l'anima a una radicale conversione (peristrofe), volgendola dall'oscurità alla luce, dall'Ade agli dèi.
Che si tratti di una vera e propria conversione è evidente nel celebre mito della caverna, nel quale l'uomo è descritto per natura prigioniero, nell'oscurità di un antro, vittima dell'illusione per cui crede vere ombre e parvenze della realtà. Non può girare la testa verso la luce, perché non si può volgere il capo di centottanta gradi: occorre volgere tutto il corpo, tutto se stesso; la filosofia non è infatti un procedere solo della testa, dell'intelligenza, ma una svolta che implica il coinvolgimento di tutto l'essere, di tutto se stesso.
Occorre dunque sciogliersi dalle catene, liberarsi, ma ciò non si può fare da soli: bisogna dunque che qualcuno ci liberi - e in ciò gli interpreti hanno visto giustamente il riferimento alla theia moira, a una sorte divina, ovvero alla grazia - e che faticosamente si ascenda, di grado in grado, verso la luce, uscendo dalla caverna. 



La falsità delle religioni

 La falsità delle religioni è quella che proviene dalla Bibbia ebraica, e che da essa passa nel cristianesimo e poi nell'islamismo. L'essenza falsa, teologica, delle religioni, si appoggia infatti necessariamente sulle pretese rivelazioni, sui "libri sacri".
La menzogna è ex parte subiecti, ossia nella dichiarazione di libri come rivelati, sacri. Sotto questo aspetto, l'uomo religioso è l'uomo incapace di onestà, di verità - anzi, è il vero bestemmiatore, giacché, come diceva giustamente Cornelio Agrippa von Nettesheim, la vera, suprema bestemmia è dichiarare divino ciò che è di mano umana.
I contenuti dei libri "sacri" possono essere belli o brutti, storicamente veri oppure falsi, ma non è questo il problema. Perché la menzogna essenziale non è nel libro, ma in chi ne afferma la sacertà, ovvero nella volontà di potenza di costui. Qui Nietzsche ha visto bene: dietro la pretesa ispirazione divina c'è sempre un'affermazione di potere - del sacerdote o di altri, personale o collettiva.
Certo, si può dire che un testo è ispirato da Dio, ma questo si può dire sempre, visto che si può dire che tutto viene da Dio ed è divino, e così tutti i libri possono essere dichiarati "ispirati"; però quod dicitur de omni dicitur de nihilo, e perciò l'uomo onesto riconosce che nessun testo viene da Dio, ma solo da mano umana.
Ai nostri giorni la Bibbia fornisce alimento infinito alla letteratura, ed è ovvio che sia così, perché si tratta di una monumentale opera letteraria, capace perciò di generare a sua volta interpretazioni, commenti ecc. Il problema è quando questa letteratura, questa esercitazione retorica, viene chiamata teologia, e si dà a intendere - quel che è terribile, forse prima di tutto a se stessi - che si tratti di conoscenza di Dio, di Dio che guarda all'uomo, un tempo si diceva con il suo sguardo severo, di legislatore e di giudice; oggi, in tempi di décadence, si dice con il suo infinito amore verso di lui ("la carezza di Dio", "il sorriso di Dio" e altre simili espressioni di cattivo gusto).
Dall'assunzione dell"'ispirazione" di un testo scaturisce una sorta di ubriacatura del sentimento, euforia, esaltazione, ma scambiare tutto ciò per divino è ignobile e blasfemo. Tale sentimento è sempre a servizio dell'egoità animale, psicologica: è ciò che nega, non lascia essere lo spirito. Questa ubriacatura, in quanto priva di razionalità e intimamente fantastica (la weiliana "immaginazione che colma vuoti"), nel suo rimandare ad altro, è fuga dalla verità: tutta la realtà viene falsata, ovvero l'intelligenza non è più libera, ma strumentale, distorta, menzognera.



Da leggere, tra gli altri:
Prego Dio che mi liberi da Dio, Ed. Bompiani
All'ultimo papa, Ed. Il Saggiatore
Oltre il cristianesimo, Ed. Bompiani
Storia della mistica occidentale, Ed. Le Lettere

Si veda:
 http://www.marcovannini.it/

mercoledì 11 gennaio 2017

Nietzsche, Dioniso, Shiva, Buddha - II parte

Nietzsche e il Buddha

Uno dei maggiori biografi di Nietzsche ha scritto che “non c’è credo religioso che Nietzsche abbia studiato con maggior passione del buddhismo”(1).
In molte delle sue opere egli riporta infatti brani tratti dai testi che da Oriente continuavano a giungere in Europa e ad essere tradotti, o precisi riferimenti a studi buddhisti di autori europei(2). Alcune sue annotazioni riguardavano gli aspetti etici del buddhismo: in un frammento del 1875-76 cita come dette dal Buddha queste parole: “Andate e nascondete le vostre buone azioni e confessate davanti alla gente i peccati che avete fatto”, contrapponendole a quelle del Cristo, che egli riporta così: “Cristo dice invece (Matteo): Fate vedere alla gente le vostre buone azioni”(3). Secondo il suo pensiero, quindi, per quanto sia difficile da praticare l’etica buddhista è comunque più rigorosa e coerente di quella cristiana, che manterrebbe, esigendo di mostrare il bene compiuto, “un residuo di vanità e di orgoglio”(4).
Se il punto di partenza del confronto tra Cristianesimo e Buddhismo è qui l’etica, ciò che Nietzsche vuole evidenziare riguarda soprattutto il tema della conoscenza di sé: per il cristiano confessare il peccato porta “a un grado di autonomia che permette al massimo il disprezzo di sé e l’autocommiserazione, ma che delega la potenza del perdono esclusivamente alla divinità”(5). Per il buddhista è invece un atto di sincerità verso se stesso e di padronanza di sé, in quanto il peccato non ha da essere giudicato da nessuno, bensì conosciuto. Il perdono e la conoscenza sono un tutt’uno, al di là del giudizio morale.
Nel Cristianesimo prevale l’aspetto etico, anzi moralistico, nel Buddhismo invece quello conoscitivo – il che è del tutto coerente con l’impostazione delle tradizioni spirituali dell’India che identificano nell’ignoranza-avidya l’origine della sofferenza. “I santi indiani – scrive Nietzsche nel 1878-79 – [..] stanno a un gradino intermedio fra il santo cristiano e il filosofo greco [..]: la conoscenza, la scienza – nella misura in cui esse esistevano –, l’elevazione al di sopra degli altri uomini, attraverso la disciplina e l’educazione del pensiero, furono richieste dai buddhisti come segno di santità, allo stesso modo in cui le stesse qualità vengono negate e bollate nel mondo cristiano come segno di non santità”(6).
Riprendendo il pensiero di Schopenhauer, ed ancora in polemica con il Cristianesimo, Nietzsche auspica una trasformazione etica e culturale dell’Europa anche nella direzione indicata dal Buddhismo: “Un passo avanti [dopo il Brahmanesimo]: e gli dèi furono gettati da parte, ‑ cosa che l’Europa dovrà pur fare una volta! Ancora un passo avanti: e non si ebbe più bisogno neanche dei sacerdoti e dei mediatori e entrò in scena Buddha, il maestro della religione dell'autoredenzione: come è ancora lontana l'Europa da questo grado di civiltà!”(7)
Il Cristianesimo, inoltre, ha una storia che “contrariamente alla morale buddhistica dei popoli che mangiano il riso, è piena zeppa di violenza e gronda sangue”(8).

Nietzsche secondo E. Munch
L’opera nella quale il giudizio di Nietzsche sul Buddhismo è più articolato è l’Anticristo, del 1888, già citato a proposito del Codice di Manu. È opportuno riportare per intero i passi in questione:
XX – Con la mia condanna del cristianesimo non vorrei avere fatto torto a una religione affine che addirittura giunge a superarlo in quanto a numero di fedeli: il buddhismo. Entrambe, essendo religioni nichilistiche, sono correlate, sono religioni della décadence; ma si differenziano l'una dall'altra in modo sorprendente. Il critico del cristianesimo è profondamente grato ai saggi indiani, giacché ora è possibile comparare queste due religioni. Il buddhismo è cento volte più realista del cristianesimo, ha ereditato un modo freddo e oggettivo di porsi i problemi; nasce dopo un movimento filosofico durato centinaia di anni; appena esso sorge, il concetto di «Dio» è già eliminato. Il buddhismo è l'unica religione veramente positivistica che la storia ci mostri, anche nella sua teoria della conoscenza (un rigoroso fenomenalismo); esso non parla più di «lotta contro il peccato» bensì, e in ciò dando del tutto ragione alla realtà, di «lotta contro il dolore». Si è già lasciato alle spalle, e questo lo distingue profondamente dal cristianesimo, l’autoinganno dei concetti morali; si trova, per esprimere il concetto con parole mie, al di là del bene e del male. I due fatti fisiologici su cui si fonda e sui quali concentra il suo sguardo sono: innanzi tutto un’eccessiva eccitabilità della sensibilità che si esprime con una raffinata capacità di soffrire, e in secondo luogo un eccesso di intellettualismo, una vita spesa troppo a lungo sui concetti e sulle procedure logiche, sotto i quali l'istinto personale ha subito il male a vantaggio dell’«impersonale» [..]. Sulla base di tali condizioni fisiologiche si sviluppa uno stato di depressione: contro essa Buddha prende delle misure igieniche. Vi oppone la vita all'aria aperta, la vita in movimento; la moderazione e la scelta dei cibi; la cautela verso tutte le bevande alcooliche, come pure verso tutti i sentimenti che producono bile e riscaldano il sangue; nessuna preoccupazione né per sé né per gli altri. Egli esige pensieri che diano o quiete o allegria, e trova il modo per disabituarsi a quelli di altro tipo. Intende la bontà, l’essere buoni, come vantaggioso alla salute. La preghiera è esclusa, come pure l’ascetismo; nessun imperativo categorico, soprattutto nessuna costrizione, nemmeno nelle comunità monastiche (si è liberi di andarsene): tutto ciò sarebbe un modo per accrescere quell'eccessiva eccitabilità. Sempre per questa ragione pretende che non si combatta contro coloro che hanno un modo diverso di pensare; il suo insegnamento si oppone più di ogni altra cosa al sentimento di vendetta, di avversione, di ressentiment («l’inimicizia non cessa con l'inimicizia», è questo il commovente ritornello di tutto il buddhismo). E a ragione: queste emozioni sarebbero del tutto dannose rispetto al principale obiettivo dietetico. Combatte la stanchezza spirituale che egli trova e che si esprime con eccessiva «obiettività» (vale a dire con una diminuzione dell'interesse dell'individuo, con una perdita del baricentro, dell’«egoismo»), con un severo ritorno anche agli interessi più spirituali, alla persona. Nella dottrina di Buddha l’egoismo diviene un dovere: il principio «una sola cosa è necessaria», il «come ti puoi liberare dalla sofferenza» regolano e circoscrivono tutta la dieta spirituale [..].
XXI – La condizione per il buddhismo è un clima assai dolce, una grande mitezza e liberalità nei costumi, nessun militarismo; assieme al fatto che il movimento ha il suo focolare nelle classi più elevate e colte. Si ambisce alla serenità, alla tranquillità, all’assenza di desideri come meta suprema e si raggiunge tale meta. Il buddhismo non è una religione in cui si aspira semplicemente alla perfezione: la perfezione è la norma. Nel cristianesimo gli istinti di chi è sottomesso e oppresso sono in primo piano: le classi inferiori sono quelle che vi cercano la salvezza. Qui la casistica del peccato, l’autocritica, l’inquisizione della coscienza è praticata come occupazione, come rimedio specifico contro la noia; qui è costantemente tenuto in vita un rapporto affettivo con un potente chiamato «Dio» (con la preghiera); il più elevato viene considerato irraggiungibile, un dono, una «grazia». Qui manca anche un luogo che sia pubblico: i luoghi nascosti, le stanze buie sono cristiani. Qui si disprezza il corpo, si ripudia l'igiene come forma di sensualità; la Chiesa si oppone alla pulizia (la prima misura presa dai cristiani dopo la cacciata dei mori fu la chiusura dei bagni pubblici, mentre la sola Cordova ne possedeva 270). È cristiano un certo senso di crudeltà verso sé stessi e verso gli altri, è cristiano l’astio per coloro che la pensano differentemente, è cristiana la volontà persecutoria. Idee tetre ed eccitanti sono in primo piano; gli stati spirituali più desiderati e designati con i nomi più eccelsi sono quelli epilettoidi; la dieta viene scelta in modo da favorire fenomeni morbosi e sovreccitare i nervi. È cristiana l’ostilità mortale contro i dominatori della Terra, contro i «nobili», e nello stesso tempo una competizione più nascosta e segreta (si lascia loro il corpo, si vuole solo l’«anima»). È cristiano l’odio per lo spirito, l’orgoglio, il coraggio, la libertà, il libertinaggio spirituale; è cristiano l’odio per i sensi, per la gioia dei sensi, l’odio per la gioia in generale...
XXII – Il cristianesimo, quando lasciò il suo luogo d’origine, le classi più umili, i bassifondi del mondo antico, quando cercò il potere fra popoli barbari, non si trovò davanti uomini stanchi, ma uomini dall’animo selvaggio, che si distruggevano tra di loro, uomini forti eppure malriusciti. L’insoddisfazione di sé, il dolore di sé stessi, non sono, come per i buddhisti, un'eccessiva eccitabilità e la facoltà di soffrire, ma, al contrario, il desiderio predominante di nuocere, di sfogare una tensione interiore attraverso azioni e idee ostili. Per dominare sui barbari il cristianesimo aveva bisogno di valori e di concetti barbari: il sacrificio del primogenito, il bere sangue alla comunione, il disprezzo per lo spirito e la cultura, la tortura in ogni sua forma, fisica e spirituale, una grande pompa nel culto pubblico. Il buddhismo è una religione per uomini più maturi, per razze divenute più benevoli e miti, straordinariamente spirituali, sensibili al dolore (l’Europa non è neppure lontanamente matura per esso): il ricondurre alla pace e alla serenità, a una dieta nelle cose dello spirito, a un certo irrobustimento del corpo. Il cristianesimo invece vuole dominare sulle belve; il suo rimedio è renderle malate, indebolire è la ricetta cristiana per addomesticare, per condurre alla «civiltà». Il buddhismo è una religione per la fine, per la stanchezza della civiltà, il cristianesimo non ne incontra una dinanzi a sé, eventualmente la fonda.
XXIII – Il buddhismo, ripetiamolo, è cento volte più freddo, più veritiero, più oggettivo. Non ha più bisogno di rendere dignitoso il suo dolore, la sua capacità di soffrire, attraverso l'interpretazione del peccato: dice semplicemente ciò che pensa: «io soffro». Invece per il barbaro il dolore in sé non è decoroso: egli come prima cosa ha bisogno di un'interpretazione del dolore per ammettere a se stesso che soffre (il suo istinto lo induce piuttosto a negare le sofferenze, spingendolo a sopportarle in silenzio). In questo caso la parola «diavolo» fu un beneficio: si aveva un nemico schiacciante e terribile, non bisognava vergognarsi di soffrire a causa di un simile nemico. Nel fondo del cristianesimo sono riscontrabili alcune sottigliezze che appartengono all'Oriente. Innanzi tutto sa che è assolutamente indifferente che una cosa sia vera in se stessa, ma che è della massima importanza quanto essa sia creduta vera. La verità e la fede che qualcosa sia vero: due mondi di interesse totalmente diversi, quasi antitetici, ai quali si giunge percorrendo due strade completamente differenti. Essere sapienti a tale riguardo è sufficiente in Oriente per rendere un uomo saggio: così la pensano i brahmani, così ritiene Platone, così intendono gli studiosi di scienza esoterica. Se, per esempio, la felicità consiste nel credersi redenti dal peccato, per un uomo non è necessario, come condizione, essere un peccatore, ma sentirsi peccatore. Però, se è indispensabile soprattutto la fede, allora si dovranno screditare la ragione, la conoscenza e la ricerca: la via per la verità diviene una via proibita. Una forte speranza è uno stimulans per la vita, più grande di ogni singola felicità che si realizzi effettivamente. È necessario sostenere chi soffre, con una speranza che nessuna realtà possa smentire, che nessuna realizzazione possa vanificare: una speranza nell’aldilà. (Fu proprio a causa di questa capacità di tenere in sospeso gli infelici che i greci consideravano la speranza il male dei mali, il male più insidioso: quello rimasto in fondo al vaso del male). Perché l'amore sia possibile, Dio deve essere una persona; affinché gli istinti più bassi abbiano voce, Dio deve essere giovane. Per soddisfare l'ardore delle donne si pone in primo piano un santo di bell’aspetto, per appagare quello degli uomini una Maria. Ciò si fonda sul presupposto che il cristianesimo intendeva dominare su un terreno dove il culto di Afrodite e Adone aveva già determinato il concetto di culto religioso. La pretesa della castità rafforza la veemenza e l'intensità interiore dell'istinto religioso, rende il culto più caldo, più fanatico e spiritualmente più intenso. L’amore è la condizione in cui l’uomo il più delle volte vede le cose come non sono. La forza illusoria raggiunge qui il suo apice, come pure quella che mitiga e trasfigura. Nell’amore si sopporta di più, si tollera tutto. Si trattava di rintracciare una religione nella quale l’amore fosse possibile: con essa ci poniamo al di sopra degli aspetti peggiori della vita, non lo si vede nemmeno più. E così è per le tre virtù cristiane: fede, speranza e carità: io le definisco i tre stratagemmi cristiani. Il buddhismo è troppo maturo, troppo positivistico per essere ancora tanto astuto”(9).
In sintesi, afferma perentoriamente Nietzsche, “il buddhismo non promette ma mantiene, il cristianesimo promette tutto, ma non mantiene nulla”(10).

La posizione di Nietzsche sul Buddhismo non è paragonabile a quella di Schopenhauer: se questi era arrivato a definirsi buddhista, Nietzsche ne esalta gli insegnamenti soprattutto in antitesi a quelli cristiani, usa certi aspetti della dottrina del Buddha quasi come un’arma nella sua polemica anticristiana.
Infatti, più o meno nello stesso periodo cui appartiene L’Anticristo, egli esprime anche dure critiche nei confronti del Buddhismo, che è da lui associato alla “catastrofe nichilistica che pone fine alla cultura terrestre”(11).
Ne evidenzia taluni elementi negativi, che esso condivide con il Cristianesimo, “soprattutto per quanto riguarda il lato nichilistico e decadente che si concentra nella lotta contro i sentimenti ostili riconosciuti come fonte del male”(12).
Nella Gaia scienza (1881) scrive: “le due religioni mondiali, il buddhismo e il cristianesimo, potrebbero aver avuto la loro base d’origine, e a un tempo il segreto della loro repentina diffusione, in una mostruosa malattia della volontà. E in verità così è accaduto: entrambe queste religioni s’imbatterono nell’esigenza di un ‘tu devi’ innalzata all’assurdo da una malattia della volontà, e progrediente fino alla disperazione; entrambe queste religioni furono maestre di fanatismo in epoche di snervamento della volontà e pertanto offrirono a innumerevoli uomini un appoggio, una nuova possibilità di volere, un godimento nel volere”(13).
E in Al di là del bene e del male (1886) si legge: “Forse non c'è nulla di più venerando, nel cristianesimo e nel buddhismo, della loro arte di ammaestrare le creature più umili a collocarsi, attraverso la devozione, in un apparente ordine superiore di cose, e di tener stretto, in tal modo, a sé quel loro contentarsi dell'ordine reale, all'interno del quale esse vivono abbastanza duramente e proprio questa durezza è necessaria!”(14).

Citiamo infine, per cercare di comprendere in sintesi l’atteggiamento di Nietzsche nei confronti delle religioni e della posizione del Buddhismo all’interno di esse, un brano del 1888-89: “come si presenta una religione ariana affermativa, prodotto delle classi dominanti: il codice di Manu. Come si presenta una religione semitica affermativa, prodotto delle classi dominanti: il codice di Maometto. L’Antico Testamento, nelle parti più antiche. Come si presenta una religione semitica negativa, come prodotto delle classi oppresse: il Nuovo Testamento – una religione da ciandala(15). Come si presenta una religione ariana negativa, sviluppatasi tra le classi dominanti: il buddhismo”(16).


L’eterno ritorno, l’oltreuomo e l’India

Si è fatto cenno in precedenza a come la lettura del Codice di Manu, con la sua esposizione delle ere cosmiche, gli Yuga, e della concezione circolare del tempo abbia forse influenzato la dottrina nicciana dell’eterno ritorno, che riveste un ruolo centrale nell’opera più nota del filosofo tedesco, Così parlò Zarathustra, concepita negli anni 1882-85 tra Genova, Rapallo e l’Engadina.
Il testo è un vero e proprio poema filosofico in prosa, in cui l’Autore si esprime con un linguaggio mitico-simbolico, il cui modello è il Nuovo Testamento. In esso il profeta Zarathustra, alter ego di Nietzsche, disconosce radicalmente all’esistenza una direzione, un qualsiasi senso metafisico. Se il mondo è composto da un numero finito di elementi, in un tempo infinito dovrà necessariamente ripetere le stesse combinazioni, per un numero infinito di volte: “Tutto va, tutto ritorna; la ruota dell’esistenza gira eternamente. Tutto muore, tutto rifiorisce; le stagioni dell’esistenza si susseguono eternamente.
Tutto si spezza, tutto si ricongiunge: eternamente si costruisce lo stesso edificio dell’esistenza. Tutto si separa, tutto si ritrova; l’anello dell’esistenza resta eternamente fedele a se stesso.
A ogni momento l’esistenza comincia; attorno a ogni “qui” gira la sfera “là”. Il centro è dovunque. Tortuoso è il sentiero dell’eternità”(17).
L’eterno ritorno, che distrugge la struttura lineare del tempo, richiede all’uomo una radicale trasfigurazione: l’uomo della tradizione “vive il passato come qualcosa di cui non può disporre, come un’autorità, e si vendica infliggendo a sé e agli altri le sofferenze della morale, della religione”(18). L’eterno ritorno è invece un tempo libero dal principio di autorità, è una condizione nella quale dire sì, così voglio, così vorrò al tempo che cammina a ritroso. L’uomo che dice all’eterno ritorno è un uomo nuovo: “Non più un pastore, non più un uomo – ma un rinnovato, un illuminato che rideva. Non mai ancora sulla terra un uomo rise al pari di lui!”(19)
Quest’uomo nuovo non è “una forma potenziata dell’umanità del passato”, bensì un soggetto “assolutamente eterogeneo rispetto alla tradizione precedente”(20). È lo übermensch, termine assolutamente centrale in Nietzsche(21), la cui stessa traduzione – superuomo, oltreuomo, uomo superiore – è al centro di annose polemiche, legate alle diverse interpretazioni del suo pensiero: precursore dell’ideologia razzista del nazional-socialismo, distruttore della ragione, critico rivoluzionario della società borghese, o semplicemente folle…
L’oltreuomo (traduzione che qui privilegiamo) è “un non-più-soggetto, sgravato dal senso di colpa e dalla volontà di vendetta, equilibrato nel suo rapporto con il mondo e la natura. L’oltreuomo non si vede come un uno opposto al molteplice, ma è in grado di riconoscersi come pluralità, oltrepassando perciò la struttura eminentemente gerarchica su cui si fonda la soggettività metafisica, che riproduce all’interno dell’io i meccanismi di dominio che vigono nel mondo sociale”(22).

Ananda K. Coomaraswamy
Un autore che già nel 1918 aveva trovato una profonda corrispondenza tra il pensiero di Nietzsche, nei due nessi cruciali qui accennati, l’eterno ritorno e l’oltreuomo, e le dottrine dell’India tradizionale è Ananda Kentish Coomaraswamy, insigne studioso delle religioni e delle arti indiane, nato a Sri Lanka nel 1877 da padre indù e madre inglese, autore di molti testi e responsabile delle sezioni orientali del Museo di Belle Arti di Boston fino al 1947, anno della sua morte.
Nel saggio La visione cosmopolita di Nietzsche Coomaraswamy rileva che la nozione di übermensch è “simile alla concezione cinese di ‘uomo superiore’ e a quella indiana di mahapurusa(23), bodhisattva e jivanmukta”(24). Il filosofo tedesco ripropone quindi concezioni molto antiche, più volte apparse nella storia dell’umanità. In India ciò che egli chiama übermensch è detto arhat (colui che ha percorso l’Ottuplice Sentiero buddhista), buddha (il risvegliato, l’illuminato), jina (il vittorioso, il conquistatore), tirthankara (lo scopritore del guado), bodhisattva (colui la cui essenza è il risveglio, l’incarnazione della compassione), jivanmukta (il liberato in vita).
È colui le cui azioni sono al di là del bene e del male, in quanto scaturiscono dalla sua natura liberata. Come l’eroe Arjuna del testo classico della spiritualità e dell’epica induista, la Bhagavad Gita, la sua azione è distaccata dall’esito, dal frutto dell’agire stesso: “L’insegnamento di Nietzsche – afferma Coomaraswamy – è un puro nişkama dharma”(25), il dovere compiuto senza desiderio (kama) e senza l’attesa della ricompensa.
Il comportamento dell’übermensch non è legato alla moralità, perché egli agisce come i bodhisattva: “essi hanno raggiunto la spontaneità dell’azione dice Asvaghosa – poiché la loro disciplina è in accordo con la sapienza e l’attività di tutti i Tathagata”(26), di tutti i Buddha. L’übermensch è “il più alto risultato e scopo dell’umanità”(27).
È quindi questo – secondo Coomaraswamy, che probabilmente sopravvaluta l’influenza indiana nel pensiero di Nietzsche – il vero senso delle parole di Zarathustra al popolo raccolto sul mercato: “Io vi annunzio il superuomo. L’uomo va superato [..]. Che cosa è la scimmia per l’uomo? Una derisione o una dolorosa vergogna. E questo appunto dev’essere l’uomo per il superuomo: una derisione o una dolorosa vergogna [..]. Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: il superuomo sia il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze soprannaturali. Sono avvelenatori, lo sappiano o no”(28).

Zarathustra - Zoroastro
 Ma infine, chi era lo Zarathustra alla cui voce Nietzsche affida il proprio pensiero?
È una domanda che ancora una volta ci riporta in Oriente: Zarathustra è infatti il profeta fondatore della religione iranica detta appunto zoroastrismo, noto in Grecia e a Roma come Zoroastro, e vissuto tra le popolazioni Indo-iraniche nel II millennio a.C.
 O forse è solo una figura del mito, un modello per i seguaci iranici dei culti di Ahura Mazda, il creatore di tutti i mondi.
In tale culto compare anche, in subordine, la figura di Mitra, strettamente connessa al Sole, protettore della giustizia e della verità.
Il culto di Mitra, in forma iniziatica, riservata agli uomini, si diffuse anche in Occidente, in particolare nell’Impero Romano dove fu assimilato ad Apollo.
Un elemento particolare dello zoroastrismo è l’annuncio della risurrezione dei morti e della ri-creazione dei corpi, in relazione con l’arrivo del Saoshyant, il Salvatore, preannunciato dal profeta Zarathustra.
Questo momento di Rinnovamento finale, di Giudizio universale, è anticipato nei rituali degli ultimi dieci giorni dell’anno, lo stesso periodo in cui fu creato l’universo e in cui fu rivelata la religione(29).
A proposito dello Zarathustra di Nietzsche, Giorgio Colli (1917-1979), insigne studioso e curatore dell’edizione italiana delle sue opere, ha affermato che il modello di Nietzsche è in realtà greco, anche se la figura del profeta e i simboli utilizzati sono orientali, persiani e biblici. “Ma l’originale greco di questa traduzione orientale non è difficile da scoprirsi [..]. Zarathustra è l’uomo che ha colto la conoscenza misterica, e la sua azione [..] non è altro che un riflesso di quella conoscenza sugli uomini. Il valore più alto della vita nella conoscenza, e il riassorbimento di ogni azione nella conoscenza: di questo i Greci soltanto sono stati il modello”(30).
In tal modo, attraverso Zarathustra, Nietzsche ritorna – eterno ritorno… – all’origine, la Grecia. Non la Grecia di Socrate e di Apollo, però, ma quella di Dioniso, quel dio che era giunto colà danzando, con il suo corteo di Ninfe e Satiri e di fiere ammansite, dallo stesso Oriente di śiva…

"Crederei solo a un dio che sapesse danzare"


  1) Cit. in: G. Pasqualotto, pag. 103
  2) Nietzsche lesse il Buddha pubblicato nel 1881 dal grande orientalista tedesco Hermann Oldenberg
  3) Id.
  4) Id. – Anche se in verità ciò che si legge in Matteo è sì: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone” (Mt, 5,16), ma poco oltre è detto: “Guardatevi dal praticare le vostre opere buone davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli” (Mt, 6,1), nonché: “Quando fai l’elemosina non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta”(Mt, 6,3).
  5) G. Pasqualotto, pag. 105
  6) F. Nietzsche, Umano troppo umano, in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=228
  7) F. Nietzsche, Aurora, § 96, in: http://www.nilalienum.it/Sezioni/Nietzsche/Opere/AUR.html
  8) F. Nietzsche, Umano troppo umano, cit. in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=228
  9) F. Nietzsche, L’Anticristo, § XX-XXI-XXII-XXIII, in: http://sentieridellamente.it/files/L-Anticristo--testo-integrale-.pdf
  10) Id., § XLII
  11) Cit. in: G. Pasqualotto, pag. 110
  12) Id.
  13) F. Nietzsche, La gaia scienza, in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=228
  14) F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, III, 61, in: http://www.webethics.net/testi/Nietzsche_Aldiladelbeneedelmale.pdf
  15) Nel sistema castale indiano, i fuori-casta, gli “intoccabili”
  16) F. Nietzsche, Frammenti postumi, cit. in: G. Pasqualotto, pag. 110
  17) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, pag. 191
  18) G. Vattimo e G. Costa, pag. 1357
  19) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, pag. 141-142
  20) G. Vattimo e G. Costa, pag. 1357
  21) Il termine übermensch non fu coniato da Nietzsche, ma era già in uso nella lingua tedesca dal XVI secolo
  22) G. Vattimo e G. Costa, pag. 1357
  23) Maha = grande. Puruşa indica il genere umano, il principio maschile primordiale: dal suo corpo smembrato (bocca, braccia, cosce, piedi) nacquero le 4 caste. Dalla mente la luna, dall’occhio il sole, dal respiro il vento ecc.
  24) In: A. K. Coomaraswami, La danza di Śiva, Ed. Luni, pag. 142
  25) Id., pag. 146
  26) Id., pag. 148
  27) Id.
  28) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, pag. 19
  29) Cfr. M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Ed. Sansoni, Vol. I, pag. 329 e segg.
  30) G. Colli, Nota introduttiva a F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in: https://asidel.files.wordpress.com/2011/12/cosi-parlc3b2-zarathustra.pdf



Nietzsche, Dioniso, Shiva, Buddha - I parte

Ha scritto Giangiorgio Pasqualotto nel saggio Nietzsche e il buddhismo (1983): “Se individuare i luoghi in cui Nietzsche valuta il buddhi­smo in generale, e cogliere le sparse omogeneità tra i due tipi di pensiero sono operazioni abbastanza agevoli ma forse an­che poco interessanti, trovare invece le coincidenze teoriche o le analogie speculative tra il pensiero di Nietzsche e la pro­spettiva filosofica propria del buddhismo zen può risultare un lavoro più utile e avvincente”(1). Ma si è già detto che ciò che qui interessa è soprattutto la ricerca di una effettiva presenza delle filosofie dell’India e/o dell’Estremo Oriente nelle biografie e nelle opere dei pensatori occidentali, più che il reperimento di eventuali corrispondenze o analogie (che non per questo devono essere negate).
Per cui in questa sede ci limiteremo ad esplorare brevemente – e proprio seguendo le orme lasciate dallo stesso Pasqualotto – quei luoghi in cui Friedrich Nietzsche ha mostrato di conoscere le dottrine dell’India – e non solo – lasciando altresì alcune interessanti valutazioni su di esse.

Nietzsche e l’Induismo

Nietzsche nasce nel 1844 vicino a Lipsia; il padre, pastore luterano, muore quando Friedrich ha solo quattro anni. Dopo il ginnasio il giovane frequenta i corsi universitari di teologia e di filologia, ambito nel quale ottiene il dottorato (1869).

Friedrich Nietzsche
Si appassiona presto anche agli studi filosofici, ed è profondamente colpito dal pensiero di Kant e di Schopenhauer, in particolare dalla lettura del Mondo come volontà e rappresentazione.
Una delle sue prime opere è La nascita della tragedia, del 1872, un testo filosofico che molto deve alla filologia. Qui Nietzsche rivisita – con scarso successo di critica – le concezioni della civiltà greca: per lui l’immagine corrente della Grecia antica è “falsa e superficiale, fissata nei suoi tratti classici di armonia, bellezza e misura, e dunque già malata di decadenza perché corrispondente ad un momento della storia greca non più pienamente vitale (l’Atene del V secolo)”(2). La storiografia aveva negato la vera essenza dell’anima del popolo greco, che non risiede nella perfezione delle forme bensì nella sua esuberanza vitale e nel suo pessimismo. L’autentico spirito greco consiste invece in un precario equilibrio tra due opposti, rappresentati dallo spirito apollineo e dallo spirito dionisiaco: Apollo è il mondo delle divinità classiche, dell’arte dorica dalle perfette proporzioni. Dioniso è l’esperienza del caos, del flusso incessante e incerto della vita che si esprime in particolare nella musica – laddove la potenza del suono evoca l’istinto, il rapimento e il trasporto, ricongiungendo l’uomo con le forze caotiche e primordiali della natura – e nella danza dei riti dionisiaci, che simboleggia il processo eterno di distruzione e rinascita. Il dionisiaco non è solo ebbrezza, ma anche morte, dolore e violenza, ciò che la vita porta sempre con sé. Nietzsche riprende quindi, anche se con alcune distinzioni, l’opposizione schopenhaueriana tra il mondo ordinato della rappresentazione e la sostanza irrazionale della volontà.
Dal punto di vista dell’estetica, tale dualità gli permette di reinterpretare la varie fasi dell’arte greca, tra le cui forme la tragedia rappresenta per lui il punto più vicino allo spirito dionisiaco, in quanto era nata dal coro dei Satiri, il ditirambo. Essa venne poi “uccisa” con Euripide dall’introduzione di elementi morali e intellettuali. Con l’apparizione nel campo della filosofia di Socrate e Platone lo spirito dionisiaco venne represso, e di qui iniziò la decadenza del popolo greco(3).
Al di là delle considerazioni estetiche e di teoria delle civiltà, è interessante osservare come già di qui si possa introdurre il tema della presenza dell’Oriente in Nietzsche, sotto due aspetti:
F Nietzsche scrive La nascita della tragedia nel 1872, riprendendo il pensiero di Schopenhauer, il quale aveva pubblicato il Mondo nel 1818 e aveva ottenuto a partire dal 1851 il riconoscimento che tanto desiderava. Pertanto Nietzsche aveva potuto conoscere bene la profonda influenza del pensiero indiano nel lavoro del suo predecessore.

F Inoltre si è anche visto, parlando della filosofia greca(4), che la figura di Dioniso e i culti dell’Orfismo, di origine non greca ma tracia, sono ricollegabili al dio indiano śiva e al suo culto, lo śivaismo. Dieci anni dopo La nascita della tragedia Nietzsche scriverà: “Crederei solo a un dio che sapesse danzare”(5), e lo farà riferendosi proprio alle danze del culto dionisiaco. Ma ci piace pensare che all’immagine di un dio che danza non sia estranea quella di śiva Nataraja, Signore della Danza intesa come manifestazione dell’energia ritmica primordiale da cui origina il Cosmo.
Il nesso tra Dioniso e l’India era comunque ben noto a Nietzsche, che così esorta gli Europei ad andare al di là di Socrate: “Coronatevi di edera, brandite il tirso(6), e non vi meravigliate che la tigre e la pantera vengano carezzevolmente ad accosciarvisi ai ginocchi [..](7). Unitevi al pellegrinaggio festoso di Dioniso dall’India alla Grecia”(8).

Dopo di allora l’India continua ad essere oggetto dell’interesse di Nietzsche, che pone un verso del Rig Veda in epigrafe alla sua Aurora del 1881: “Vi sono tante aurore che ancora devono risplendere”(9).
Nella stessa opera dapprima egli mette brevemente a confronto il Brahmanesimo e il Cristianesimo: “Esistono ricette a seconda del senso della potenza, in primo luogo per coloro che sono capaci di dominare se stessi e che perciò già si sentono a casa nel sentimento della potenza: in secondo luogo per coloro cui manca proprio questo. Degli uomini della prima specie si è preoccupato il brahmanesimo, di quelli della seconda il cristianesimo”(10).
E successivamente propone l’India brahmanica quale modello per l’Europa: “Per quanto progredita possa essere, l'Europa nelle cose religiose non ha ancora raggiunto la liberale ingenuità degli antichi brahmani, segno questo che, quattro millenni or sono, in India si pensava di più e si era soliti trasmettere il piacere di pensare, più di quanto non accada oggi tra noi. Quei brahmani infatti credevano in primo luogo che i sacerdoti fossero più potenti degli dèi, e in secondo luogo che le usanze fossero ciò in cui si forma la potenza dei sacerdoti: perciò i loro poeti non si stancarono di magnificare le usanze (preghiere, cerimonie, sacrifici, canti, ritmi) come le vere donatrici di ogni bene [..].
Quando finalmente anche tutti gli usi e costumi, sui quali poggia la potenza degli dèi, dei sacerdoti e dei redentori, saranno distrutti, quando dunque la morale nel suo antico significato sarà morta: allora verrà ‑ sì, cosa verrà allora? Non tentiamo di indovinare(11), piuttosto stiamo attenti, in primo luogo, al fatto che l'Europa ripeta ciò che in India, tra il popolo dei pensatori, fu già compiuto alcuni millenni orsono come imperativo del pensiero!”(12)

Un testo fondamentale dell’antica civiltà indiana che Nietzsche studia ed apprezza è il Codice di Manu (o Istituzioni di Manu, in sanscrito Manu-smriti(13) o Manava Dharma-shastra), tradotto da William Jones e pubblicato in tedesco già nel 1797. Si tratta di una raccolta di norme legislative forse risalente al 1250 a.C., attribuita al mitico Manu(14), progenitore del genere umano e fondatore del dharma, l’ordinamento morale e sociale.
Il testo, diviso in 12 libri, è essenzialmente “un codice etico, che esalta i costumi e le convenzioni in un momento nel quale incominciavano a essere interiormente minati e in cui l’allentamento della dottrina tradizionale stava attenuando l’influenza del dogma e dell’autorità”(15).
Vi si ritrovano le norme relative ai rapporti all’interno delle famiglie, al sistema delle caste, ai quattro stadi della vita umana – dallo studente al padre di famiglia, allo stadio del ritiro a quello della rinuncia a tutto – nonché la dettagliata descrizione dei quattro Yuga, le ere cosmiche, che è alla base della concezione ciclica del tempo tipica delle culture tradizionali non solo indiane(16).  E che ha forse fornito a Nietzsche i presupposti per l’elaborazione della nozione di eterno ritorno.
Il Codice diviene per Nietzsche un importante strumento nella sua polemica contro il Cristianesimo. Nel Crepuscolo degli idoli (1888) ne cita un passo sul sistema castale, che gli fa dire: “Si tira un sospiro nell’uscire dall’atmosfera infetta e carceraria del cristianesimo per entrare in questo mondo più sano, più elevato, più vasto. Quanto è miserabile il Nuovo Testamento a confronto con Manu, che cattivo odore è il suo!”(17)


E nell’Anticristo (anch’esso del 1888) conferma così la sua lettura del Codice: “un’opera incomparabilmente spirituale e superiore, al punto che il solo nominarla assieme alla Bibbia sarebbe un peccato contro lo spirito. S’indovina subito che ha una vera filosofia dietro di sé, in sé, non soltanto un ebraismo maleodorante intriso di rabbinismo e superstizione. Offre qualcosa persino agli psicologi più esigenti. Senza dimenticare la cosa principale, ciò che lo distingue da ogni Bibbia: è lo strumento tramite il quale le classi nobili, i filosofi e i guerrieri, mantengono il controllo sulla moltitudine; valori nobili ovunque, un senso di perfezione, un’affermazione della vita, un piacere trionfante di sé e della vita; il sole risplende su tutto il libro. Tutti i temi sui quali il cristianesimo riversa la sua inesauribile volgarità, per esempio la procreazione, la donna, il matrimonio, in esso vengono trattati con serietà, rispetto, amore e fiducia. [..] Non conosco alcun libro nel quale si dicono alle donne tante cose tenere e buone come nel codice di Manu; questi vecchi e santi dalla barba grigia possiedono un modo di essere gentili nei confronti delle donne che forse è insuperato.”(18).
E ancora: “Si coglie in flagrante l’empietà dei mezzi cristiani, se si paragonano i fini cristiani con quelli del codice di Manu, se si illumina con luce viva questo grandissimo contrasto di fini. Il critico del cristianesimo non può esimersi dal compito di rendere disprezzabile il cristianesimo. Un codice come quello di Manu nasce come tutti i buoni codici: riassume l’esperienza, la prudenza e la morale sperimentale di lunghi secoli, conclude, non crea nulla di più”(19).




1) In: G. Pasqualotto, Il Tao della filosofia, Ed. Pratiche, pag. 113. D’altra parte, nelle righe successive l’A. riconosce che “Nietzsche non solo non poteva conoscere i testi del buddhismo zen – si cominciò, infatti, a tradurli in inglese solo dopo la prima guerra mondiale – ma non poteva conoscere nemmeno nessun lavoro di studioso europeo specificamente dedicato a questo tema
2) G. Vattimo e G. Costa, Nietzsche, in: AA.VV., Filosofia – Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. 5, pag. 1347
3) Cfr. id. pag. 1347 e segg.
4) http://zenvadoligure.blogspot.it/2016/11/la-filosofia-classica-antica-e-loriente.html
5) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Ed. Mursia, pag. 44
6)  Il bastone rituale del culto dionisiaco, che rappresenta la forza vitale del dio che viene instillata nella vegetazione, negli animali e negli uomini
7) Gli animali ascoltano rapiti la cetra di Orfeo, sacerdote di Dioniso, e śiva è anche Paśupati, Signore degli animali
8) F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Ed. Laterza, pag. 169
9) Cit. in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=228
10) F. Nietzsche, Aurora, § 65, in: http://www.nilalienum.it/Sezioni/Nietzsche/Opere/AUR.html
11) Il testo sul web riporta “individuare”, ma verifiche su versioni in diverse lingue portano a pensare che si tratti di un refuso, che tra l’altro renderebbe la frase priva di senso.
12) Id., § 96
13) Smriti = ricordo, memoria. La smriti riveste nella tradizione indiana un’importanza secondaria rispetto alla śruti = ascolto. Ad es. i Veda e le Upanishad appartengono alla śruti
14) Manu = uomo, dalla radice man-, pensare. Cfr. l’inglese man e il tedesco mann
15) S. Radhakrishnan, La filosofia indiana, Ed. Einaudi, Vol. I, pag. 534
16) Cfr. AA.VV., La civiltà indiana, Ed. UTET, pag. 76-77
17) Cit. in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=228
18) F. Nietzsche, L’Anticristo, § LVI, in: http://www.iisbachelet.it/biblioteca/Friedrich%20Nietzsche%20-%20Anticristo.pdf
19) Id., § LVII