Ha scritto Giangiorgio Pasqualotto nel saggio Nietzsche e il buddhismo (1983): “Se individuare i luoghi in cui Nietzsche valuta il buddhismo in
generale, e cogliere le sparse omogeneità tra i due tipi di pensiero sono
operazioni abbastanza agevoli ma forse anche poco interessanti, trovare invece
le coincidenze teoriche o le analogie speculative tra il pensiero di Nietzsche
e la prospettiva filosofica propria del buddhismo zen può risultare un lavoro
più utile e avvincente”(1). Ma si è già detto che ciò che qui interessa è
soprattutto la ricerca di una effettiva
presenza delle filosofie dell’India e/o dell’Estremo Oriente nelle biografie e
nelle opere dei pensatori occidentali, più che il reperimento di eventuali
corrispondenze o analogie (che non per questo devono essere negate).
Per cui in questa sede ci limiteremo ad esplorare brevemente – e
proprio seguendo le orme lasciate dallo stesso Pasqualotto – quei luoghi in cui Friedrich Nietzsche ha mostrato di conoscere le dottrine dell’India
– e non solo – lasciando altresì alcune interessanti valutazioni su di esse.
Nietzsche e l’Induismo
Nietzsche nasce nel 1844 vicino a Lipsia; il padre, pastore luterano,
muore quando Friedrich ha solo quattro anni. Dopo il ginnasio il giovane
frequenta i corsi universitari di teologia e di filologia, ambito nel quale
ottiene il dottorato (1869).
Friedrich Nietzsche |
Si appassiona presto anche agli studi filosofici, ed è profondamente
colpito dal pensiero di Kant e di Schopenhauer, in particolare dalla lettura
del Mondo come volontà e rappresentazione.
Una delle sue prime opere è La nascita della tragedia, del 1872,
un testo filosofico che molto deve alla filologia. Qui Nietzsche rivisita – con
scarso successo di critica – le concezioni della civiltà greca: per lui
l’immagine corrente della Grecia antica è “falsa
e superficiale, fissata nei suoi tratti classici di armonia, bellezza e misura,
e dunque già malata di decadenza perché corrispondente ad un momento della
storia greca non più pienamente vitale (l’Atene del V secolo)”(2). La
storiografia aveva negato la vera essenza dell’anima del popolo greco, che non
risiede nella perfezione delle forme bensì nella sua esuberanza vitale e nel
suo pessimismo. L’autentico spirito greco consiste invece in un precario
equilibrio tra due opposti, rappresentati dallo spirito apollineo e dallo
spirito dionisiaco: Apollo è il mondo
delle divinità classiche, dell’arte dorica dalle perfette proporzioni. Dioniso è l’esperienza del caos, del
flusso incessante e incerto della vita che si esprime in particolare nella
musica – laddove la potenza del suono evoca l’istinto, il rapimento e il
trasporto, ricongiungendo l’uomo con le forze caotiche e primordiali della
natura – e nella danza dei riti dionisiaci, che simboleggia il processo eterno
di distruzione e rinascita. Il dionisiaco non è solo ebbrezza, ma anche morte,
dolore e violenza, ciò che la vita porta sempre con sé. Nietzsche riprende
quindi, anche se con alcune distinzioni, l’opposizione schopenhaueriana tra il
mondo ordinato della rappresentazione e la sostanza irrazionale della volontà.
Dal punto di vista dell’estetica, tale dualità gli permette di
reinterpretare la varie fasi dell’arte greca, tra le cui forme la tragedia rappresenta per lui il punto
più vicino allo spirito dionisiaco, in quanto era nata dal coro dei Satiri, il ditirambo. Essa venne poi “uccisa” con
Euripide dall’introduzione di elementi morali e intellettuali. Con
l’apparizione nel campo della filosofia di Socrate e Platone lo spirito
dionisiaco venne represso, e di qui iniziò la decadenza del popolo greco(3).
Al di là delle considerazioni estetiche e di teoria delle civiltà, è
interessante osservare come già di qui si possa introdurre il tema della presenza dell’Oriente in Nietzsche,
sotto due aspetti:
F Nietzsche scrive La nascita della tragedia nel 1872, riprendendo il pensiero di
Schopenhauer, il quale aveva pubblicato il Mondo
nel 1818 e aveva ottenuto a partire dal 1851 il riconoscimento che tanto
desiderava. Pertanto Nietzsche aveva potuto conoscere bene la profonda
influenza del pensiero indiano nel lavoro del suo predecessore.
F Inoltre si è anche visto, parlando della
filosofia greca(4), che la figura di Dioniso e i culti dell’Orfismo, di origine
non greca ma tracia, sono ricollegabili al dio indiano śiva e al suo culto,
lo śivaismo. Dieci anni dopo La nascita della tragedia Nietzsche
scriverà: “Crederei solo a un dio che
sapesse danzare”(5), e lo farà riferendosi proprio alle danze del culto
dionisiaco. Ma ci piace pensare che all’immagine di un dio che danza non sia
estranea quella di śiva Nataraja, Signore della Danza
intesa come manifestazione dell’energia ritmica primordiale da cui origina il
Cosmo.
Il nesso tra Dioniso e l’India era comunque ben noto a Nietzsche, che
così esorta gli Europei ad andare al di là di Socrate: “Coronatevi di edera, brandite il tirso(6), e non vi meravigliate che la tigre e la pantera vengano
carezzevolmente ad accosciarvisi ai ginocchi [..](7). Unitevi al pellegrinaggio festoso di Dioniso dall’India alla Grecia”(8).
Dopo di allora l’India continua ad essere oggetto dell’interesse di
Nietzsche, che pone un verso del Rig Veda
in epigrafe alla sua Aurora del 1881: “Vi sono tante aurore che ancora devono
risplendere”(9).
Nella stessa opera dapprima egli mette brevemente a confronto il
Brahmanesimo e il Cristianesimo: “Esistono
ricette a seconda del senso della potenza, in primo luogo per coloro che sono
capaci di dominare se stessi e che perciò già si sentono a casa nel sentimento
della potenza: in secondo luogo per coloro cui manca proprio questo. Degli
uomini della prima specie si è preoccupato il brahmanesimo, di quelli della
seconda il cristianesimo”(10).
E successivamente propone l’India brahmanica quale modello per
l’Europa: “Per quanto progredita possa
essere, l'Europa nelle cose religiose non ha ancora raggiunto la liberale
ingenuità degli antichi brahmani, segno questo che, quattro millenni or sono,
in India si pensava di più e si era soliti trasmettere il piacere di pensare,
più di quanto non accada oggi tra noi. Quei brahmani infatti credevano in primo
luogo che i sacerdoti fossero più potenti degli dèi, e in secondo luogo che le
usanze fossero ciò in cui si forma la potenza dei sacerdoti: perciò i loro
poeti non si stancarono di magnificare le usanze (preghiere, cerimonie,
sacrifici, canti, ritmi) come le vere donatrici di ogni bene [..].
Quando finalmente anche tutti gli usi e
costumi, sui quali poggia la potenza degli dèi, dei sacerdoti e dei redentori,
saranno distrutti, quando dunque la morale nel suo antico significato sarà
morta: allora verrà ‑ sì, cosa verrà allora? Non tentiamo di indovinare(11),
piuttosto stiamo attenti, in primo luogo, al fatto che l'Europa ripeta ciò che
in India, tra il popolo dei pensatori, fu già compiuto alcuni millenni orsono
come imperativo del pensiero!”(12)
Un testo fondamentale dell’antica civiltà indiana che Nietzsche studia
ed apprezza è il Codice di Manu (o Istituzioni di Manu, in sanscrito Manu-smriti(13) o Manava Dharma-shastra), tradotto da William Jones e pubblicato in
tedesco già nel 1797. Si tratta di una raccolta di norme legislative forse
risalente al 1250 a.C., attribuita al mitico Manu(14), progenitore del genere umano e fondatore del dharma, l’ordinamento morale e sociale.
Il testo, diviso in 12 libri, è essenzialmente “un codice etico, che esalta i costumi e le convenzioni in un momento
nel quale incominciavano a essere interiormente minati e in cui l’allentamento
della dottrina tradizionale stava attenuando l’influenza del dogma e
dell’autorità”(15).
Vi si ritrovano le norme relative ai rapporti all’interno delle famiglie,
al sistema delle caste, ai quattro stadi della vita umana – dallo studente al
padre di famiglia, allo stadio del ritiro a quello della rinuncia a tutto –
nonché la dettagliata descrizione dei quattro Yuga, le ere cosmiche, che è alla base della concezione ciclica del
tempo tipica delle culture tradizionali non solo indiane(16). E che ha forse fornito a Nietzsche i
presupposti per l’elaborazione della nozione di eterno ritorno.
Il Codice diviene per
Nietzsche un importante strumento nella sua polemica contro il Cristianesimo.
Nel Crepuscolo
degli idoli (1888) ne cita un passo sul sistema castale, che gli fa
dire: “Si tira un sospiro nell’uscire
dall’atmosfera infetta e carceraria del cristianesimo per entrare in questo
mondo più sano, più elevato, più vasto. Quanto è miserabile il Nuovo Testamento
a confronto con Manu, che cattivo odore è il suo!”(17)
E nell’Anticristo (anch’esso del 1888) conferma così la sua lettura
del Codice: “un’opera incomparabilmente spirituale e superiore, al punto che il solo
nominarla assieme alla Bibbia sarebbe un peccato contro lo spirito. S’indovina
subito che ha una vera filosofia dietro di sé, in sé, non soltanto un ebraismo
maleodorante intriso di rabbinismo e superstizione. Offre qualcosa persino agli
psicologi più esigenti. Senza dimenticare la cosa principale, ciò che lo
distingue da ogni Bibbia: è lo strumento tramite il quale le classi nobili, i
filosofi e i guerrieri, mantengono il controllo sulla moltitudine; valori
nobili ovunque, un senso di perfezione, un’affermazione della vita, un piacere
trionfante di sé e della vita; il sole risplende su tutto il libro. Tutti i
temi sui quali il cristianesimo riversa la sua inesauribile volgarità, per
esempio la procreazione, la donna, il matrimonio, in esso vengono trattati con
serietà, rispetto, amore e fiducia. [..] Non conosco alcun libro nel quale si
dicono alle donne tante cose tenere e buone come nel codice di Manu; questi
vecchi e santi dalla barba grigia possiedono un modo di essere gentili nei
confronti delle donne che forse è insuperato.”(18).
E ancora: “Si coglie in
flagrante l’empietà dei mezzi cristiani, se si paragonano i fini cristiani con
quelli del codice di Manu, se si illumina con luce viva questo grandissimo
contrasto di fini. Il critico del cristianesimo non può esimersi dal compito di
rendere disprezzabile il cristianesimo. Un codice come quello di Manu nasce
come tutti i buoni codici: riassume l’esperienza, la prudenza e la morale
sperimentale di lunghi secoli, conclude, non crea nulla di più”(19).
1) In: G. Pasqualotto, Il Tao della filosofia,
Ed. Pratiche, pag. 113. D’altra parte, nelle righe successive l’A. riconosce
che “Nietzsche non solo non poteva
conoscere i testi del buddhismo zen – si cominciò, infatti, a tradurli in
inglese solo dopo la prima guerra mondiale – ma non poteva conoscere nemmeno
nessun lavoro di studioso europeo specificamente dedicato a questo tema”
2) G. Vattimo e G. Costa, Nietzsche, in: AA.VV., Filosofia
– Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. 5, pag. 1347
3) Cfr. id. pag. 1347 e segg.
4) http://zenvadoligure.blogspot.it/2016/11/la-filosofia-classica-antica-e-loriente.html
5) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra,
Ed. Mursia, pag. 44
6) Il bastone rituale del culto dionisiaco, che
rappresenta la forza vitale del dio che viene instillata nella vegetazione,
negli animali e negli uomini
7) Gli animali ascoltano rapiti la cetra di
Orfeo, sacerdote di Dioniso, e śiva è anche Paśupati, Signore degli animali
8) F. Nietzsche, La nascita della tragedia,
Ed. Laterza, pag. 169
9) Cit. in:
http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=228
10) F. Nietzsche, Aurora, § 65, in:
http://www.nilalienum.it/Sezioni/Nietzsche/Opere/AUR.html
11) Il testo sul web riporta “individuare”, ma verifiche su versioni
in diverse lingue portano a pensare che si tratti di un refuso, che tra l’altro
renderebbe la frase priva di senso.
12) Id., §
96
13) Smriti
= ricordo, memoria. La smriti riveste
nella tradizione indiana un’importanza secondaria rispetto alla śruti = ascolto. Ad es. i Veda e le Upanishad appartengono alla śruti
14) Manu
= uomo, dalla radice man-, pensare.
Cfr. l’inglese man e il tedesco mann
15) S. Radhakrishnan, La filosofia indiana, Ed.
Einaudi, Vol. I, pag. 534
16) Cfr. AA.VV., La civiltà indiana, Ed. UTET, pag. 76-77
17) Cit. in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=228
18) F. Nietzsche, L’Anticristo, § LVI, in:
http://www.iisbachelet.it/biblioteca/Friedrich%20Nietzsche%20-%20Anticristo.pdf
19) Id., §
LVII