A proposito dei temi trattati sovente in questo blog – la filosofia e
la pratica della filosofia, la religione e il vivere la religione, i testi “sacri”
e il loro ruolo – proponiamo alla lettura e alla meditazione due brevi pagine
tratte da un importante lavoro di Marco
Vannini, ad oggi il maggiore studioso italiano di quel fenomeno
genericamente chiamato “mistica”.
Secondo il parere di chi scrive, la riflessione sui passi citati - e sul libro nel suo complesso - non deve limitarsi alle religioni citate dall'Autore, ma va allargata a tutto il mondo della religiosità, e in particolare all'atteggiamento mentale del "credente" in relazione alla pratica della religione alla quale ritiene di "appartenere" - o che pensa gli "appartenga"...
Secondo il parere di chi scrive, la riflessione sui passi citati - e sul libro nel suo complesso - non deve limitarsi alle religioni citate dall'Autore, ma va allargata a tutto il mondo della religiosità, e in particolare all'atteggiamento mentale del "credente" in relazione alla pratica della religione alla quale ritiene di "appartenere" - o che pensa gli "appartenga"...
I passi sono tratti dal già citato volume Prego Dio che mi liberi da Dio –
La religione come verità e come menzogna, pubblicato nel 2010 da
Bompiani. Il primo è a pagina 50, il secondo a pagina 60.
Scrive Vannini:
La verità delle religioni
L'elemento di verità delle religioni, lo spirituale, è quello costituito dal platonismo.
Esso non è un sistema, da opporre ad altri sistemi, ma, come Platone stesso dice, un esercizio dell'intelligenza - anzi, di tutta l'anima - verso la verità, verso Dio. Le dottrine raccolte da Platone non sono altro che il riassunto, per così dire, di un'esperienza religiosa millenaria, certamente non solo ellenica, che si offre all'uomo non come un prodotto già confezionato, ossia qualcosa da "credere", ma come filosofia, ovvero cammino verso la verità, verso la luce.
Infatti il platonismo è innanzitutto un'esperienza della conversione. Essa non va intesa però come usualmente si fa, ovvero quale acquisizione di una credenza, ma come una radicale inversione di cammino: dall'appropriatività al distacco - dunque passando per una morte dell'ego, cioè dello psichismo naturale.
La conversione è infatti il completo rovesciamento della naturalità animale: allontanamento dal sensibile, dall'appropriazione, dalla corporeità, che è l'elemento determinato, finito, mentre il vero io è il divino in noi - l'anima, contrapposta al corpo.
Tutta l'opera di Platone ha come fine quello di indicare il modo di "farsi simile a Dio, per quanto possibile":
Non è possibile che il male scompaia. Perché è necessario che ci sia sempre qualche cosa più o meno contraria al Bene. E questa cosa non può avere la sua sede tra gli dèi, ma è necessario che circoli in mezzo alla natura mortale, in questo mondo. Perciò bisogna sforzarsi di fuggire di quaggiù il più rapidamente possibile. La fuga è il farsi simile a Dio, per quanto possibile. Questo farsi simile consiste nel diventare giusto e santo con l'aiuto della ragione [...]. E il motivo vero è questo: mai, in alcun modo, Dio è ingiusto.
In questo senso, l'opera platonica esprime la religiosità più completa e più pura mai apparsa in Occidente, dalla quale ha tratto ispirazione e alla quale ha fatto riferimento per secoli la mistica, cristiana e non solo cristiana: quel poco di spirituale che c'è nelle culture ebraica e islamica è dovuto all'ispirazione platonica (e poi, naturalmente, neo-platonica).
Riprendendo certamente un motivo pitagorico, Platone presenta la filosofia non come una professione, e nemmeno come una ricerca solo intellettuale, ma come una scelta di vita, una forma di vita che coinvolge tutto l'uomo e dà un orientamento nuovo alla sua esistenza. Il filosofare è ciò che conduce l'anima a una radicale conversione (peristrofe), volgendola dall'oscurità alla luce, dall'Ade agli dèi.
Che si tratti di una vera e propria conversione è evidente nel celebre mito della caverna, nel quale l'uomo è descritto per natura prigioniero, nell'oscurità di un antro, vittima dell'illusione per cui crede vere ombre e parvenze della realtà. Non può girare la testa verso la luce, perché non si può volgere il capo di centottanta gradi: occorre volgere tutto il corpo, tutto se stesso; la filosofia non è infatti un procedere solo della testa, dell'intelligenza, ma una svolta che implica il coinvolgimento di tutto l'essere, di tutto se stesso.
Occorre dunque sciogliersi dalle catene, liberarsi, ma ciò non si può fare da soli: bisogna dunque che qualcuno ci liberi - e in ciò gli interpreti hanno visto giustamente il riferimento alla theia moira, a una sorte divina, ovvero alla grazia - e che faticosamente si ascenda, di grado in grado, verso la luce, uscendo dalla caverna.
La falsità delle religioni
La falsità delle religioni è quella che proviene dalla Bibbia ebraica, e che da essa passa nel cristianesimo e poi nell'islamismo. L'essenza falsa, teologica, delle religioni, si appoggia infatti necessariamente sulle pretese rivelazioni, sui "libri sacri".
La menzogna è ex parte subiecti, ossia nella dichiarazione di libri come rivelati, sacri. Sotto questo aspetto, l'uomo religioso è l'uomo incapace di onestà, di verità - anzi, è il vero bestemmiatore, giacché, come diceva giustamente Cornelio Agrippa von Nettesheim, la vera, suprema bestemmia è dichiarare divino ciò che è di mano umana.
I contenuti dei libri "sacri" possono essere belli o brutti, storicamente veri oppure falsi, ma non è questo il problema. Perché la menzogna essenziale non è nel libro, ma in chi ne afferma la sacertà, ovvero nella volontà di potenza di costui. Qui Nietzsche ha visto bene: dietro la pretesa ispirazione divina c'è sempre un'affermazione di potere - del sacerdote o di altri, personale o collettiva.
Certo, si può dire che un testo è ispirato da Dio, ma questo si può dire sempre, visto che si può dire che tutto viene da Dio ed è divino, e così tutti i libri possono essere dichiarati "ispirati"; però quod dicitur de omni dicitur de nihilo, e perciò l'uomo onesto riconosce che nessun testo viene da Dio, ma solo da mano umana.
Ai nostri giorni la Bibbia fornisce alimento infinito alla letteratura, ed è ovvio che sia così, perché si tratta di una monumentale opera letteraria, capace perciò di generare a sua volta interpretazioni, commenti ecc. Il problema è quando questa letteratura, questa esercitazione retorica, viene chiamata teologia, e si dà a intendere - quel che è terribile, forse prima di tutto a se stessi - che si tratti di conoscenza di Dio, di Dio che guarda all'uomo, un tempo si diceva con il suo sguardo severo, di legislatore e di giudice; oggi, in tempi di décadence, si dice con il suo infinito amore verso di lui ("la carezza di Dio", "il sorriso di Dio" e altre simili espressioni di cattivo gusto).
Dall'assunzione dell"'ispirazione" di un testo scaturisce una sorta di ubriacatura del sentimento, euforia, esaltazione, ma scambiare tutto ciò per divino è ignobile e blasfemo. Tale sentimento è sempre a servizio dell'egoità animale, psicologica: è ciò che nega, non lascia essere lo spirito. Questa ubriacatura, in quanto priva di razionalità e intimamente fantastica (la weiliana "immaginazione che colma vuoti"), nel suo rimandare ad altro, è fuga dalla verità: tutta la realtà viene falsata, ovvero l'intelligenza non è più libera, ma strumentale, distorta, menzognera.
Da leggere, tra gli altri:
Prego Dio che mi liberi da Dio, Ed. Bompiani
All'ultimo papa, Ed. Il Saggiatore
Oltre il cristianesimo, Ed. Bompiani
Storia della mistica occidentale, Ed. Le Lettere
Si veda:
http://www.marcovannini.it/