lunedì 28 agosto 2017

Il fascismo di René Guénon secondo Gianni Riotta

In un articolo pubblicato il 20 agosto sul quotidiano La Stampa con il titolo La tentazione degli ultraconservatori: un Partito per l’America nazionalista, un giornalista italiano piuttosto noto, Gianni Riotta, si chiede tra l’altro “che conseguenze avrà sulla politica americana l’uscita dalla Casa Bianca del consigliere nazionalista del presidente Trump, l’ex ufficiale di Marina e banchiere di Wall Street Stephen Bannon, seguace del filosofo fascista Julius Evola”. 
Non hanno qui alcuna importanza né la politica di Trump né la figura di Stephen Bannon nè tantomeno le conseguenze della sua uscita dalla Casa Bianca.
È invece interessante leggere quanto scrive poco oltre Riotta: “Bannon ha redatto il discorso del giuramento di Trump, fosche tinte nazionaliste della «Carneficina americana», crisi, globalizzazione, emigrazione. In Polonia Bannon rievoca i mistici fascisti, Guénon ed Evola, sul declino della «Nostra civiltà… l’Occidente»”.  
René Guénon diviene quindi, nel pensiero di Riotta, un mistico fascista.


Non so cosa Riotta abbia letto – e capito – di Guénon, ma nemmeno questo ha una grande importanza. Le opinioni del giornalista, simili o diverse da quelle di chi scrive, non sono così importanti – come pure quelle di chi scrive, ovviamente. Sono, appunto, opinioni, doxai, ovvero gradi di conoscenza di qualità inferiore, che non sono propedeutici alla verità ma sono invece ad essa contrapposti. Evanescenti fantasmi della mente.
In realtà il pensatore francese non ha alcun bisogno di essere “difeso” dall’accusa di essere un fascista – o forse è peggio quella di essere un mistico? Probabilmente egli stesso riderebbe di entrambe.
E anche possibile che un giorno il pensiero di Gianni Riotta sarà oggetto di studio e di riflessione come ancora oggi lo è quello di Guénon (su Evola qui si tace, in mancanza di ogni informazione e lettura diretta), e non solo negli ambienti del misticismo fascista (?).
Nell’attesa di verificarlo – ma è da dire che le sbrigative sentenze e le superficiali affermazioni di molti giornalisti sono ormai prassi consolidata che più non stupisce né indigna nessuno – colgo l’occasione per proporre invece la rilettura non di un testo di Guénon, come sarebbe doveroso, bensì solo di un articolo di ben altro spessore, a firma dello storico della filosofia Franco Volpi (1952-2009), pubblicato anch’esso su La Stampa dell’11 novembre 2001 in occasione del cinquantenario della morte di Guénon.

Ha scritto Franco Volpi:

"Il filosofo che divenne musulmano

Le ultime parole che Abdel Wahed Yahia, ossia il “Servitore dell’Unico”, proferì in punto di morte furono: “El nafass khalass”, “l’anima se ne va!”, e subito dopo, da buon musulmano: “Allah è grande!”. Era quasi la mezzanotte del 7 gennaio 1951, nel pieno di un inverno troppo rigido per il Cairo. Un dispaccio dell’agenzia France Presse diede la notizia del decesso con due giorni di ritardo, facendo sapere il vero nome del defunto, quello con cui egli aveva firmato tutte le sue opere, una ventina di volumi e oltre trecento articoli: René Guénon.
Dal marzo del 1930 l’illustre pensatore francese - nato a Blois il 15 novembre 1886 - si era ritirato nella capitale egiziana, dove era vissuto e aveva lavorato per oltre un ventennio, aveva appreso alla perfezione l’arabo, si era sposato con la figlia di uno sceicco e si era convertito – lui, “l’inconvertibile” – all’islam.
Mezzo secolo è trascorso dalla sua morte. Eppure, oggi più che mai la sua scelta per l’islam e le sue riflessioni sulla crisi del mondo moderno appaiono come la premonitrice testimonianza di un destino in cui improvvisamente tutti siamo coinvolti. Il destino di una collisione tra la civiltà occidentale, caratterizzata da uno straordinario sviluppo materiale e da un corrispondente impoverimento morale e metafisico, e le civiltà che ancora conservano le vestigia di un ordinamento tradizionale. Come, appunto, quella islamica.
René Guénon dimostrò fin da giovane una non comune passione per lo spirituale e l’esoterico, ma diede prova altresì di risolutezza e autonomia di giudizio sapendosi orientare nel torbido mondo dell’occultismo della Belle Époque Si era formato alla scuola dell’abate Gombault, un tomista interessato ai “fenomeni preternaturali”, mentre Albert Leclère, suo insegnante di filosofia al liceo, vedeva nella sapienza dei presocratici un’alternativa alla decadenza dei tempi moderni. Più tardi aveva frequentato la Scuola ermetica del celebre Papus e altri gruppi iniziatici: l’ordine martinista, la Chiesa gnostica (di cui divenne vescovo con il nome di Palingenius e diresse la rivista La Gnose), la massoneria della Grande Loggia di Francia. Tutto ciò mantenendo stretti rapporti con il mondo cattolico, specialmente con Jacques Maritain, che aveva conosciuto alla Sorbona, e con la rivista Regnabit, alla quale collaborò insieme all’iconografo esoterista Louis Charbonneau-Lassay.
Il merito fondamentale che gli va riconosciuto è quello di aver fatto chiarezza nel torbido mondo dell’esoterismo grazie alla sua definizione rigorosa, dottrinale del fenomeno. Essa gli consentì di distinguerlo nettamente sia dal misticismo, da lui considerato un’attitudine spirituale passiva ed essenzialmente occidentale, sia dall’occultismo, orientato non alla conoscenza intellettuale bensì a pratiche magico-sperimentali. Forte di questa sua distinzione, indirizzò il suo furore polemico soprattutto contro la Società teosofica di Madame Blavatsky, liquidata come pseudo esoterismo, e contro le varie forme di spiritismo dell’epoca, bollate come satanica superstizione del paranormale. L’autentico esoterismo era per lui solo quello della Tradizione. Ovvero l’idea che tutte le grandi tradizioni iniziatico-religiose - l’induista, l’islamica, la taoista, e in Occidente il cattolicesimo - risalgano a un’unica grande Tradizione universale, depositaria della conoscenza metafisica pura e dei metodi dell’iniziazione e della realizzazione spirituale. Per questo, quando nel 1912 aderì all’islam facendosi iniziare al sufismo grazie alla mediazione di un singolare personaggio, il pittore svedese Ivan Aguli, Guénon non considerò questo suo passaggio come una “conversione”, bensì come un “ricongiungimento” con la Tradizione primordiale, e si proclamò in tal senso “inconvertibile”.
Tra le conseguenze più interessanti che egli deriva dall’idea di Tradizione, c’è la sua intransigente critica del mondo moderno svolta in due celebri libri: La crisi del mondo moderno(1927) e Il Regno della quantità e il segno dei tempi (1945). Guénon vi analizza le tipiche “superstizioni” prodotte dalla mentalità occidentale: la cieca fiducia nel materialismo scientifico, l’ideologia ottimistica del progresso, l’individualismo, l’anomia sociale, la ragione ridotta a razionalità strumentale che governa ormai soltanto un “regno della quantità”. Insomma, una civiltà che ha perduto i valori spirituali e metafisici ed è esposta a tendenze “contro-tradizionali” quali il diffondersi di pseudo spiritualità e false profezie. Per Guénon il mondo contemporaneo è piombato ormai nell’età oscura, il Kali-yuga della tradizione induista, caratterizzata da fenomeni di confusione, decadenza e degenerazione. Le sacre verità della Tradizione, sempre più occulte e irraggiungibili per l’umanità nel suo insieme, sarebbero accessibili soltanto a una ristretta cerchia di iniziati, ai realizzati che posseggono la “scienza sacra”. In una serie di studi, che impressionano per la vastità delle conoscenze, la profondità della dottrina e la lucidità dell’esposizione, Guénon si affannò a rintracciarne tale scienza nel corpo di simboli e conoscenze contenuto nei testi delle grandi tradizioni, nel sufismo islamico, nella metafisica speculativa, nella qabbalah e perfino in dottrine come l’aristotelismo o in un poema come la Divina commedia. E nella misteriosa figura del Re del mondo - il sovrano universale, da non confondere con il re di questo mondo - non si peritò di riconoscere l’unità originaria di sacerdozio e regalità, che dal regno sotterraneo di Agarttha irradia la sua aura. Guénon era convinto che solo l’Oriente avesse conservato i valori tradizionali, e con essi la possibilità dell’iniziazione e della realizzazione spirituale: ex Oriente lux. Nell’Occidente invece tale possibilità sarebbe stata compromessa, e solo “le più alte tradizioni occidentali, quella aristotelica e quella cattolica” ne custodirebbero ancora qualche traccia. Riteneva in particolare che la Chiesa cattolica romana, in forza della sua tradizione, e la massoneria, per il suo potenziale iniziatico, fossero le uniche istituzioni in Occidente nelle quali riporre qualche speranza. Anche quando, deluso dalla scarsa considerazione riservatagli dal mondo cattolico, passò all’islam, dal suo ritiro egiziano non smise di guardare all’accoglienza che l’Occidente riservava al suo insegnamento. Frithjof Schuon, suo allievo, fondò in Francia una setta iniziatica che a lui si ispirava, ma finì per allontanarsi dal maestro lasciandone la guida al diplomatico rumeno Michel Valsan. In seno alla massoneria francese fu istituita una loggia guénoniana, denominata la Grande Triade, ma con scarso seguito. Alla fine l’influenza maggiore venne dall’opera scritta di Guénon. La sua lucidità affascinò intelligenze come Malraux, Gide, Breton, Daumal, Paulhan, ispirò studiosi di storia delle religioni come Mircea Eliade o Ananda Coomaraswamy. In Italia fu soprattutto Julius Evola che ne recepì e ne fece conoscere il pensiero, malgrado profonde differenze nella valutazione dei contenuti tradizionali del cristianesimo e del buddhismo. Esoterista che condannava gran parte dell’esoterismo, massone che stigmatizzava senza mezzi termini la massoneria degenerata a comitato d’affari, pensatore che liquidava più o meno tutta la tradizione filosofica, a cinquant’anni dalla morte Guénon rimane uno scandalon che i flutti del dibattito contemporaneo lambiscono senza riuscire a smuovere."