In
un articolo pubblicato il 20 agosto sul quotidiano La Stampa con il titolo La
tentazione degli ultraconservatori: un Partito per l’America nazionalista,
un giornalista italiano piuttosto noto, Gianni Riotta, si chiede tra l’altro “che conseguenze avrà sulla politica
americana l’uscita dalla Casa Bianca del consigliere nazionalista del
presidente Trump, l’ex ufficiale di Marina e banchiere di Wall Street Stephen
Bannon, seguace del filosofo fascista Julius Evola”.
Non
hanno qui alcuna importanza né la politica di Trump né la figura di Stephen
Bannon nè tantomeno le conseguenze della sua uscita dalla Casa Bianca.
È
invece interessante leggere quanto scrive poco oltre Riotta: “Bannon ha redatto il discorso del giuramento
di Trump, fosche tinte nazionaliste della «Carneficina americana», crisi,
globalizzazione, emigrazione. In Polonia
Bannon rievoca i mistici fascisti, Guénon ed Evola, sul declino della
«Nostra civiltà… l’Occidente»”.
René
Guénon diviene quindi, nel pensiero di Riotta, un mistico fascista.
Non
so cosa Riotta abbia letto – e capito – di Guénon, ma nemmeno questo ha una
grande importanza. Le opinioni del giornalista, simili o diverse da quelle di
chi scrive, non sono così importanti – come pure quelle di chi scrive, ovviamente.
Sono, appunto, opinioni, doxai,
ovvero gradi di conoscenza di qualità inferiore, che non sono propedeutici alla
verità ma sono invece ad essa contrapposti. Evanescenti fantasmi della mente.
In
realtà il pensatore francese non ha alcun bisogno di essere “difeso”
dall’accusa di essere un fascista – o forse è peggio quella di essere un
mistico? Probabilmente egli stesso riderebbe di entrambe.
E
anche possibile che un giorno il pensiero di Gianni Riotta sarà oggetto di
studio e di riflessione come ancora oggi lo è quello di Guénon (su Evola qui si
tace, in mancanza di ogni informazione e lettura diretta), e non solo negli
ambienti del misticismo fascista (?).
Nell’attesa
di verificarlo – ma è da dire che le sbrigative sentenze e le superficiali
affermazioni di molti giornalisti sono ormai prassi consolidata che più non
stupisce né indigna nessuno – colgo l’occasione per proporre invece la
rilettura non di un testo di Guénon, come sarebbe doveroso, bensì solo di un
articolo di ben altro spessore, a firma dello storico della filosofia Franco
Volpi (1952-2009), pubblicato anch’esso su La
Stampa dell’11 novembre 2001 in occasione del cinquantenario della morte di
Guénon.
Ha
scritto Franco Volpi:
"Il
filosofo che divenne musulmano
Le
ultime parole che Abdel Wahed Yahia, ossia il “Servitore dell’Unico”, proferì
in punto di morte furono: “El nafass khalass”, “l’anima se ne va!”, e subito
dopo, da buon musulmano: “Allah è grande!”. Era quasi la mezzanotte del 7
gennaio 1951, nel pieno di un inverno troppo rigido per il Cairo. Un dispaccio
dell’agenzia France Presse diede la notizia del decesso con due giorni di
ritardo, facendo sapere il vero nome del defunto, quello con cui egli aveva
firmato tutte le sue opere, una ventina di volumi e oltre trecento articoli:
René Guénon.
Dal
marzo del 1930 l’illustre pensatore francese - nato a Blois il 15 novembre 1886
- si era ritirato nella capitale egiziana, dove era vissuto e aveva lavorato
per oltre un ventennio, aveva appreso alla perfezione l’arabo, si era sposato
con la figlia di uno sceicco e si era convertito – lui, “l’inconvertibile” –
all’islam.
Mezzo
secolo è trascorso dalla sua morte. Eppure, oggi più che mai la sua scelta per
l’islam e le sue riflessioni sulla crisi del mondo moderno appaiono come la
premonitrice testimonianza di un destino in cui improvvisamente tutti siamo
coinvolti. Il destino di una collisione tra la civiltà occidentale,
caratterizzata da uno straordinario sviluppo materiale e da un corrispondente
impoverimento morale e metafisico, e le civiltà che ancora conservano le
vestigia di un ordinamento tradizionale. Come, appunto, quella islamica.
René
Guénon dimostrò fin da giovane una non comune passione per lo spirituale e l’esoterico,
ma diede prova altresì di risolutezza e autonomia di giudizio sapendosi
orientare nel torbido mondo dell’occultismo della Belle Époque Si era formato
alla scuola dell’abate Gombault, un tomista interessato ai “fenomeni
preternaturali”, mentre Albert Leclère, suo insegnante di filosofia al liceo,
vedeva nella sapienza dei presocratici un’alternativa alla decadenza dei tempi
moderni. Più tardi aveva frequentato la Scuola ermetica del celebre Papus e
altri gruppi iniziatici: l’ordine martinista, la Chiesa gnostica (di cui
divenne vescovo con il nome di Palingenius e diresse la rivista La Gnose), la
massoneria della Grande Loggia di Francia. Tutto ciò mantenendo stretti
rapporti con il mondo cattolico, specialmente con Jacques Maritain, che aveva
conosciuto alla Sorbona, e con la rivista Regnabit, alla quale collaborò
insieme all’iconografo esoterista Louis Charbonneau-Lassay.
Il
merito fondamentale che gli va riconosciuto è quello di aver fatto chiarezza
nel torbido mondo dell’esoterismo grazie alla sua definizione rigorosa,
dottrinale del fenomeno. Essa gli consentì di distinguerlo nettamente sia dal
misticismo, da lui considerato un’attitudine spirituale passiva ed
essenzialmente occidentale, sia dall’occultismo, orientato non alla conoscenza
intellettuale bensì a pratiche magico-sperimentali. Forte di questa sua
distinzione, indirizzò il suo furore polemico soprattutto contro la Società
teosofica di Madame Blavatsky, liquidata come pseudo esoterismo, e contro le
varie forme di spiritismo dell’epoca, bollate come satanica superstizione del
paranormale. L’autentico esoterismo era per lui solo quello della Tradizione.
Ovvero l’idea che tutte le grandi tradizioni iniziatico-religiose - l’induista,
l’islamica, la taoista, e in Occidente il cattolicesimo - risalgano a un’unica grande
Tradizione universale, depositaria della conoscenza metafisica pura e dei
metodi dell’iniziazione e della realizzazione spirituale. Per questo, quando
nel 1912 aderì all’islam facendosi iniziare al sufismo grazie alla mediazione
di un singolare personaggio, il pittore svedese Ivan Aguli, Guénon non
considerò questo suo passaggio come una “conversione”, bensì come un “ricongiungimento”
con la Tradizione primordiale, e si proclamò in tal senso “inconvertibile”.
Tra
le conseguenze più interessanti che egli deriva dall’idea di Tradizione, c’è la
sua intransigente critica del mondo moderno svolta in due celebri libri: La
crisi del mondo moderno(1927) e Il Regno della quantità e il segno dei tempi
(1945). Guénon vi analizza le tipiche “superstizioni” prodotte dalla mentalità
occidentale: la cieca fiducia nel materialismo scientifico, l’ideologia ottimistica
del progresso, l’individualismo, l’anomia sociale, la ragione ridotta a
razionalità strumentale che governa ormai soltanto un “regno della quantità”.
Insomma, una civiltà che ha perduto i valori spirituali e metafisici ed è
esposta a tendenze “contro-tradizionali” quali il diffondersi di pseudo
spiritualità e false profezie. Per Guénon il mondo contemporaneo è piombato
ormai nell’età oscura, il Kali-yuga della tradizione induista, caratterizzata
da fenomeni di confusione, decadenza e degenerazione. Le sacre verità della
Tradizione, sempre più occulte e irraggiungibili per l’umanità nel suo insieme,
sarebbero accessibili soltanto a una ristretta cerchia di iniziati, ai
realizzati che posseggono la “scienza sacra”. In una serie di studi, che
impressionano per la vastità delle conoscenze, la profondità della dottrina e
la lucidità dell’esposizione, Guénon si affannò a rintracciarne tale scienza
nel corpo di simboli e conoscenze contenuto nei testi delle grandi tradizioni,
nel sufismo islamico, nella metafisica speculativa, nella qabbalah e perfino in
dottrine come l’aristotelismo o in un poema come la Divina commedia. E nella
misteriosa figura del Re del mondo - il sovrano universale, da non confondere
con il re di questo mondo - non si peritò di riconoscere l’unità originaria di
sacerdozio e regalità, che dal regno sotterraneo di Agarttha irradia la sua
aura. Guénon era convinto che solo l’Oriente avesse conservato i valori
tradizionali, e con essi la possibilità dell’iniziazione e della realizzazione
spirituale: ex Oriente lux. Nell’Occidente invece tale possibilità sarebbe
stata compromessa, e solo “le più alte tradizioni occidentali, quella
aristotelica e quella cattolica” ne custodirebbero ancora qualche traccia.
Riteneva in particolare che la Chiesa cattolica romana, in forza della sua
tradizione, e la massoneria, per il suo potenziale iniziatico, fossero le
uniche istituzioni in Occidente nelle quali riporre qualche speranza. Anche
quando, deluso dalla scarsa considerazione riservatagli dal mondo cattolico,
passò all’islam, dal suo ritiro egiziano non smise di guardare all’accoglienza
che l’Occidente riservava al suo insegnamento. Frithjof Schuon, suo allievo,
fondò in Francia una setta iniziatica che a lui si ispirava, ma finì per
allontanarsi dal maestro lasciandone la guida al diplomatico rumeno Michel Valsan.
In seno alla massoneria francese fu istituita una loggia guénoniana, denominata
la Grande Triade, ma con scarso seguito. Alla fine l’influenza maggiore venne
dall’opera scritta di Guénon. La sua lucidità affascinò intelligenze come
Malraux, Gide, Breton, Daumal, Paulhan, ispirò studiosi di storia delle
religioni come Mircea Eliade o Ananda Coomaraswamy. In Italia fu soprattutto
Julius Evola che ne recepì e ne fece conoscere il pensiero, malgrado profonde
differenze nella valutazione dei contenuti tradizionali del cristianesimo e del
buddhismo. Esoterista che condannava gran parte dell’esoterismo, massone che
stigmatizzava senza mezzi termini la massoneria degenerata a comitato d’affari,
pensatore che liquidava più o meno tutta la tradizione filosofica, a cinquant’anni
dalla morte Guénon rimane uno scandalon
che i flutti del dibattito contemporaneo lambiscono senza riuscire a smuovere."