Un breve testo di Sawaki
Kōdō, monaco giapponese (1880-1965), uno dei principali maestri Zen del XX
secolo, nel quale vengono impartiti alcuni insegnamenti sull’alimentazione e sul
suo significato nell’ambito della pratica del Dharma del Buddha, ma che possono
rivestire un notevole interesse per chiunque voglia portare la propria
attenzione su ogni istante e su ogni gesto della propria vita.
Il testo, pubblicato in francese nel 2012 dall’Ed. Mikan,
è stato tradotto in italiano a cura di chi gestisce il presente blog, con tutti
gli errori e le imprecisioni del caso. Ovviamente senza alcuno scopo di lucro, essendo opinione di chi scrive che i testi di Dharma dovrebbero sempre e comunque essere messi liberamente e gratuitamente a disposizione dei lettori, al di là di ogni considerazione di regole di mercato o di diritti d'autore.
Sawaki Kōdō
La
religione della sala da pranzo
Commentari al Jujikigokan, il Sutra del pasto
Indice
- Per quale motivo si mangia?
- La malattia entra attraverso la bocca
- Ricevere il proprio pasto pregando
- La vita vigile
- Non perdete il vostro sangue freddo
- Mangiare per svago
- Perdere se stessi
1. Per quale
motivo si mangia
In
generale, noi mangiamo tre volte al giorno. Per vivere, dobbiamo mangiare. Ci
sono delle persone che mangiano quattro volte al giorno, talvolta perfino
cinque.
Buddha
mangiava una sola volta al giorno. Anch’io, per tre anni, non ho mangiato che
una volta al giorno. In ogni caso, che sia una volta, due volte, cinque volte,
tutti mangiano.
Mangiare
o ricevere il proprio pasto… Riflettere su questo fatto è molto importante, se
si considera che la religione e la vita quotidiana si trovano sullo stesso
piano.
Gli
abiti, il cibo e un alloggio sono necessari all’uomo. Ci sono persone che non
hanno un tetto. Si può eventualmente affittare una casa, ma quanto al cibo, non
si può chiedere a qualcuno di mangiare al nostro posto. Dobbiamo prendere da
noi stessi il nostro pasto.
Il
Maestro Takuan fece una domanda: “Perché si mangia?”
Egli
stesso rispose: “Mangiare è il sotterfugio per far cessare la stanchezza”.
Ecco
un grande sotterfugio!
Certe
persone dicono: “Non riesco a mangiare il riso senza sashimi”. Quelli non hanno ancora conosciuto la fame. In tal caso,
finché la fame non arriva non hanno bisogno di mangiare.
Se
non avete fame, mangiare è inutile.
Talvolta
il nutrimento diventa uno svago. Oppure una consolazione. È possibile che
questo vi consoli, ma non con tutti gli alimenti è questo il caso.
In
effetti, noi dobbiamo mangiare per una missione.
Ho
detto ad una persona: “Ebbene, mio caro, voi lavorate molto.
-
è perché altrimenti non posso
mangiare.
-
Allora, perché non smettere di mangiare, e morire?”
Quella
persona rimase sconcertata.
Mangiare
per lavorare o lavorare per mangiare? È una domanda importante.
La
maggior parte delle persone lavora per mangiare. Ma in questo caso si è schiavi
della propria bocca. È una battaglia persa in partenza. Persone come quelle
sono degli animali senza coraggio. Sono spiacente, ma vi devo dire che quando
siete guidati dalla vostra bocca, siete simili a degli animali.
La
nostra missione è di dedicarci alla nostra vita di uomini. È per questo motivo
che è indispensabile mangiare.
Un
giorno, mentre ponevo la domanda: “Mangiare per lavorare o lavorare per
mangiare?”, qualcuno mi ha replicato: “Non mi è mai stata posta una tale
domanda, e per di più con una tale energia. Questo mi ha risvegliato”.
2. La malattia entra attraverso la bocca
Per
prima cosa riflettiamo su questo: “Lavorare per mangiare o mangiare per lavorare?”
Non
ci si ammala mai per non aver mangiato troppo.
Non
ho mai sentito dire: “Alla fin fine mi sono ammalato mangiando con
moderazione”. Persone così non esistono.
“Cosa
vi succede?
-
Ieri ho bevuto troppo, ho mal di testa, non riesco a dormire”.
Vi
sono molte persone come questa, obbligate a dormire con una borsa di acqua
gelata sotto la testa.
Unsui [1] – nuvole ed acqua,
questa parola si presenta bene. In realtà, i giovani monaci sono grossolani.
Quando
ero giovane, se mi davano del riso, ne potevo mangiare venti ciotole. Mi è
addirittura capitato di mangiarne ventidue.
Mangiavo
senza misura, fino a che il mio ventre diventava una gobba e finivo con
l’ammalarmi. Non ho mai avuto mal di pancia avendo mangiato in modo
ragionevole.
Mangiare
troppo ed ammalarsi è sconfortante, sconfortante nei confronti del nostro
paese, del mondo, dell’umanità, di nostra moglie, di nostro marito, dei nostri
figli, nei confronti di tutti.
Un
giorno, mentre mi trovavo in ospedale, ho assistito ad una lezione di medicina.
Il medico e i suoi studenti esaminavano un uomo che aveva un dolore allo
stomaco. Il medico infilò un tubo nella bocca del paziente e gli studenti si
avvicinarono. Il medico spiegò qualcosa e gli studenti scoppiarono a ridere.
Ho
chiesto ad uno degli studenti cosa stesse accadendo. Mi disse: “Ha mangiato
troppo grano”.
Spesso,
la malattia entra attraverso la bocca. La malattia arriva quando si mangia
troppo. La bocca è causa di infelicità. L’infelicità proviene dalla bocca.
La
religione non si limita a richieste come: “Salvatemi, per favore”. La religione
è condurre una vita il più possibile luminosa, una vita dove non c’è né testa
né croce. Che le persone vi vedano o no, che Dio vi veda o no, voi dovete
rimboccarvi le maniche con uno spirito religioso.
Anche
se mangiate da soli, dovete mangiare con uno spirito religioso. Questo è detto:
“la religione della sala da pranzo”.
3. Ricevere il
proprio pasto pregando
Un
saggio ha detto: “Dio o Buddha ci hanno concesso l’autorizzazione a vivere”.
Se
si mangia con questo spirito, non si va alla deriva.
“La
morte di un uomo come me non disturba nessuno. Ma io non riesco a non mangiare.
Gli dei, i miei amici, mia moglie, mio marito, mi offrono la possibilità di
vivere, mi offrono la possibilità di ricevere del cibo. Allora io ricevo il
cibo e vivo pregando”.
Quando
si fa gassho [2], non si possono più fare scenate. “Ora, mi permetto di
colpirvi, mia cara”. Facendo gassho,
non si possono più alzare le mani su qualcuno, si diventa calmi.
Per
il pasto, è la stessa cosa. Se nel momento di andare a tavola si è troppo
entusiasti, si mangerà troppo, si berrà troppo. Invece, se si mangia pregando,
non c’è pericolo. Questo è un modo di fare molto importante.
Nel
Sutra del pasto Jujikigokan:
Hitotsu niwa kō no tashō o hakari, kano
raisho o hakaru
“Il
nostro pasto non cade dal cielo, né scaturisce dalla terra”.
Ecco
un famoso poema del Maestro Gyokai. Monaco del buddhismo della Terra Pura – Jōdō shū, era il capo dei templi Ekō in,
Tōji in e Chion in.
Questa lampada ad olio illumina sempre
il mio comodino
Io mi rendo conto
L’olio proviene dalla fatica degli
uomini.
Leggendo
questo poema, l’imperatore dell’epoca, commosso, esclamò: “C’è nel nostro paese
un uomo ammirevole. Vorrei recitare il poema in questo modo:
Questa lampada ad olio illumina sempre
il mio comodino
Io mi rendo conto
L’olio proviene dalla fatica del mio
popolo”.
Si
riceve il proprio pasto con questo spirito: “L’olio proviene dalla fatica degli
uomini”.
Ora,
le persone fanno le schizzinose: “Ah, questo riso non è gustoso” oppure “Ah,
queste radici sono dure…”. Se non siete contenti, mi viene voglia di dirvi di
smettere di mangiare.
“Questo
manzo è un po’ duro, questa costata è un po’ grassa”. La mucca mi ha chiesto di
trasmettervi un messaggio: “Se vi lamentate tanto, non mangiateci più!”.
Lo
shogun Mito scrisse un poema a
proposito di una statua di paglia fabbricata da un vassallo. Oggi, questa
statua è stata fusa in bronzo ed è possibile acquistarne delle copie nei negozi
di souvenir.
Ogni volta che mangio
Non dimentico
Io ricevo il dono del mio popolo
Al quale non dono nulla.
Per
i samurai è la stessa cosa: il pasto
che essi ricevono proviene dai doni del popolo.
Se
osserviamo la nostra vita sociale, anche se non coltiviamo chicchi di riso, nondimeno
ne mangiamo. Anche se non tessiamo, tuttavia indossiamo degli abiti.
Non
è del tutto normale dirsi che abbiamo il diritto di mangiare perché abbiamo
pagato il nostro cibo. Se voi voleste pagare per qualche cosa, e non si volesse
vendervela, che cosa fareste?
L’anno
scorso sono andato in Cina. Ero molto seccato, perché non c’era nulla che io
potessi mangiare. Prendevo il cibo e lo portavo alla bocca, ma non entrava.
Avere
del denaro non garantisce di poter mangiare. Bisogna avere questo spirito: “Al
mattino, alla sera, quando mangiamo, non dimentichiamolo, riceviamo un dono da
persone alle quali non si dona nulla”.
Hitotsu
niwa kō no tashō o hakari, kano raisho o hakaru
“L’ho
meritato, perciò ricevo questo pasto”
“Per
ottenere una misura di riso, è necessaria una misura di sudore”.
Dal
momento in cui si piantano nella terra i germogli di riso fino a quando si
serve il riso nei piatti, ci sono cento diversi lavori da svolgere. Ogni chicco
di riso è un mucchio di duri compiti per i contadini.
E
voi osate recare offesa a tutte queste fatiche?
“Questo
riso è insipido, queste sardine sono troppo salate, non ne prendo”.
I
cefali cadono forse dal cielo? Le sardine nascono dalla terra? Assolutamente
no. È grazie alle fatiche dei pescatori e dei contadini che possiamo portare
questo cibo alle nostre bocche.
In
Occidente, anche Georges Washington ha dettato delle regole per la sala da
pranzo: “Non trattare il cibo come un oggetto di divertimento, non buttarsi sul
cibo, non chinarsi sul proprio piatto, non lamentarsi del pasto…”
In
questo modo, anche l’Occidente attribuisce molta importanza alla condizione
dello spirito nel momento di mettersi a tavola.
4. La vita
vigile
Il
secondo verso del Jujikigokan: Futatsu niwa onorega tokugyō no zen ketsu o
hakatte ku ni ōzu.
Entrando
nella sala da pranzo, dovete per prima cosa domandarvi: “Non ho fatto qualcosa
di male oggi? Non ho criticato? Non ho fatto qualcosa di nascosto?”. Dovete
fare una riflessione su voi stessi. Se avete agito male, non meritate di
ricevere tre ciotole di riso. In tal caso, toglietene una. Dovete valutarvi da
voi stessi.
“Oggi,
siccome ho risposto male a mio padre, mangerò solo due ciotole di riso”. “Oggi
ho ricevuto un pessimo voto, non mangio”. Cercate allora di astenervi.
Dovere
guardare in voi stessi: “Sono stato impeccabile oppure ho commesso degli
errori?”. Dovete riflettere in questo modo prima di ogni pasto.
Poi:
Mitsu niwa shin o fusegi toga o hanaruru
koto wa tontō o shū to su.
Questo
può essere interpretato così: “Terzo, proteggere lo spirito e allontanare
l’avidità, questa è la religione”.
La
religione è impugnare il nostro spirito con sicurezza.
Lo
spirito…
“Mostrami
un po’ il tuo spirito”, non è possibile. È rosso o bianco, rotondo o quadrato?
Forse è in piccoli pezzi. Ma in questo caso, non lo si lascia così. Bisogna
raccoglierlo e impugnarlo con fermezza, cioè fissare il nostro sguardo sulla
nostra vita quotidiana. La vera religione consiste in questo modo di fare.
Ad
un uomo che monta a cavallo:
“Dove
andate?
-
Non lo so, chiedetelo al mio cavallo”.
Non
funziona affatto così.
Le
persone dicono: “Non avevo intenzione di farlo, ma ho ceduto alla tentazione”.
È stupido. È proprio la prova che non hanno preso nel pugno il loro spirito.
“Non
ne avevo l’intenzione, ma siccome era squisito ho mangiato troppo”.
“Facevo
pure attenzione, ma alla fine ho bevuto troppo”.
“Io
non volevo, ma i miei amici mi hanno invitato, io mi sono distratto e alla fine
mi hanno portato via tutto il mio denaro”.
È
completamente stupido.
La
religione significa impugnare saldamente il nostro spirito e portarlo laddove
noi abbiamo deciso. È necessario tenere fermamente in pugno il nostro spirito
in ogni circostanza.
C’era
una volta un condannato a morte al quale era stato detto: “Porta questo piatto
pieno d’olio per una distanza di dieci chilometri. Se non ne lasci cadere una
goccia avrai salva la vita. Ma se ne lasci cadere una sola goccia, ti farò
immediatamente tagliare la testa”. Quel condannato non fece cadere la minima
goccia.
Noi
dobbiamo praticare con un tale spirito, con tutte le nostre forze, come se
attraversassimo l’oceano tenendoci ad una boa.
“Mi
potete dare la vostra boa?
-
No, non ve la darò.
-
Allora, datemene la metà.
-
No, non posso”.
La
metà di una boa non serve a nulla.
“Posso
cercare di bucare la vostra boa?
-
No, non va bene.
-
Solo un pochino…
-
Anche solo un pochino, è no”.
No,
è no. Un po’, tanto, non si può fare alcuna concessione. Se avete un solo
attimo di disattenzione, siete affogati.
5. Non perdete
il vostro sangue freddo
Una
volta, San Francesco Saverio disse mentre stava mangiando: “Tutto questo è
troppo buono. Se mangio dei cibi così squisiti, non potrò andare in paradiso”.
Mise allora della cenere sul suo piatto e lo mangiò così.
Un
giorno, mentre stava cominciando il suo pasto, il Maestro Myoe disse: “Se
mangio un piatto così, avrò dei bonno [3]”, cosicché gettò della polvere nel
piatto. Lo mangiò dicendo: “Ah, la piccola bestia nel mio ventre si è calmata”.
Un
uomo aveva sentito che il Maestro Myoe adorava il matsutake [4]. Preparò
quindi un piatto di matsutake e lo
portò al maestro: “Maestro, voi amate il matsutake,
e quindi ve ne offro, prendetene quanto volete, ve ne prego”.
Myoe
disse piangendo: “Sarebbe un onore se mi si chiamasse bonzo che ama il Dharma del Buddha, ma sarebbe vergognoso se mi si
chiamasse bonzo che ama il matsutake”.
Lo
trovo un po’ testardo. Se fossi stato io, ne avrei mangiato a volontà. Ma
questo dimostra bene che il Maestro Myoe era veramente serio nel suo proteggere
lo spirito.
Un
giorno il Maestro Nishiari si recò presso una donna che gli servì semplicemente
l’avanzo di un pasto con del riso freddo. Non era affatto buono, ed egli mangiò
il cibo a denti stretti.
La
donna gli disse: “Sono desolata, oggi non ho nulla”. Il maestro rispose: “No,
al contrario, è un buon pasto per l’igiene di vita”.
Dal
momento che non si rischia di mangiare troppo, siamo al sicuro. Non siamo
soggetti alla seduzione. Se mangiamo un pasto che non è molto buono, cerchiamo
di considerarlo come “un pasto buono per l’igiene di vita”.
Così,
dobbiamo proteggere lo spirito in ogni circostanza; non essere diretti dallo
spirito, ma proteggerlo sempre.
In
qual modo proteggerlo?
Se
trovate che un piatto sia buono e se dite a voi stessi: “Approfitto
dell’occasione, ne prendo ancora una ciotola, poi un’altra, poi ancora
un’altra”, se finite per mangiarne una ventitreesima e se la manovella dello
stomaco si rompe, tutto questo si chiama ton,
avidità.
Un
uomo impaziente dice: “Oh, questo riso è mal cotto, cos’è questa zuppa?”. E
getta via la sua ciotola e rovescia una caraffa di sakè. Questo si chiama jin,
avversione.
Un
altro si lamenta: “Ah, ancora del grano, della zuppa di miso e verdure in salamoia, ah, è sempre la stessa cosa”. Questo è
detto chi, ignoranza.
I
tre veleni [5] sono ton jin chi. La scomparsa di questi tre
veleni si chiama san zen kon, i tre
fattori del buon karma.
Ton è l’avidità.
Quando
si dice di qualcuno: “è avaro”, non si tratta solo di denaro. Quando mangia,
mangia troppo, quando gli si offre del sakè,
ne beve troppo e quando si trova nella sala da pranzo si lamenta sempre.
Se
si trova in un convitto o in un albergo, dirà sempre: “Ah, ancora sardine,
basta cefali, ancora tofu…”. È gu chi, lamentarsi.
È
sconfortante offendere il cibo che si trova nel proprio piatto. Se si dice:
“Per chi mi prendete? Non sono uno che mangia cose così cattive, che beve zuppe
così cattive…”, se ci si irrita, è shin i,
l’avversione.
È
importante non perdere il proprio sangue freddo, in uno stato in cui i tre
veleni non esistono.
Se
guardate un cibo appetitoso, il vostro cuore si eccita, segno che avete
l’abitudine di mangiare dei piatti insipidi.
Oppure
se dite: “Questo piatto non ha gusto, è insipido”, è segno che avete
l’abitudine di mangiare cibi raffinati.
Non
lamentatevi mai. Non si perde il proprio sangue freddo, quali che siano le
circostanze, che il piatto sia insipido o squisito. È ciò che è detto nel terzo
versetto: “Allontanare i tre veleni”. Questo è jinzūriki, il potere sovrannaturale.
Quando
mangiate un piatto delizioso, e dite a voi stessi: “Ah, è buono!”, voi perdete
il vostro sangue freddo, perdete jinzūriki
e mangiate troppo. Quando mangiate un piatto insipido e subito entrate in
collera, ugualmente perdete jinzūriki.
Si
perde jinzūriki quando si mangia un
piatto squisito. Si perde jinzūriki quando
si mangia un piatto insipido. Ma se si resta sempre equanimi, che il piatto sia
buono o cattivo, non si perde jinzūriki.
Jinzūriki non è una capacità come andare lontano, portati dalle
nuvole e dal vento, o come viaggiare nel tempo. Avere mal di pancia dopo aver
mangiato troppo o bevuto troppo e poi rammaricarsene prova che si perde jinzūriki.
Una
volta, il governatore Shirakawarakuō si recò a Izu per ispezionare i lavori di
protezione del litorale. Lungo la strada, fece una sosta in una piccola casa da
tè situata su una collina e lì vide una pentola che avevano messo a scaldare.
Egli disse: “L’imperatore ha già visto questa pentola ed ha composto questo
poema:
Dalla
casa sulla collina
Vedo il fumo che sale
Il mio popolo sta bene”.
Ed
egli stesso scrisse questo poema:
La pentola è come questo mondo
Preparare un pasto buono o cattivo
Questo dipende dallo spirito degli
uomini.
Un
proverbio dice: “A me, pentola, mi si bruciano le natiche tre volte al giorno
ed è la pace di questo paese. Di più, la famiglia va in rovina. Di meno, la
famiglia è isolata”. Questo significa che se la famiglia riduce il numero dei
pasti, non mantiene più i rapporti sociali.
Quindi,
la sala da pranzo è importante.
6. Mangiare per
svago
Quarto
versetto del sutra del pasto: Yotsu niwa
masani ryōyaku o koto to suru wa gyōko o ryōzen ga tame nari.
“Si
mangia il proprio pasto come se si prendesse una medicina”.
Nel
buddhismo, pasto si dice yaku,
medicina. Ji yaku, il pranzo. Hi ji yaku, la cena. Se si prende la
medicina di mezzogiorno o della sera, non si dice: “Questa medicina è
maledettamente buona, ancora una!” oppure: “è amara, ne prendo solo mezza”.
Talvolta i rimedi sono molto forti, non bisogna sbagliare la dose. È importante
misurare ciò di cui il corpo e lo stomaco hanno bisogno prima di cominciare a
mangiare. È grave sbagliare la dose. Si sbaglia la dose quando si assume il
proprio pasto come se fosse un divertimento. Non si deve mangiare con
leggerezza, non importa cosa e non importa come, altrimenti si mangia troppo
fino ad avere una gobba sul ventre.
Si
prende del bicarbonato di sodio e così si mangia per divertimento.
Quando
ero bambino, il pasto composto da zuppa di miso,
verdure e condimenti in salamoia era chiamato sanpō, i tre Tesori [6].
Il
Maestro Dogen diceva: “Dovete chiamare il riso – kome – con una formula di rispetto: o-kome [7], così come
dovete chiamare l’acqua – mizu: o-mizu. E se impartite un ordine dovete dire:
Avete l’obbligo di mondare l’o-kome,
e non: Mondate il kome”.
Quando
mangiamo il nostro pasto, dobbiamo mangiare il riso e le verdure pregando.
Anche
se si mangia un semplice botamochi [8], lo si tratta come un grande
bodhisattva. Si dice anche: “Questo grano, grande bodhisattva; questa sardina,
grande Buddha”.
Senza
questo spirito, infanghiamo noi stessi. Questo non ha alcun valore.
In
ogni caso, noi portiamo sulle nostre spalle un compito grandioso. Dobbiamo
avere la motivazione di reggerci in piedi e spalleggiare l’umanità sulla Terra.
Non dobbiamo dire: “Non serve a nulla che io viva o che io muoia”. Al
contrario, si deve dire: “è
assolutamente necessario che io viva, io sono indispensabile a questa Terra.
Che cosa diventerebbero se io non fossi più qui?”. Bisogna avere un profondo
rispetto per se stessi. Se si prova questo profondo rispetto, ci si può sentire
rammaricati per aver mangiato troppo.
Il
samurai Kusonoki Masashige diceva:
“Non voglio morire, quando penso a qual punto io vi debba la vita”.
Questo
corpo è al servizio del maestro, della società, dei propri genitori, dei propri
bambini, della propria moglie, del proprio marito. È sconfortante mangiare
troppo fino a diventare lividi, aver mal di pancia e non potersi più muovere.
Ma se non potete più muovervi perché avete troppa fame, anche questo non serve
a nulla.
Durante
la guerra russo-giapponese mi trovavo al fronte. Se avevo fame non potevo
combattere, quindi cercavo continuamente del cibo per riempire il mio stomaco.
“Cercare”?
è buffo dire così. A dire il
vero, recuperavo il cibo dei morti sul fronte.
Dicevo:
“Prendo questo cibo per il Buddha”. Raccoglievo due o tre porzioni qua e là,
poi correvo sul campo di battaglia mangiando il pane, come se si trattasse di
una medicina.
Quando
un nemico che aveva la pancia piena veniva messo in fuga, se avevo fame non lo
potevo inseguire. Per questo, dovevo ben prendere il “rimedio”.
Per
portare a termine questa missione, assumiamo del cibo per raccogliere tutte le
nostre forze. Il cibo serve a mantenere il corpo in forma. È sconfortante
quindi che il cibo possa nuocere al nostro corpo.
Né
avere una gobba sul ventre, né aver fame. Bisogna sempre avere una salute
impeccabile. È la quarta strofa del sutra del pasto: Masa ni ryōyaku o kototo suru wa gyōko o ryōzen ga tame nari.
Se
andiamo alla deriva, esprimiamo un giudizio sul cibo. È perché diciamo
“squisito” o “insipido”, che nuoce a questo corpo, che pure deve compiere una
grande missione.
Ho
già detto: “Si perde la tranquillità dello spirito”, ma questa volta: “Si perde
la tranquillità del corpo”.
Se
mangiassi troppo e non potessi più tenere i miei corsi all’università, molti
studenti sarebbero probabilmente contenti. Ma in ogni caso, sarebbe
sconfortante. Per mantenere il corpo in buona salute, bisogna prendere il
rimedio adatto. Se al contrario mangiate troppo poco, soffrite di
sottonutrizione.
Quindi,
con giusta misura, gyōko o ryōzen ga tame:
dovete prendere il vostro pasto per curare il vostro corpo.
7. Perdere se
stessi
La
quinta strofa del sutra del pasto è: Itsutsu
ni wa jōdō no tame no yue ima kono jiki o uku.
Jōdō, è realizzare la Via. Spesso si sente dire: “Quello ha avuto successo
nella vita”, ma io non sono intelligente e non capisco cosa significhi “avere
successo nella vita”. Si dice così quando qualcuno ha ammucchiato molto denaro.
Di denaro, io non ne ho molto, ma in ogni modo mi si dà da mangiare. Quindi,
non capisco perché avere successo nella vita equivalga ad ammucchiare del
denaro.
“Ha
avuto successo nella vita” perché ha ottenuto una promozione. Ma per noi monaci
non c’è rango, non c’è grado, quindi, siccome non sono intelligente, non
capisco cosa voglia dire nemmeno questo.
In
breve, avere successo è realizzare la Via. Bisogna a tutti i costi realizzare
la Via. La Via: ma cosa bisogna fare?
Esistono
molte vie, ma nel buddismo è bodai [9]. Bodai, che cos’è? È “conoscere il proprio autentico sé”. È molto
importante conoscere autenticamente se stessi così come si è.
“Quest’uomo
possiede molto denaro ma ignora il proprio autentico sé”. È così ridicolo.
“Ha
il più alto livello sociale ma non è in contatto con se stesso”. È un uomo
insignificante.
La
Via è quindi conoscere il proprio sé autentico, tenere in pugno se stessi. Buppō, il Dharma del Buddha, è lì per
questo. Che cosa dobbiamo fare nella nostra vita? Prendere in pugno noi stessi.
Quindi,
la nostra pratica consiste in primo luogo nel non perdere noi stessi. Anche se
si mangiano dei cibi squisiti, non dobbiamo perdere noi stessi. In ogni
circostanza, prendere bene in pugno noi stessi.
Quando
prendete il vostro pasto, dite a voi stessi: “Vivrò più a lungo per compiere
una missione importante”, e questo, tenendo bene nel pugno voi stessi. Non
dovete perdervi.
Raggiungere
il proprio autentico sé si chiama tokugo,
realizzare il risveglio. “Risvegliarsi”, suona come un qualcosa di molto
difficile. Ci si immagina che rientri nel campo della magia, ma non è affatto
così. È radicare saldamente i propri piedi su questa Terra e camminare
osservando il proprio sé autentico. L’importante è il modo di camminare. Non
perdete voi stessi.
“è questo ciò che io sono!” Questo è jōdō, realizzare la Via, il risveglio.
Quale
è la missione nella nostra vita? Con quale scopo sono nato in questo mondo?
“Non
ne so nulla, ma sono nato così.
-
Allora, perché non morire?
-
Non ne so nulla, ma non mi va di morire”.
Non
bisogna essere così. Bisogna trovare la propria missione, il proprio autentico
sé.
Quando
si chiede:
“Chi
siete?
-
Non lo so”.
Quelli
sono degli ignoranti, errano in eterno nell’oscurità senza mai poter vedere il
sole. Sono contenti di ricevere molto denaro, a loro piace essere amati, ma non
essere detestati.
Se
conoscete bene voi stessi, anche se non avete denaro, dite a voi stessi con
certezza: “Non è un affare altrui, i miei piedi sono completamente sulla Terra,
la mia vita quotidiana è saldamente radicata nel mio hara” [10].
Un
proverbio dice: “Io non guadagno che una misura di riso, ma sono samurai”. Questo è bodai, questa è l’affermazione della Via.
Quindi,
nella vita, bisogna trovare il proprio autentico sé. Per questo, bisogna
prendere il proprio pasto con uno spirito di pratica, senza mai saltare un
giorno, lucidare se stessi.
Bisogna
progredire. Se non progredite ogni giorno, cadete sempre più in basso. Se non
lavorate ogni giorno, diventate stupidi. Dovete lucidare voi stessi tutti i
giorni, altrimenti vi arrugginite.
Bisogna
progredire tutti i giorni, diventare ogni giorno più grandi.
Non
dobbiamo perdere noi stessi, e tutti i giorni dobbiamo realizzare il risveglio.
Realizzare il risveglio quando si mangia il proprio pasto.
Non
perdete voi stessi in una condizione qualsiasi. Per questo, dovete continuare a
vivere nutrendovi.
Per
la realizzazione del risveglio, per conoscere il proprio autentico sé, bisogna
ricevere il rimedio chiamato “pasto”, praticare, vivere a lungo e portare a
termine la propria missione.
In
altre parole, bisogna mangiare per praticare in maniera autentica, non per
divertimento. Questa è la religione della sala da pranzo.
Note
[1] Nome
attribuito ai monaci Zen.
[2] Il saluto a
mani giunte, accompagnato da un inchino.
[3] Illusioni,
attaccamenti, oscurazioni mentali – fonti di sofferenza.
[4] Un tipo di
funghi.
[5] Ignoranza,
avversione, desiderio – le tre principali passioni secondo il Buddhismo
[6] Buddha,
Dharma (l’insegnamento) e Saṅgha (la comunità dei praticanti).
[7] Il prefisso o- in giapponese indica rispetto.
[8] Dolce di
riso.
[9] In sanscrito bodhi, Illuminazione, Risveglio.
[10] Centro di
energia vitale, nella zona del basso ventre.
K. Sawaki, La religion de la salle à manger –
Commentaires du Jujikigokan, Ed. Mikan,
K. Sawaki, Le Chant de l'éveil: Le Shōdōka commenté par un maître zen, Ed.
Albin Michel
G. Sono Fazion, Vita di Kodo Sawaki, monaco Zen, Ed.
La Spiga
G. Sono Fazion, Lo Zen di Kodo Sawaki, Ed. Ubaldini
E, in questo blog: http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-200607-kodo-sawaki.html