venerdì 23 gennaio 2015

Il buddhismo nel Milione di Marco Polo

Può essere utile, per meglio comprendere le vicenda di Marco Polo e la storia del suo incontro col Dharma del Buddha, una sintetica cronologia della diffusione del buddhismo[1], a partire dalla nascita del Buddha Shakyamuni (tutte le date sono indicative e variano a seconda degli autori):
566 – 486 a.C.              nascita e parinirvana del Buddha
326 a.C.                        Alessandro Magno attraversa il fiume Indo
250 a.C.                         introduzione del buddhismo a Sri Lanka
100 a.C. – 100 d.C.      il buddhismo arriva in Cina e in Cambogia
 150 d.C.                       introduzione del buddhismo nel Vietnam…
400                                …in Birmania e in Corea
500 – 600                      …in Giappone
600 – 700                      …in Tibet
1000                              …in Thailandia
1200 – 1300                  il buddhismo scompare dall’India
1800                              l’Occidente comincia ad interessarsi al buddhismo.

* * * *

Uno dei testi più noti della letteratura italiana – anche se spesso viene letto solo in qualche versione “per ragazzi” – è il “Milione” di Marco Polo, un’opera redatta tra il 1295 e il 1298 che riporta, tra l’altro, le prime informazioni sul buddhismo mai pervenute in Occidente.
L’autore era nato a Venezia nel 1254, e qui morì nel 1324. Fu mercante, narratore, ambasciatore, ed uno dei più famosi viaggiatori di tutti i tempi. A lui, quasi due secoli dopo, si ispirò Cristoforo Colombo nel concepire i viaggi che lo portarono in America, pur credendo di essere giunto per mare in quel Catai, la Cina, che Polo aveva raggiunto via terra viaggiando in senso opposto.
E grazie alle informazioni raccolte nella sua opera il cartografo e monaco camaldolese fra’ Mauro aveva potuto compilare il suo famoso mappamondo, intorno al 1450.
Marco apparteneva ad una famiglia di mercanti e viaggiatori veneziani: nel 1260 i fratelli Matteo e Niccolò Polo (lo zio e il padre di Marco) avevano già raggiunto la Cina (in quell’epoca dominata dai Mongoli) ed erano poi tornati in Italia nel 1269 con una ambasciata per il Papa da parte di Kubilai Khan, quinto Gran Khan[2] dei Mongoli dal 1260 e dal 1271 primo imperatore della Cina della dinastia Yuan.
Marco Polo
Dopo due anni, nel 1271, i due fratelli ripartirono per l’Oriente portando con loro il giovane Marco, in un viaggio che durò in tutto 25 anni. Attraversarono l’Armenia, giunsero poi in Persia, attraversarono il deserto del Gobi e in tre anni e mezzo arrivarono in Cina fino a Khanbaliq (“la città del Khan”), oggi Beijing (Pechino). Lì Marco ottenne la fiducia di Kubilai Khan e ne diventò consigliere e ambasciatore, rimanendo al suo servizio per oltre 15 anni. Solo nel 1295 i Polo ritornarono in patria via mare, toccando il Sud Est Asiatico, Sri Lanka e l’India, ed infine nuovamente via terra.
Poco tempo dopo, Marco rimase coinvolto in una battaglia navale con i Genovesi[3], dai quali fu fatto prigioniero. In carcere a Genova conobbe Rustichello da Pisa, scrittore, anch’egli catturato dai Genovesi (alla Meloria), e a lui dettò i ricordi del suo viaggio, le descrizioni dei luoghi, dei popoli, delle culture, degli animali e delle piante che aveva visto, ovvero tutte quelle informazioni che compongono l’opera oggi nota come “Milione”, una sorta di enciclopedia dell’Asia medioevale, così come l’aveva direttamente conosciuta il mercante di Venezia.
L’opera originaria (oggi perduta) era intitolata “Le divisement du monde”, la descrizione del mondo, ed era redatta in francese medioevale, la lingua in cui Rustichello scriveva le sue opere. Il testo – che ebbe da subito una enorme diffusione in tutto il mondo – fu successivamente rielaborato, anche con titoli diversi, tra cui “Livre de Marco Polo, citoyen de Venis, dit Million, où l’on conte les merveilles du monde”. Di qui, il titolo più famoso, il “Milione”, probabilmente originato dal nomignolo “Emilione” attribuito allo stesso Marco.
Il viaggio di Marco Polo
Ciò che in questa sede più interessa è il fatto che nel Milione sono riportate le testimonianze di uno dei primi incontri documentati tra la spiritualità occidentale, mediterranea, e quella orientale. In particolare, Marcò osservò di persona diversi aspetti della religiosità orientale e ne diede alcune interessantissime descrizioni. Fu probabilmente il primo europeo (di cui si abbia notizia) a parlare per esperienza diretta del buddhismo, anche se con i limiti che vedremo.
Forse il primo contatto con la cultura buddhista Marco lo ebbe nel Chescimur, l’attuale Kashmir. Gli abitanti di questo territorio, dal quale si accede al cuore dell’India, vengono da lui definiti “idolatri”, e questo è il termine che Polo usò per definire coloro che non erano né cristiani, né ebrei né islamici. Le religioni a lui note erano infatti le religioni abramitiche, anche nelle loro varianti, per esempio i cristiani nestoriani[4], presenti in molti dei territori dominati dai Mongoli, Cina compresa; gli “altri” erano da lui chiamati “idolatri”, anche se non dimostrava nei loro confronti disprezzo, anzi era sicuramente incuriosito ed interessato alle differenze tra le diverse tradizioni.
Nel capitolo del Milione sul Chescimur[5] distingue “certi loro romiti che abitano in eremitaggi e digiunano severamente; fanno vita castissima e si guardano con ogni diligenza dal peccare contro la loro religione” (forse adepti dello Yoga?) da altri “monaci” che vivono “in abbazie e monasteri” dove “seguono regole rigidissime e portano tonsura come i nostri domenicani e i nostri frati minori”. Che sia questo il racconto del primo incontro (documentato) della storia tra un occidentale e dei monaci buddhisti?

All’epoca del Milione il buddhismo era ormai scomparso dall’India, a causa delle invasioni islamiche, della rinascita dell’induismo e delle crisi interne del buddhismo stesso. Ma si era già diffuso in gran parte dell’Asia, in particolare nei territori toccati da Polo: la Mongolia, il Tibet, la Cina e, durante il ritorno, Sri Lanka. Il buddhismo da lui descritto, come si capirà secoli dopo, è quindi quello Mahayana (tranne a Sri Lanka), soprattutto nelle varianti del Vajrayana (un tempo chiamato Lamaismo).
I Mongoli avevano incontrato il buddhismo già durante il regno di Genghis Khan (1162 -1227), noto anche come Temujin, il creatore del più vasto impero mai esistito nella storia umana, che andava dall’Europa Orientale alla Cina. Alla sua corte erano giunti molti monaci e Lama tibetani, che avevano fatto conoscere il buddhismo all’imperatore mongolo e al suo popolo. Esso ebbe fin da subito grande fortuna presso i mongoli, anche se l’immagine del Buddha che essi si fecero era quella di un essere trascendente “cui obbedivano dei e demoni, le forze naturali e occulte e gli spiriti dei defunti: figura lontana da quella dell’Illuminato, che intese liberare l’uomo dalle passioni che lo avviliscono, dagli istinti che lo tradiscono e dal dolore che lo perseguita senza tregua dalla nascita alla morte[6].
Il Buddha stesso era conosciuto dai Mongoli con il nome di “Sagamoni Borcan” (da Shakyamuni Buddha), e lo stesso Kubilai, nelle parole di Marco Polo, lo definisce “profeta[7], al pari di Gesù, Mosè e Maometto.
Pochi decenni dopo la morte di Genghis Khan, sarà Kubilai Khan a promuovere la conversione al buddhismo dei Mongoli, affidando inoltre importanti incarichi civili e religiosi ai Lama e preparando così la strada alla nascita della figura del Dalai Lama e del suo potere temporale e religioso sul Tibet, che terminerà con l’invasione cinese del secolo scorso.
Kubilai Khan

Quando Polo parla di Kubilai Khan e del suo regno, nomina più volte i “Bacsi”, ovvero i Lama tibetani, che esercitavano una notevole influenza presso la corte del Khan. Dalle descrizioni esce una raffigurazione del buddhismo come di una pratica molto più vicina alla magia e all’astrologia (in un passo sono definiti “i sapienti astrologi”) che alla spiritualità: ad esempio, quando il tempo peggiora, il Khan chiama questi “sapienti incantatori che, con la loro forza d’incantamento, allontanano dal cielo ogni nube[8]. Sono chiamati Tebet o Chesmur, per il loro paese d’origine (il Tibet e il Kashmir, evidentemente), oppure, come già detto, Bacsi. Sono descritti come persone molto sporche e privi di vergogna, addirittura dediti talvolta al cannibalismo. Con le loro arti magiche riescono a spostare oggetti, e durante i pasti “fanno sì che le coppe colme si sollevino da terra senza che nessuno le tocchi e vadano a posarsi davanti al Gran Khan. Egli beve e le coppe ritornano vuote al loro posto[9].
Nei paragrafi dedicati al Tebet, il Tibet, che Polo ha toccato durante il soggiorno alla corte del Khan, i Tibetani sono descritti come “i più sapienti incantatori e i migliori astrologi di tutte le province circostanti e fanno i più diabolici incantesimi e i più prodigiosi a vedersi e a dirsi, tutto per arte del demonio, cose che non possiamo raccontare nel nostro libro perché spaventerebbero la gente[10].
I Bacsi, cioè i Lama tibetani, adorano degli idoli – purtroppo Polo non descrive mai l’iconografia buddhista – ai quali offrono montoni, incenso, aloe e altro, in cambio della loro protezione sui raccolti e sul bestiame. Il tono della descrizione cambia un poco quando si parla dei monasteri: “E vi sono monasteri ed abbazie vasti come piccole città dove vivono più di duemila monaci che vestono più decentemente degli altri, hanno la barba rasa e il capo raso. Fanno ai loro idoli grandissimi onori con luminarie e canti e raramente si può sentirne e vederne di simili. Tra i Bacsi di cui parliamo ve ne sono alcuni che possono prendere moglie secondo le regole del loro ordine religioso[11].
Molto interessante è un’annotazione in merito alla generosità, una delle pratiche fondamentali nel buddhismo (dana, il dono): prima di conoscere “la legge degli idolatri”, ovvero il Dharma, i Mongoli – dice Polo – non facevano mai elemosine, anzi i poveri erano oggetto di emarginazione. “Ma poi i Bacsi, ovvero i sapienti degli idolatri, convinsero il Gran Khan che l’elemosina è un’opera buona e che gli idoli se ne rallegrerebbero molto; e da allora il Gran Signore provvede ai poveri come vi ho detto[12], cioè con distribuzioni quotidiane di riso, miglio e altri generi alimentari a favore dei bisognosi.
Ugualmente significativo l’accenno alla legge del karma e alla rinascita: “L'anima, per loro [i Mongoli], è im­mortale in questo modo: pensano che appena muore l'uomo entra in un altro corpo e, secondo che in vita l'uomo si sia portato onestamen­te o male, procede di bene in meglio o di male in peggio: un povero, che si sia portato bene, rinascerà dopo morto da una gentildonna e sa­rà gentiluomo; e poi da una signora, e sarà signore; e cosi, sempre ascendendo finché sarà assunto in Dio. Se invece avrà vissuto male, essendo figlio di un gentiluomo rinascerà da un contadino, e da un contadino scenderà in un cane, discendendo sempre a vita più vile[13].
L’ultima e più lunga notazione sul buddhismo la si trova verso la fine dell’opera, nel cap. CLXXIX, quando Polo torna a parlare dell’isola di Sri Lanka, da lui chiamata “Seilan” (fino al 1972 si chiamava infatti Ceylon), che toccò durante il viaggio di ritorno in Occidente.
Vale la pena di riportare per intero le sue parole:
Abbiamo parlato delle usanze di questi idolatri; adesso vi rac­conteremo una bella storia che avevamo dimenticata intorno all'isola di Seilan; ed è una storia che vi stupirà molto.
Seilan, come ho detto già in questo libro, è una grande isola. Quest'isola ha una montagna molto alta, dalle pareti cosi scoscese che nessuno potrebbe salirvi se non nella maniera che vi dirò: dall'alto del­la montagna pendono molte catene di ferro congegnate e fissate in tal maniera che gli uomini possono arrampicarsi aiutandosi con le catene fino al sommo della montagna. Dicono che lassù ci sia il sepolcro di Adamo nostro progenitore. Dicono cosi i saraceni: gli idolatri invece dicono che è la tomba di Sagamoni Borcan.
Questo Sagamoni fu il primo uomo che sia stato fatto idolo. Perché secondo la leggenda è stato l'uomo migliore che abbia mai vis­suto: e fu il primo che abbiano venerato come santo, e il primo idolo che abbiano avuto.
Era figlio di un gran re ricco e potente ed era di tale santa vita che non volle occuparsi mai di nessuna cosa mondana né diventare re. Il padre, quando vide che suo figlio non voleva diventare re né voleva interessarsi a nessuna cosa mondana, fu preso da gran collera: gli fece grandi offerte, gli disse che voleva incoronarlo e lasciarlo regnare co­me gli piacesse: avrebbe abdicato, non avrebbe più comandato lascian­do al figlio ogni potestà. Il figlio rispose di non voler niente. E quando il padre fu certo che non voleva in nessun modo la signoria, si addolo­rò così profondamente che quasi ne morì; e si può capire, perché ave­va questo figlio solo e non sapeva a chi lasciare il trono.
Il re allora pensò di agire in questo modo: decise di fare una co­sa che secondo lui avrebbe piegato volentieri il figlio ai piaceri terreni e che gli avrebbe fatto prendere regno e corona. Lo fece alloggiare in un palazzo bellissimo con trentamila fanciulle belle e attraenti per servir­lo. E nessun uomo osava entrare là dentro; soltanto le fanciulle erano con lui, lo mettevano a letto, gli preparavano la tavola, e gli facevano sempre compagnia. Cantavano e ballavano alla sua presenza e cerca­vano di divertirlo il più possibile secondo il comando del re. Ma nessu­na poté far sì che il giovane si lasciasse sedurre dalle cose amorose, an­zi sembrava sempre più risolutamente casto. E faceva una vita molto austera secondo le loro usanze.
Dovete sapere che il giovane era cresciuto con tanta delicatezza che non aveva mai messo piede fuori dal palazzo, e non aveva mai vi­sto un morto, né incontrato nessuno che non fosse sano nelle membra. Il padre non permetteva che gli apparisse davanti un uomo vecchio o infelice. Avvenne che un giorno il giovinetto, cavalcando per la via, vedesse un uomo morto e restasse stupefatto non avendone mai visti: domandò subito a quelli del suo seguito che cosa fosse: e quelli rispo­sero che era un morto.
“Come – disse il principe – allora tutti gli uomini muoiono?”
“Certo, tutti” gli risposero.
Il giovane non disse altro e cavalcava pensoso. E dopo aver ca­valcato a lungo incontrò un uomo molto vecchio che non poteva cam­minare e non aveva denti in bocca perché gli erano caduti tutti per la sua gran vecchiaia.
Quando il figlio del re vide il vecchio domandò chi fosse e per­ché non poteva camminare. Gli fu risposto che per vecchiaia non pote­va camminare e che per vecchiaia aveva perduto i denti. Intese a fondo queste cose, del morto e del vecchio, il figlio del re tornò al palazzo e disse che non voleva più stare in questo tristissimo mondo ma sarebbe andato a cercare colui che non muore mai e che lo aveva creato. La­sciò dunque il palazzo di suo padre e se ne andò su monti altissimi e dirupati e visse là tutta la sua vita austeramente e castamente facendo molta astinenza. E certo se fosse stato cristiano sarebbe stato un gran­de santo in compagnia di Nostro Signore Gesù Cristo.
Quando il figlio del re morì, il suo corpo fu riportato al padre; ed è inutile narrare quale angustiato dolore provasse il vecchio re nel veder morto colui che amava più di se stesso. Indicibile fu il suo pianto; poi fece fare una statua a sua immagine tutta d’oro e di pietre preziose e lo fece onorare dai sudditi come un dio. Dissero di lui che morì ottantaquattro volte e tutte le volte reincarnandosi in un animale: la prima volta in un bue, poi in un cavallo, poi in un cane: all’ottantaquattresima volta dicono che morì e divenne dio. Per gli idolatri è lui il più gran dio che abbiano, il primo, dal quale discesero poi gli altri. E ciò accadde nell'isola di Seilan, in India.
Vi ho raccontato del primo idolo. E aggiungo che gli idolatri vengono da molto lontano in pellegrinaggio come i cristiani vanno a San Giacomo di Compostella. Essi dicono che la tomba che si trova su quella montagna sarebbe del figlio del re di cui abbiamo parlato; i denti, i capelli e la scodella che vi sono conservati sarebbero di lui, di questo Sagamoni Borcan che nella nostra lingua vorrebbe dire Sagamoni il Santo. I saraceni, invece, che anche loro vanno in pellegrinag­gio a quella tomba, affermano che quello è il sepolcro di Adamo nostro progenitore e che suoi sono i denti, i capelli e la scodella che vi si conservano.
Ho raccontato cosi come gli idolatri dicono che la tomba è del figlio del re loro primo idolo e loro primo dio, e i saraceni dicono che è di Adamo nostro primo padre; ma Dio sa chi è e chi è stato. Per no­stro conto non crediamo che le reliquie siano di Adamo perché la Sa­cra Scrittura disse che è stato sepolto in un’altra parte del mondo.
Avvenne ora che il Gran Kan sapesse che nella montagna di Sei­lan si diceva essere il sepolcro di Adamo, e che vi si trovavano i suoi denti, i capelli e la sua scodella. Decise che doveva avere lui queste co­se preziose e mandò subito una grande ambasceria: e ciò avvenne l'an­no 1284. Vi posso assicurare che i messaggeri del Gran Kan con un se­guito numeroso si misero in via e viaggiarono tanto per terra e per ma­re che arrivarono infine all'isola di Seilan. Andarono dal re e tanto fe­cero che riuscirono ad ottenere i due denti mascellari che erano grossi e lunghi; e i capelli; e la scodella. Questa era bellissima, di porfido ver­de. Ottenute queste cose i messaggeri tornarono dal Gran Kan e quan­do furono vicini alla città di Cambaluc dove egli soggiornava gli fece­ro sapere che portavano ciò che erano andati a prendere. Il Gran Kan comandò subito che tutte le sue genti, religiosi e non religiosi, andasse­ro in corteo a incontrare le reliquie credute del padre Adamo. E per concludere vi dirò che tutta Cambaluc andò incontro alle reliquie e i religiosi le presero in consegna con gran gioia festa e venerazione. Quei religiosi trovarono nelle loro scritture che la scodella di porfido verde aveva questa proprietà: mettendovi vivande per un uomo si sfa­mavano cinque uomini. E il Gran Kan aveva fatto fare la prova e disse che quella era la verità.
In questo modo ebbe il Gran Kan le credute reliquie di Adamo e non si può dire che non gli siano costate[14].

Al di là del racconto sulla vita del Buddha, che riporta dei particolari nuovi rispetto a quanto comunemente tramandato (ad es. il fatto che il padre fosse ancora vivo al momento della morte del Buddha), e della “disputa” sulle reliquie[15], due sono i punti di maggior interesse in questo brano:
1 – Polo parla del Buddha come del “primo uomo che sia stato fatto idolo”, “l’uomo migliore che abbia mai vissuto”. Egli ha cioè correttamente compreso un punto essenziale del buddhismo: Sagamoni era un uomo come tutti, non una divinità o un essere trascendente, anche se col tempo è stato divinizzato ed è divenuto oggetto di venerazione (un “oggetto”, appunto), al di là proprio dei suoi stessi insegnamenti.
Questo significa che la via della liberazione dalla sofferenza proposta dal Buddha è universale e non è riservata a uomini o donne con qualità speciali o attributi “divini”.
2 – Afferma poi che se il Buddha “fosse stato cristiano sarebbe stato un grande santo in compagnia di Nostro Signore Gesù Cristo”. Questo, oltre a costituire un esplicito riconoscimento delle qualità del Buddha e della “idolatria” buddhista, ci dice che Marco Polo, giovane mercante veneziano dell’Italia medioevale, era persona di grande sensibilità e apertura mentale – e ci dice anche che lo stesso Medio Evo non era poi così “oscuro” come è stato raccontato dal Rinascimento in poi[16]!

Per concludere, è fin troppo facile parlare oggi dei limiti della narrazione di Marco Polo a proposito del buddhismo – e non solo di questo. Effettivamente ne ha descritto soprattutto gli aspetti devozionali, tipici della religiosità “popolare”: le preghiere e le offerte agli “idoli”, le elemosine. Ha sottolineato elementi che oggi definiremmo “superstiziosi”: le pratiche magiche dei Lama, gli oroscopi, le divinazioni. Al più, si è soffermato sulla dimensione etica del buddhismo – certo di assoluta rilevanza – ed infine sulla biografia leggendaria di Sagamoni Borcan.
Non ci viene detto nulla sul senso profondo dei suoi insegnamenti, sulla liberazione dalla sofferenza, il Nirvana, né sui testi, i sutra, che in quel tempo erano già stati raccolti e in buona parte tradotti in Cina, in Tibet, a Sri Lanka. Quindi, nulla ci è stato da lui riportato a proposito della filosofia del buddhismo, della pratica della meditazione, della vacuità... Anche la rinascita ha dal suo punto di vista un significato di crescita “sociale”, che vede come termine ultimo la fusione con la “divinità” anziché la definitiva liberazione dall’esistenza ciclica condizionata.
Il monastero di Gandan in Mongolia
Come scrive M.A. Falà, Polo non è riuscito “a distinguere, al di sotto del fogliame di culti, riti e superstizioni, il vero tronco dell’albero dell’Illuminazione[17], ed effettivamente “il suo quadro delle religioni asiatiche è piuttosto confuso[18].
Ma, oltre a riconoscere, come già si è fatto, l’intelligenza curiosa di quello che, non dimentichiamo, è stato innanzitutto un abile e coraggioso mercante e viaggiatore cristiano del 1200 (e proprio il buddhismo ci insegna che la percezione della realtà è sempre condizionata, anche dai nostri ruoli sociali), è da dire anche che molto probabilmente il buddhismo che Polo ha conosciuto era proprio quello che ha descritto: un eterogeneo insieme di culti popolari, “contaminati” da pratiche tradizionali locali (il taoismo in Cina, il Bӧn in Tibet ecc.); riti e cerimoniali che da un lato potevano – e possono – soddisfare certi elementari bisogni umani, ma dall’altro possono prestarsi ad usi anche “politici”, di formazione di consenso e di controllo sociale.
Forse, come si evince in un paio di annotazioni, Polo aveva compreso che dietro le mura dei monasteri c’era qualcosa d’altro rispetto a ciò che vedeva nei templi, tra la gente, o alla corte del Khan. Non è andato a vedere, forse non ne ha sentito abbastanza il bisogno. O non gli è stato permesso di farlo. O forse – ma questa è solo fantasia – lo ha fatto, ma non ce lo ha raccontato…






[1] La cronologia qui riportata è tratta dal volume: D. Keown, Buddhismo, Ed. Einaudi pagg. 137-138
[2] Il titolo corrisponde a quello di “Imperatore”
[3] Forse la battaglia di Curzola, in Croazia
[4] Ovvero seguaci di Nestorio, patriarca di Costantinopoli deposto nel 431 in quanto sostenitore delle due distinte nature di Gesù, umana e divina (per cui Maria è Madre di Cristo, ma non Madre di Dio)
[5] Tutte le citazioni sono tratte da: Marco Polo, Il Milione, Ed. CDE su lic. Ed. ERI, pagg. 50-51. Questa edizione del Milione è la “traduzione” in italiano, ad opera della scrittrice Maria Bellonci (1902-1986), del Codice 1116, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi
[6] M.A. Falà, Il Buddha di Marco Polo, in: Paramita n. 6/1983, pag. 28
[7] Il Milione, pag. 81
[8] Pag. 76
[9] Pag. 77
[10] Pag. 124
[11] Pag. 77
[12] Pag. 114
[13] Pag. 116
[14] Pagg. 196/198
[15] Tutt’oggi a Sri Lanka, nella città di Kandy, si trova un tempio nel quale è conservata la reliquia del sacro dente del Buddha, oggetto di venerazione e di pellegrinaggi da tutto il mondo buddhista. E ancora a Sri Lanka si trova un monte, lo Sri Pada (Piede sacro), noto anche come Adam’s Peak, anch’esso meta di pellegrinaggi per cristiani, musulmani, buddhisti e induisti, in quanto vi si trova l’impronta di un piede (lunga 180 cm.), che, a seconda di chi la venera, è considerata l’impronta di Adamo, del dio Shiva o del Buddha.
[16] Si noti che mentre gli altri periodi storici sono stati definiti con termini specifici (età antica, moderna, contemporanea ecc.), il Medio Evo è semplicemente definito come un periodo intermedio, è privo di una propria connotazione temporale
[17] M.A. Falà, Il Buddha di Marco Polo, pag. 29
[18] Pag. 28

sabato 10 gennaio 2015

Marco Polo e la setta degli Assassini


Può essere interessante, in questi giorni in cui nei quali non si comprende se la Ragione dorme di un sonno talmente profondo da aver permesso il risveglio di tremendi demoni, oppure se sia così ben desta da averne essa stessa creato di ancora peggiori, rileggere un passo di un vecchio libro, il “Milione”, che parla di un Oriente tanto leggendario quanto reale, visto con gli occhi di un mercante cristiano nato alle porte proprio di quell’Oriente, il veneziano Marco Polo.
Qui si racconta la storia del Veglio della Montagna, il mitico capo degli “Assassini” (forse così chiamati a causa dell’hashish che erano soliti consumare), una setta ismailita nel seno dell’Islam sciita, e in particolare dei suoi metodi di addestramento ideologico.
Una storia che risale ad almeno otto secoli fa, ma che non sembra voler finire.

Racconta Marco Polo al suo compagno di cella Rustichello da Pisa, e a tutti noi:
Una ipotetica immagine del Veglio della Montagna

"Alla sua corte poi il Veglio teneva tutti i giovani del paese dai dodici ai vent'anni, quelli, però, che mostravano avere attitudine al maneggio delle armi. Tutti costoro sapevano per averlo sentito dire che il Paradiso promesso da Maometto era fatto nel modo che vi ho detto e vi credevano davvero.
Sentite adesso. Il Veglio faceva entrare questi giovani nel giardi­no a gruppi di quattro o di dieci o di venti per volta; e faceva cosi: or­dinava che fossero preparate per loro certe bevande che li addormen­tavano di colpo; poi, cosi addormentati, li faceva prendere e portare in quel giardino dove li risvegliavano.
Al risveglio, trovandosi nelle delizie di quel giardino e vedendo tutto ciò che vi ho detto, i giovani credevano davvero d'essere in Para­diso. Donne e fanciulle stavano in loro compagnia suonando e cantan­do molto allegramente; e con esse si dilettavano quanto volevano. Sic­ché i giovani avevano tutto ciò che desideravano e per nulla al mondo avrebbero lasciato quel Paradiso.
Il Veglio teneva ricca e splendida corte e faceva vita fastosa dan­do da credere a quella gente semplice della montagna di essere un pro­feta; ed essi lo credevano.
Quando il Veglio voleva mandare un suo inviato ad uccidere qualcuno ordinava che ad un certo numero di giovani nel giardino fos­se data la bevanda del sonno; e appena addormentati li faceva portare nel suo palazzo. I giovani destandosi e trovandosi nel castello o nel pa­lazzo del Veglio, si meravigliavano molto e non erano affatto contenti. Andavano alla sua presenza e si inginocchiavano ai suoi piedi poiché lo credevano un grande profeta. Il Veglio domandava loro da dove ve­nissero ed essi rispondevano:
— Dal Paradiso, per grazia vostra.
E assicuravano che davvero esiste il Paradiso promesso da Mao­metto ai loro avi, enumerando tutte le delizie che vi si trovavano. Gli altri giovani che non c'erano stati ardevano dal desiderio di andare in Paradiso, avrebbero voluto morire per poterci andare e ardentemente speravano che venisse presto quel giorno.
Se il Veglio dunque voleva far uccidere un uomo importante, metteva alla prova i suoi assassini e per scegliere tra loro i più bravi ne mandava un buon numero non troppo lontano nelle province confi­nanti ordinando loro di uccidere un uomo. Immediatamente essi parti­vano, uccidevano la persona com'era stato loro comandato dal Signo­re e ritornavano alla corte: ritornavano quelli che potevano, perché qualcuno di essi ci rimetteva la vita. Quelli che scampavano, tornati dal Veglio gli annunciavano di aver compiuto la loro missione e il Veglio faceva loro grandi accoglienze. Egli ben sapeva chi era stato il più bravo nell'assalto perché dietro ognuno dei giovani mandava un suo inviato che gli riferiva chi fosse il più coraggioso omicida.
Così il Veglio, deciso a far uccidere un uomo importante o qual­che altra persona, sapeva su chi poteva contare per il delitto. Poteva mandare i giovani dove voleva e diceva loro che li mandava per farli tor­nare presto in Paradiso. Perché, andati ad uccidere quella persona, in caso di morte, in Paradiso ci sarebbero andati subito. Gli assassini a questo discorso si allietavano più di ogni altra cosa al mondo: partivano e facevano tutto ciò che era stato loro comandato. E cosi alla morte nes­suno sfuggiva secondo il volere del Veglio della Montagna al quale molti re e baroni pagavano un tributo e mostravano amicizia per timore di es­sere uccisi. E ciò avveniva perché gli altri erano in disaccordo fra loro e non erano riuniti sotto uno stesso dominio".

Il testo è stato ripreso da:
Marco Polo, Il Milione, Ed. CDE su lic. ERI, nella versione del Codice 1116 tradotto da Maria Bellonci.

I versi di Tsanyan Gyatso, VI Dalai Lama del Tibet


Come noto, nel buddhismo non esiste un unico “rappresentante” spirituale di tutte le tradizioni nelle loro differenziazioni storiche e geografiche.
Come ha scritto il monaco zen Yushin Marassi, “il buddhismo non ha mai avuto autorità centrali, gerarchie curiali o strutture rigide e dove queste sono comparse, nelle varie scuole nazionali, il loro ruolo è del tutto marginale se non esterno alla tradizione buddhista intesa come religione, ovvero come via di salvezza”.
Infatti, anche l’appellativo, attribuito da molti occidentali al Dalai Lama, di “Sua Santità” (His Holiness, H.H.), che immediatamente rimanda alla figura del Papa, non corrisponde, né linguisticamente né semanticamente, a quello comunemente usato dai Tibetani, “Kundun”, traducibile con “La Presenza”. Può anzi contribuire ad ingenerare la falsa convinzione che il Dalai Lama in qualche modo “rappresenti” tutti i buddhisti nel mondo (fermo restando che l’attuale Dalai Lama è – quasi –unanimemente riconosciuto da tutti i buddhisti come uno dei grandi Maestri spirituali contemporanei).
Inoltre, le modalità con cui viene scelto il Dalai Lama sono molto diverse da quelle con cui è nominato il Pontefice, Vescovo di Roma e Vicario di Cristo (e tuttora capo politico di uno Stato indipendente), che è sempre il risultato di una elezione, alla quale, a seconda dell’epoca storica, hanno partecipato il popolo romano e i vescovi, fino ad arrivare alla forma ancora oggi vigente della votazione segreta cui partecipano i Cardinali riuniti in Conclave.

La tradizione tibetana ebbe inizio nel XII sec., quindi quattro/cinque secoli dopo che il buddhismo si era diffuso in quelle terre. Un Lama (traduzione tibetana del sanscrito guru, maestro spirituale) della scuola Kagyu prima di morire aveva indicato ad un discepolo le circostanze in cui la sua volontà di proseguire sulla Via si sarebbe unita agli altri elementi che compongono una nuova vita. Venne quindi identificato in un bambino il primo di un lignaggio, quello dei Karmapa, tuttora esistente.

Nel XIV sec. questa forma di successione fu accettata e adottata da tutte le scuole del buddhismo tibetano, dando inizio alla figura dei lama per nascita, detti in tibetano tulku, traduzione del termine sanscrito nirmanakaya, cioè “corpo di emanazione”, il corpo fisico con cui i Buddha compaiono nel mondo.
Secondo questa tradizione, le persone comuni, a causa delle passioni e delle tracce karmiche non dissolte, vengono alla luce senza poter modificare né arrestare il processo delle “rinascite”, e, spinte dal desiderio, vagano nelle forme e nelle condizioni dettate dal karma. Invece, questi esseri santi scelgono volontariamente di tornare (e con quali modalità) nel samsara (l'esistenza ciclica condizionata, permeata di sofferenza) per aiutare coloro che si dibattono nel dolore (è l’ideale del bodhisattva).
Il metodo dei tulku fu pertanto gradualmente adottato dalle scuole del buddhismo tibetano. Si cominciò a cercare tra i bambini nati dopo la morte di un lama il suo successore, sulla base di indicazioni, segni, indizi, lasciati dal lama prima del decesso, o anche successivi (sogni, visioni, oracoli…), secondo una metodologia che risente forse anche degli influssi delle tradizioni religiose tibetane pre-buddhiste (Bon).

Nel XV sec., alla morte di Gedun Drup, anche la scuola Gelug-pa introdusse il metodo di successione secondo i tulku. Lo stesso Gedun Drup (nipote di Lama Tzong Khapa, fondatore della scuola) fu riconosciuto come prima manifestazione di Avalokiteshvara, Bodhisattva della Compassione. Nel 1578 il terzo tulku, Sonam Gyatso, divenne il maestro spirituale di Altan Khan, re dei Mongoli, discendente di Gengis Khan. In segno di devozione, Altan tradusse in mongolo il nome “Gyatso” (che significa “oceano”), che divenne “Dale”, e poi “Dalai”. Quindi Dalai (mongolo) = Gyatso (tibetano) = Oceano. Dalai Lama equivale quindi a “Maestro Oceano” (probabilmente con riferimento alla vastità e alla profondità degli insegnamenti del Buddha). Tale titolo fu esteso retroattivamente ai due predecessori di Sonam Gyatso: il primo Dalai Lama divenne pertanto il Terzo.

La figura del Dalai Lama quale manifestazione del bodhisattva della Compassione, Avalokiteshvara (in tibetano Cenresig), rientra pertanto nella tradizionale concezione buddhista delle rinascite, fermo restando l’assunto della non-affermazione, da parte di tutte le scuole buddiste, di un’anima o spirito immortale. Ed avendo ancor più presente il fatto che tutte queste “teorie” non sono che provvisorie ipotesi, più o meno funzionali al desiderio umano di comprendere con la mente una realtà di cui la mente stessa fa parte. Una realtà priva di esistenza intrinseca, ed una mente che è essa stessa ugualmente vacuità. Tale metodologia implica pertanto la morte di una Dalai Lama quale presupposto necessario ed imprescindibile per l’identificazione del suo successore.

Fatte queste doverose premesse, è possibile comprendere meglio la singolarità di quanto accadde nel Tibet all’inizio del XVIII secolo.

Nel 1697 salì al trono come Sesto Dalai Lama Tsanyan Gyatso (“Oceano della melodiosa voce di Brahma”), il quale apparteneva in linea paterna alla scuola “degli Antichi”, Nying-ma-pa, e per parte di madre all’ordine riformato Gelug-pa, “i Virtuosi”. Poiché per evitare vuoti di potere la morte del Quinto Dalai Lama era stata tenuta nascosta al popolo, il piccolo Tasnyan era rimasto per 14 anni rinchiuso in una fortezza tra i monti, con i genitori e il tutore. Infine, nel 1697, fu insediato al trono come VI Dalai Lama.
Era un ragazzo intelligente, amante della vita all’aperto, poco portato per gli studi filosofici, e ben presto si sentì schiacciato dalle grandi responsabilità che il ruolo del Dalai Lama comporta.
Il Sesto Dalai Lama

Quando a vent’anni (1702 o 1703) gli fu imposto di prendere i voti monastici definitivi davanti al Panchen Lama, seconda autorità politica e spirituale del Tibet, il Sesto si prosternò di fronte a lui tre volte, come da tradizione, poi annunciò non solo di non voler assumere i voti definitivi, ma anche di voler restituire anche i voti da novizio, minacciando addirittura il suicidio. Ritornò così allo stato laicale, divenendo il primo e ad oggi ultimo Dalai Lama non monaco. Dopo di allora, vestì e visse come un nobile capo di Stato nel palazzo del Potala a Lhasa, uscendo a cavallo, partecipando a gare di tiro con l’arco, passando le serate con gli amici e le concubine e scrivendo bellissime poesie. Il che era piuttosto imbarazzante per l’alto clero tibetano, anche se il Sesto era oggetto di assoluta devozione da parte della popolazione.
Ma a quel punto il Khan dei Mongoli Lazhang, su istigazione dell’imperatore cinese Kangxi, spinse il clero a destituire Tsanyan. Ottenne però solo una blanda dichiarazione, secondo la quale il Sesto era veramente la manifestazione di Cenresig, anche se privo del principio di illuminazione (bodhi, la mente altruistica del Risveglio). Il Khan intervenne di persona e lo fece prelevare con la forza delle armi per poi trasferirlo in Cina (giugno 1706). Il Sesto fu ufficialmente deposto, nonostante l’opposizione del clero buddhista, e scortato verso la Cina. Quando le truppe mongole passarono davanti al monastero di Drepung, i monaci con una sortita riuscirono a liberarlo. Ma il monastero venne preso di mira dall’artiglieria mongola, e il Dalai Lama si riconsegnò spontaneamente alla scorta, per evitare lo sterminio dei monaci. Il viaggio verso la Cina riprese, ma sulle rive del lago Gongga-nor, nell’attuale Qinghai, Tsanyan morì, forse assassinato, forse per malattia, nel 1706.
Questo dice la storia.

Ma secondo Ngawang Lhundrub Dargye, monaco ed erudito, autore della “Biografia segreta del Sesto Dalai Lama”, il giovane Tsanyan non morì, ma fuggì, si travestì da pellegrino, trascorse lunghi periodi in ritiri spirituali sotto la guida di grandi maestri, viaggiò per tutto il Tibet, il Nepal, l’India, la Cina. Divenne così a sua volta un grande maestro buddhista, di cui l’autore del testo fu discepolo. Morì infine nel 1757, anno in cui venne scritta la sua biografia segreta.

A questo proposito l’attuale Dalai Lama, il XIV, dice: “Ci sono due versioni sulla sua morte. Al livello convenzionale, si dice che morì o fu ucciso durante il viaggio verso la Cina. Al livello non convenzionale, invece, scomparve lungo la strada per la Cina e ricomparve in seguito nel Tibet sudorientale, poi viaggiò nel Tibet meridionale e raggiunse Lhasa e infine la Mongolia. Qui restò più o meno altri trent’anni. Questo è il punto di vista non convenzionale”. Egli compie così una lettura della storia del tutto inusuale dal punto di vista tradizionale, “occidentale”, ma oltremodo interessante. Propone cioè la possibilità di una duplice lettura, quella “classica”, detta convenzionale, ed una più sottile, non-convenzionale, che potremmo chiamare “mitica”, la quale non è assolutamente meno “vera” dell’altra. La realtà (non solo quella storica) è fatta cioè di entrambe le visioni, del tutto intrecciate tra loro. Solo tenendole presenti entrambe è possibile accostarsi maggiormente ad una sua comprensione.

Può essere interessante vedere alcuni sviluppi successivi alla deposizione del VI Dalai Lama: a partire dal 1706 (data “storica” della morte di Tsanyan), al Khan si presentò il problema di ritrovare il “vero” Sesto, la vera incarnazione del Quinto Dalai Lama (fornito cioè dello spirito del Risveglio). Lo trovò facilmente in un monaco che – guarda caso! – pare fosse suo figlio naturale. Nel 1707 questi divenne il “vero” Sesto, cosa che provocò una frattura insanabile tra il Khan e i tibetani (anche l’imperatore cinese, prudentemente, lo riconobbe solo nel 1710). Se l’ipotesi della compresenza di due Sesti è sostenibile solo nella presunzione che il primo fosse veramente fuggito dalla “custodia” del Khan, è invece un dato storico che nel 1712 venne scoperto a Litang un bambino riconosciuto come rinascita di Tsanyan, e quindi come Settimo. Diversi capi mongoli si schierarono a suo favore, ed anche l’oracolo di Stato, importante istituzione del Tibet, proclamò la giustezza della scoperta.
A questo punto, nel Tibet si ebbe la compresenza di un Sesto e di un Settimo Dalai Lama, se non addirittura di due Sesti e di un Settimo!

Solo nel 1720, dopo un periodo di conflitti, armati e non, tra le fazioni mongole e tra i monasteri delle diverse scuole (Gelug e Nyingma), con la costante presenza politica e militare cinese, il bambino di Litang, Kelsang Gyatso, entrò nel palazzo del Potala di Lhasa, per diventare infine il Settimo Dalai Lama. Il “falso” Sesto, figlio del Khan, morì invece a Pechino nel 1725.

Le strutture di potere, politiche, religiose, economiche, tendono naturalmente a perpetuarsi nel tempo, autoriproducendosi secondo meccanismi differenti, ma simili nella finalità: i Papi nominano i Cardinali che eleggono i Papi; i gruppi dirigenti politici formano al loro interno i loro stessi successori, che vengono poi “democraticamente” scelti; i potentati economici sovente li “generano” fisicamente, nelle persone dei figli o dei nipoti, il cosiddetto “capitalismo famigliare”; lo stesso avviene nelle Monarchie ereditarie; le gerarchie lamaiste sceglievano da bambini i futuri Dalai Lama, per poi istruirli per lunghi anni nei palazzi e nei monasteri… Talvolta, però, l’ironia della storia fa sì che qualche sassolino entri negli ingranaggi, e ne sveli alcuni meccanismi…
Il “primo” Sesto, Tsanyan, che tali meccanismi aveva vissuto sulla propria pelle, forse per questo aveva scritto questi versi:

O Yama, specchio del mio karma,
Tu che siedi nel regno dei morti
Tu dovrai giudicarmi e garantirmi giustizia,
Poiché io, in questa vita, giustizia non ho avuto!


In effetti, ciò per cui il Sesto Dalai Lama è tuttora molto conosciuto ed amato dai Tibetani è proprio la sua opera poetica, oltre naturalmente alle particolari e storicamente controverse vicissitudini della sua esistenza.
I suoi versi ci sono pervenuti grazie alla sua stessa lungimiranza, in quanto si dice che li avesse consegnati personalmente al suo maggiordomo, poco prima di spirare sulle rive del lago.
Essi sono tradizionalmente divisi in due gruppi: una raccolta di una sessantina di componimenti più antichi, denominata “I canti di Tsanyan Gyatso”, più una di 459 canti, “I canti del Detentore di Sapienza Tsanyan Gyatso”, la cui paternità è meno certa.
Il principale argomento dei versi è l’amore, declinato in tutte le sue forme, con accenti di speranza, di dolore, di delusione. Essi descrivono bene la situazione in cui si trovava il giovane Tsanyan, tra le rigide regole religiose e le fughe dal palazzo del Potala per raggiungere i compagni di gioco e di bevute.
Per diminuire la portata scandalistica dei contenuti delle poesie, specchio di comportamenti ben poco ortodossi per un personaggio di quel rango, alcuni studiosi hanno cercato di proporne una lettura dottrinale, secondo la quale gli amori di cui si parla nei versi non erano amori profani, bensì sottili metafore degli insegnamenti segreti del buddhismo tibetano, forse alcuni insegnamenti delle scuole tantriche.
Come che sia, i versi appartengono sotto tutti gli aspetti (linguaggio, forme, contenuti) alla tradizione letteraria dei canti popolari tibetani, che si affianca alla grande produzione di testi religiosi. È un linguaggio semplice ma raffinato, ricco di immagini tratte dall’ambiente naturale. Lo stile è anticonformista, non convenzionale, e richiama quello della poesia del “pazzi”, molto diffusa in India (i canti degli yogi del Bengala) e poi in Tibet (Marpa, Milarepa): uno stile fortemente critico nei confronti della religiosità libresca e dell’ipocrisia del potente clero istituzionale.

Proponiamo alcuni esempi dei versi di Tsanyan, tratti dalla raccolta pubblicata nel 1993 dall’Editore Sellerio di Palermo. I versi, in origine trascritti di seguito, senza divisioni tra i vari canti, sono qui riportati in quartine (trad. dal tibetano di Erberto F. Lo Bue).


A oriente, dalla cima dei monti,
Bianca la splendente luna si levava.
Di una madre da cui non nacqui il volto
In mente mi tornava e ritornava.



A occidente, dalla cima dei monti,
Nubi bianche in cielo si levano e si levano.
Di sacro incenso un’offerta è certo
Per me, dalla rubacuori potente!

Quella persona di cui mi sono innamorato,
Se mia compagna di sempre divenisse,
Sarebbe come cogliere
Dal profondo dell’oceano una gemma.

I miei pensier verso lei vanno e rivanno.
Se verso la santa religione andati fossero,
In questa sola vita e con un corpo solo
Del Buddha la condizione raggiunto avrei.

Alcuni canti sono stati raggruppati ed utilizzati quale colonna sonora del film “Samsara” di Pan Nalin (2001):
Dell’ape la nascita presto è avvenuta;
Del fiore lo spuntar tardi è avvenuto.
Con la beneamata non predestinata
L’incontro è stato rinviato.
Dei fiori la stagione è svanita:
Dell’ape turchese l’animo non s’attrista.
Dell’amore il destino s’è compiuto:
Per questo io non m’attristerò.
Del virtuoso maestro ai piedi
Per chieder guida al cuore andai; ma
Il cuor mio fermarsi pur non potea:
Verso l’amore mio fuggì.
Richiamato, del mio maestro il volto
Nella mia mente non affiorerà.
Non richiamato, dell’amor mio il volto
Nella mia mente distintamente affiora.


Ed infine, due esempi di canti satirici nei confronti del clero:

Se verrà il maestro
Che con color zafferano scuro s’è cangiato,
Sul lago, in alto, un papero giallo
A guidar gli esseri senzienti vi sarà!

Se colui che ripete parole da altrui dette
Del triplice addestramento [morale, concentrazione, saggezza] l’insegnamento preserverà,
Un pennuto signor pappagallo
A insegnar religione vi sarà!



Testi utilizzati:

- Angelini, Tibet, mito e storia, Ed. Stampa Alternativa
- Laird, Il mio Tibet, Ed. Mondadori
- Marassi, Il buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture – Vol. I, Ed. Marietti
- Ngawang Lhundrub Dargye, La biografia segreta del Sesto Dalai Lama, Ed. Luni

- Tsanyan Ghiatso, Canti d’amore, Ed. Sellerio