Può essere utile, per meglio comprendere
le vicenda di Marco Polo e la storia del suo incontro col Dharma del Buddha,
una sintetica cronologia della diffusione del buddhismo[1],
a partire dalla nascita del Buddha Shakyamuni (tutte le date sono indicative e
variano a seconda degli autori):
566 – 486 a.C. nascita e parinirvana
del Buddha
326 a.C. Alessandro Magno attraversa il fiume
Indo
250 a.C. introduzione
del buddhismo a Sri Lanka
100 a.C. – 100 d.C. il buddhismo arriva in Cina e in Cambogia
150
d.C. introduzione
del buddhismo nel Vietnam…
400 …in
Birmania e in Corea
500 – 600 …in
Giappone
600 – 700 …in
Tibet
1000 …in
Thailandia
1200 – 1300 il buddhismo scompare dall’India
1800 l’Occidente
comincia ad interessarsi al buddhismo.
* * * *
Uno dei testi più noti della letteratura
italiana – anche se spesso viene letto solo in qualche versione “per ragazzi” –
è il “Milione” di Marco Polo,
un’opera redatta tra il 1295 e il 1298 che riporta, tra l’altro, le prime
informazioni sul buddhismo mai pervenute in Occidente.
L’autore era nato a Venezia nel 1254, e
qui morì nel 1324. Fu mercante, narratore, ambasciatore, ed uno dei più famosi
viaggiatori di tutti i tempi. A lui, quasi due secoli dopo, si ispirò Cristoforo Colombo nel concepire i viaggi che lo portarono in America, pur
credendo di essere giunto per mare in quel Catai,
la Cina, che Polo aveva raggiunto via terra viaggiando in senso opposto.
E grazie alle informazioni raccolte nella
sua opera il cartografo e monaco camaldolese fra’ Mauro aveva potuto compilare il suo famoso mappamondo, intorno
al 1450.
Marco apparteneva ad una famiglia di
mercanti e viaggiatori veneziani: nel 1260 i fratelli Matteo e Niccolò Polo (lo
zio e il padre di Marco) avevano già raggiunto la Cina (in quell’epoca dominata
dai Mongoli) ed erano poi tornati in Italia nel 1269 con una ambasciata per il
Papa da parte di Kubilai Khan, quinto Gran Khan[2]
dei Mongoli dal 1260 e dal 1271 primo imperatore della Cina della dinastia
Yuan.
Marco Polo |
Dopo due anni, nel 1271, i due fratelli
ripartirono per l’Oriente portando con loro il giovane Marco, in un viaggio che
durò in tutto 25 anni. Attraversarono l’Armenia, giunsero poi in Persia,
attraversarono il deserto del Gobi e in tre anni e mezzo arrivarono in Cina
fino a Khanbaliq (“la città del Khan”), oggi Beijing (Pechino). Lì Marco
ottenne la fiducia di Kubilai Khan e ne diventò consigliere e ambasciatore,
rimanendo al suo servizio per oltre 15 anni. Solo nel 1295 i Polo ritornarono
in patria via mare, toccando il Sud Est Asiatico, Sri Lanka e l’India, ed
infine nuovamente via terra.
Poco tempo dopo, Marco rimase coinvolto in
una battaglia navale con i Genovesi[3],
dai quali fu fatto prigioniero. In carcere a Genova conobbe Rustichello da Pisa, scrittore,
anch’egli catturato dai Genovesi (alla Meloria), e a lui dettò i ricordi del
suo viaggio, le descrizioni dei luoghi, dei popoli, delle culture, degli
animali e delle piante che aveva visto, ovvero tutte quelle informazioni che
compongono l’opera oggi nota come “Milione”, una sorta di enciclopedia
dell’Asia medioevale, così come l’aveva direttamente conosciuta il mercante di
Venezia.
L’opera originaria (oggi perduta) era
intitolata “Le divisement du monde”,
la descrizione del mondo, ed era redatta in francese medioevale, la lingua in
cui Rustichello scriveva le sue opere. Il testo – che ebbe da subito una enorme
diffusione in tutto il mondo – fu successivamente rielaborato, anche con titoli
diversi, tra cui “Livre de Marco Polo,
citoyen de Venis, dit Million, où l’on conte les merveilles du monde”. Di
qui, il titolo più famoso, il “Milione”,
probabilmente originato dal nomignolo “Emilione”
attribuito allo stesso Marco.
Il viaggio di Marco Polo |
Ciò che in questa sede più interessa è il
fatto che nel Milione sono riportate
le testimonianze di uno dei primi incontri documentati tra la spiritualità
occidentale, mediterranea, e quella orientale. In particolare, Marcò osservò di
persona diversi aspetti della religiosità orientale e ne diede alcune
interessantissime descrizioni. Fu probabilmente il primo europeo (di cui si
abbia notizia) a parlare per esperienza diretta del buddhismo, anche se con i limiti che vedremo.
Forse il primo contatto con la cultura
buddhista Marco lo ebbe nel Chescimur,
l’attuale Kashmir. Gli abitanti di questo territorio, dal quale si accede al
cuore dell’India, vengono da lui definiti “idolatri”,
e questo è il termine che Polo usò per definire coloro che non erano né
cristiani, né ebrei né islamici. Le religioni a lui note erano infatti le
religioni abramitiche, anche nelle loro varianti, per esempio i cristiani
nestoriani[4],
presenti in molti dei territori dominati dai Mongoli, Cina compresa; gli
“altri” erano da lui chiamati “idolatri”, anche se non dimostrava nei loro
confronti disprezzo, anzi era sicuramente incuriosito ed interessato alle
differenze tra le diverse tradizioni.
Nel capitolo del Milione sul Chescimur[5]
distingue “certi loro romiti che abitano
in eremitaggi e digiunano severamente; fanno vita castissima e si guardano con
ogni diligenza dal peccare contro la loro religione” (forse adepti dello Yoga?)
da altri “monaci” che vivono “in abbazie e monasteri” dove “seguono regole rigidissime e portano tonsura
come i nostri domenicani e i nostri frati minori”. Che sia questo il
racconto del primo incontro (documentato) della storia tra un occidentale e dei monaci buddhisti?
All’epoca del Milione il buddhismo era ormai scomparso dall’India, a causa delle
invasioni islamiche, della rinascita dell’induismo e delle crisi interne del
buddhismo stesso. Ma si era già diffuso in gran parte dell’Asia, in particolare
nei territori toccati da Polo: la Mongolia, il Tibet, la Cina e, durante il
ritorno, Sri Lanka. Il buddhismo da lui descritto, come si capirà secoli dopo,
è quindi quello Mahayana (tranne a
Sri Lanka), soprattutto nelle varianti del Vajrayana
(un tempo chiamato Lamaismo).
I Mongoli avevano incontrato il buddhismo
già durante il regno di Genghis Khan
(1162 -1227), noto anche come Temujin, il creatore del più vasto impero mai
esistito nella storia umana, che andava dall’Europa Orientale alla Cina. Alla
sua corte erano giunti molti monaci e Lama tibetani, che avevano fatto
conoscere il buddhismo all’imperatore mongolo e al suo popolo. Esso ebbe fin da
subito grande fortuna presso i mongoli, anche se l’immagine del Buddha che essi
si fecero era quella di un essere trascendente “cui obbedivano dei e demoni, le forze naturali e occulte e gli spiriti
dei defunti: figura lontana da quella dell’Illuminato, che intese liberare
l’uomo dalle passioni che lo avviliscono, dagli istinti che lo tradiscono e dal
dolore che lo perseguita senza tregua dalla nascita alla morte”[6].
Il Buddha stesso era conosciuto dai
Mongoli con il nome di “Sagamoni Borcan”
(da Shakyamuni Buddha), e lo stesso Kubilai, nelle parole di Marco Polo, lo
definisce “profeta”[7],
al pari di Gesù, Mosè e Maometto.
Pochi decenni dopo la morte di Genghis
Khan, sarà Kubilai Khan a promuovere la conversione al buddhismo dei Mongoli,
affidando inoltre importanti incarichi civili e religiosi ai Lama e preparando così
la strada alla nascita della figura del Dalai Lama e del suo potere temporale e
religioso sul Tibet, che terminerà con l’invasione cinese del secolo scorso.
Kubilai Khan |
Quando Polo parla di Kubilai Khan e del
suo regno, nomina più volte i “Bacsi”, ovvero i Lama tibetani, che
esercitavano una notevole influenza presso la corte del Khan. Dalle descrizioni
esce una raffigurazione del buddhismo come di una pratica molto più vicina alla
magia e all’astrologia (in un passo sono definiti “i sapienti astrologi”) che
alla spiritualità: ad esempio, quando il tempo peggiora, il Khan chiama questi
“sapienti incantatori che, con la loro
forza d’incantamento, allontanano dal cielo ogni nube”[8].
Sono chiamati Tebet o Chesmur, per il loro paese d’origine (il
Tibet e il Kashmir, evidentemente), oppure, come già detto, Bacsi. Sono descritti come persone molto
sporche e privi di vergogna, addirittura dediti talvolta al cannibalismo. Con
le loro arti magiche riescono a spostare oggetti, e durante i pasti “fanno sì che le coppe colme si sollevino da
terra senza che nessuno le tocchi e vadano a posarsi davanti al Gran Khan. Egli
beve e le coppe ritornano vuote al loro posto”[9].
Nei paragrafi dedicati al Tebet, il Tibet, che Polo ha toccato
durante il soggiorno alla corte del Khan, i Tibetani sono descritti come “i più sapienti incantatori e i migliori
astrologi di tutte le province circostanti e fanno i più diabolici incantesimi
e i più prodigiosi a vedersi e a dirsi, tutto per arte del demonio, cose che
non possiamo raccontare nel nostro libro perché spaventerebbero la gente”[10].
I Bacsi,
cioè i Lama tibetani, adorano degli idoli – purtroppo Polo non descrive mai
l’iconografia buddhista – ai quali offrono montoni, incenso, aloe e altro, in
cambio della loro protezione sui raccolti e sul bestiame. Il tono della
descrizione cambia un poco quando si parla dei monasteri: “E vi sono
monasteri ed abbazie vasti come piccole città dove vivono più di duemila monaci
che vestono più decentemente degli altri, hanno la barba rasa e il capo raso.
Fanno ai loro idoli grandissimi onori con luminarie e canti e raramente si può
sentirne e vederne di simili. Tra i Bacsi di cui parliamo ve ne sono alcuni che
possono prendere moglie secondo le regole del loro ordine religioso”[11].
Molto interessante è un’annotazione in
merito alla generosità, una delle
pratiche fondamentali nel buddhismo (dana, il dono): prima di conoscere
“la legge degli idolatri”, ovvero il Dharma, i Mongoli – dice Polo – non
facevano mai elemosine, anzi i poveri erano oggetto di emarginazione. “Ma poi i Bacsi, ovvero i sapienti degli
idolatri, convinsero il Gran Khan che l’elemosina è un’opera buona e che gli
idoli se ne rallegrerebbero molto; e da allora il Gran Signore provvede ai
poveri come vi ho detto”[12],
cioè con distribuzioni quotidiane di riso, miglio e altri generi alimentari a
favore dei bisognosi.
Ugualmente significativo l’accenno alla
legge del karma e alla rinascita:
“L'anima, per loro [i Mongoli], è immortale in questo modo: pensano che
appena muore l'uomo entra in un altro corpo e, secondo che in vita l'uomo si
sia portato onestamente o male, procede di bene in meglio o di male in peggio:
un povero, che si sia portato bene, rinascerà dopo morto da una gentildonna e
sarà gentiluomo; e poi da una signora, e sarà signore; e cosi, sempre
ascendendo finché sarà assunto in Dio. Se invece avrà vissuto male, essendo
figlio di un gentiluomo rinascerà da un contadino, e da un contadino scenderà
in un cane, discendendo sempre a vita più vile”[13].
L’ultima e più lunga notazione sul
buddhismo la si trova verso la fine dell’opera, nel cap. CLXXIX, quando Polo
torna a parlare dell’isola di Sri Lanka, da lui chiamata “Seilan” (fino al 1972 si chiamava infatti Ceylon), che toccò
durante il viaggio di ritorno in Occidente.
Vale la pena di riportare per intero le
sue parole:
“Abbiamo
parlato delle usanze di questi idolatri; adesso vi racconteremo una bella
storia che avevamo dimenticata intorno all'isola di Seilan; ed è una storia che
vi stupirà molto.
Seilan,
come ho detto già in questo libro, è una grande isola. Quest'isola ha una
montagna molto alta, dalle pareti cosi scoscese che nessuno potrebbe salirvi se
non nella maniera che vi dirò: dall'alto della montagna pendono molte catene
di ferro congegnate e fissate in tal maniera che gli uomini possono
arrampicarsi aiutandosi con le catene fino al sommo della montagna. Dicono che
lassù ci sia il sepolcro di Adamo nostro progenitore. Dicono cosi i saraceni:
gli idolatri invece dicono che è la tomba di Sagamoni Borcan.
Questo
Sagamoni fu il primo uomo che sia stato fatto idolo. Perché secondo la leggenda
è stato l'uomo migliore che abbia mai vissuto: e fu il primo che abbiano
venerato come santo, e il primo idolo che abbiano avuto.
Era
figlio di un gran re ricco e potente ed era di tale santa vita che non volle
occuparsi mai di nessuna cosa mondana né diventare re. Il padre, quando vide
che suo figlio non voleva diventare re né voleva interessarsi a nessuna cosa
mondana, fu preso da gran collera: gli fece grandi offerte, gli disse che
voleva incoronarlo e lasciarlo regnare come gli piacesse: avrebbe abdicato,
non avrebbe più comandato lasciando al figlio ogni potestà. Il figlio rispose
di non voler niente. E quando il padre fu certo che non voleva in nessun modo
la signoria, si addolorò così profondamente che quasi ne morì; e si può
capire, perché aveva questo figlio solo e non sapeva a chi lasciare il trono.
Il
re allora pensò di agire in questo modo: decise di fare una cosa che secondo
lui avrebbe piegato volentieri il figlio ai piaceri terreni e che gli avrebbe
fatto prendere regno e corona. Lo fece alloggiare in un palazzo bellissimo con
trentamila fanciulle belle e attraenti per servirlo. E nessun uomo osava
entrare là dentro; soltanto le fanciulle erano con lui, lo mettevano a letto,
gli preparavano la tavola, e gli facevano sempre compagnia. Cantavano e
ballavano alla sua presenza e cercavano di divertirlo il più possibile secondo
il comando del re. Ma nessuna poté far sì che il giovane si lasciasse sedurre
dalle cose amorose, anzi sembrava sempre più risolutamente casto. E faceva una
vita molto austera secondo le loro usanze.
Dovete
sapere che il giovane era cresciuto con tanta delicatezza che non aveva mai
messo piede fuori dal palazzo, e non aveva mai visto un morto, né incontrato
nessuno che non fosse sano nelle membra. Il padre non permetteva che gli
apparisse davanti un uomo vecchio o infelice. Avvenne che un giorno il
giovinetto, cavalcando per la via, vedesse un uomo morto e restasse stupefatto
non avendone mai visti: domandò subito a quelli del suo seguito che cosa fosse:
e quelli risposero che era un morto.
“Come
– disse il principe – allora tutti gli uomini muoiono?”
“Certo,
tutti” gli risposero.
Il
giovane non disse altro e cavalcava pensoso. E dopo aver cavalcato a lungo
incontrò un uomo molto vecchio che non poteva camminare e non aveva denti in
bocca perché gli erano caduti tutti per la sua gran vecchiaia.
Quando
il figlio del re vide il vecchio domandò chi fosse e perché non poteva
camminare. Gli fu risposto che per vecchiaia non poteva camminare e che per
vecchiaia aveva perduto i denti. Intese a fondo queste cose, del morto e del
vecchio, il figlio del re tornò al palazzo e disse che non voleva più stare in
questo tristissimo mondo ma sarebbe andato a cercare colui che non muore mai e
che lo aveva creato. Lasciò dunque il palazzo di suo padre e se ne andò su
monti altissimi e dirupati e visse là tutta la sua vita austeramente e
castamente facendo molta astinenza. E certo se fosse stato cristiano sarebbe
stato un grande santo in compagnia di Nostro Signore Gesù Cristo.
Quando
il figlio del re morì, il suo corpo fu riportato al padre; ed è inutile narrare
quale angustiato dolore provasse il vecchio re nel veder morto colui che amava
più di se stesso. Indicibile fu il suo pianto; poi fece fare una statua a sua
immagine tutta d’oro e di pietre preziose e lo fece onorare dai sudditi come un
dio. Dissero di lui che morì ottantaquattro volte e tutte le volte
reincarnandosi in un animale: la prima volta in un bue, poi in un cavallo, poi
in un cane: all’ottantaquattresima volta dicono che morì e divenne dio. Per gli
idolatri è lui il più gran dio che abbiano, il
primo, dal quale discesero poi gli altri. E ciò accadde nell'isola di Seilan,
in India.
Vi
ho raccontato del primo idolo. E aggiungo che gli idolatri vengono da molto
lontano in pellegrinaggio come i cristiani vanno a San Giacomo di Compostella.
Essi dicono che la tomba che si trova su quella montagna sarebbe del figlio del
re di cui abbiamo parlato; i denti, i capelli e la scodella che vi sono
conservati sarebbero di lui, di questo Sagamoni Borcan che nella nostra lingua
vorrebbe dire Sagamoni il Santo. I saraceni, invece, che anche loro vanno in
pellegrinaggio a quella tomba, affermano che quello è il sepolcro di Adamo
nostro progenitore e che suoi sono i denti, i capelli e la scodella che vi si
conservano.
Ho
raccontato cosi come gli idolatri dicono che la tomba è del figlio del re loro
primo idolo e loro primo dio, e i saraceni dicono che è di Adamo nostro primo
padre; ma Dio sa chi è e chi è stato. Per nostro conto non crediamo che le
reliquie siano di Adamo perché la Sacra Scrittura disse che è stato sepolto in
un’altra parte del mondo.
Avvenne
ora che il Gran Kan sapesse che nella montagna di Seilan si diceva essere il
sepolcro di Adamo, e che vi si trovavano i suoi denti, i capelli e la sua
scodella. Decise che doveva avere lui queste cose preziose e mandò subito una
grande ambasceria: e ciò avvenne l'anno 1284. Vi posso assicurare che i
messaggeri del Gran Kan con un seguito numeroso si misero in via e viaggiarono
tanto per terra e per mare che arrivarono infine all'isola di Seilan. Andarono
dal re e tanto fecero che riuscirono ad ottenere i due denti mascellari che
erano grossi e lunghi; e i capelli; e la scodella. Questa era bellissima, di
porfido verde. Ottenute queste cose i messaggeri tornarono dal Gran Kan e quando
furono vicini alla città di Cambaluc dove egli soggiornava gli fecero sapere
che portavano ciò che erano andati a prendere. Il Gran Kan comandò subito che
tutte le sue genti, religiosi e non religiosi, andassero in corteo a
incontrare le reliquie credute del padre Adamo. E per concludere vi dirò che
tutta Cambaluc andò incontro alle reliquie e i religiosi le presero in consegna
con gran gioia festa e venerazione. Quei religiosi trovarono nelle loro
scritture che la scodella di porfido verde aveva questa proprietà: mettendovi
vivande per un uomo si sfamavano cinque uomini. E il Gran Kan aveva fatto fare
la prova e disse che quella era la verità.
In
questo modo ebbe il Gran Kan le credute reliquie di Adamo e non si può dire che
non gli siano costate”[14].
Al di là del racconto sulla vita del
Buddha, che riporta dei particolari nuovi rispetto a quanto comunemente
tramandato (ad es. il fatto che il padre fosse ancora vivo al momento della
morte del Buddha), e della “disputa” sulle reliquie[15],
due sono i punti di maggior interesse in questo brano:
1 – Polo parla del Buddha come del “primo uomo
che sia stato fatto idolo”, “l’uomo migliore che abbia mai vissuto”.
Egli ha cioè correttamente compreso un punto essenziale del buddhismo: Sagamoni era un uomo come tutti, non una
divinità o un essere trascendente, anche se col tempo è stato divinizzato ed è
divenuto oggetto di venerazione (un “oggetto”, appunto), al di là proprio dei
suoi stessi insegnamenti.
Questo significa che la via della
liberazione dalla sofferenza proposta dal Buddha è universale e non è riservata
a uomini o donne con qualità speciali o attributi “divini”.
2 – Afferma poi che se il Buddha “fosse stato cristiano sarebbe stato un
grande santo in compagnia di Nostro Signore Gesù Cristo”. Questo, oltre a
costituire un esplicito riconoscimento delle qualità del Buddha e della
“idolatria” buddhista, ci dice che Marco Polo, giovane mercante veneziano
dell’Italia medioevale, era persona di grande sensibilità e apertura mentale –
e ci dice anche che lo stesso Medio Evo non era poi così “oscuro” come è stato
raccontato dal Rinascimento in poi[16]!
Per concludere, è fin troppo facile
parlare oggi dei limiti della
narrazione di Marco Polo a proposito del buddhismo – e non solo di questo. Effettivamente
ne ha descritto soprattutto gli aspetti devozionali, tipici della religiosità
“popolare”: le preghiere e le offerte agli “idoli”, le elemosine. Ha
sottolineato elementi che oggi definiremmo “superstiziosi”: le pratiche magiche
dei Lama, gli oroscopi, le divinazioni. Al più, si è soffermato sulla
dimensione etica del buddhismo – certo di assoluta rilevanza – ed infine sulla
biografia leggendaria di Sagamoni Borcan.
Non ci viene detto nulla sul senso
profondo dei suoi insegnamenti, sulla liberazione dalla sofferenza, il Nirvana, né sui testi, i sutra,
che in quel tempo erano già stati raccolti e in buona parte tradotti in Cina,
in Tibet, a Sri Lanka. Quindi, nulla ci è stato da lui riportato a proposito
della filosofia del buddhismo, della pratica della meditazione, della vacuità...
Anche la rinascita ha dal suo punto di vista un significato di crescita
“sociale”, che vede come termine ultimo la fusione con la “divinità” anziché la
definitiva liberazione dall’esistenza ciclica condizionata.
Il monastero di Gandan in Mongolia |
Come scrive M.A. Falà, Polo non è riuscito
“a distinguere, al di sotto del fogliame
di culti, riti e superstizioni, il vero tronco dell’albero dell’Illuminazione”[17],
ed effettivamente “il suo quadro delle
religioni asiatiche è piuttosto confuso”[18].
Ma, oltre a riconoscere, come già si è
fatto, l’intelligenza curiosa di quello che, non dimentichiamo, è stato
innanzitutto un abile e coraggioso mercante e viaggiatore cristiano del 1200 (e proprio il buddhismo ci insegna che la
percezione della realtà è sempre condizionata, anche dai nostri ruoli sociali),
è da dire anche che molto probabilmente il buddhismo che Polo ha conosciuto era
proprio quello che ha descritto: un eterogeneo insieme di culti popolari,
“contaminati” da pratiche tradizionali locali (il taoismo in Cina, il Bӧn in Tibet ecc.); riti e cerimoniali
che da un lato potevano – e possono – soddisfare certi elementari bisogni umani,
ma dall’altro possono prestarsi ad usi anche “politici”, di formazione di
consenso e di controllo sociale.
Forse, come si evince in un paio di
annotazioni, Polo aveva compreso che dietro le mura dei monasteri c’era
qualcosa d’altro rispetto a ciò che vedeva nei templi, tra la gente, o alla
corte del Khan. Non è andato a vedere, forse non ne ha sentito abbastanza il bisogno.
O non gli è stato permesso di farlo. O forse – ma questa è solo fantasia – lo
ha fatto, ma non ce lo ha raccontato…
[1]
La cronologia
qui riportata è tratta dal volume: D. Keown, Buddhismo, Ed. Einaudi
pagg. 137-138
[2] Il titolo corrisponde
a quello di “Imperatore”
[3] Forse la battaglia
di Curzola, in Croazia
[4]
Ovvero
seguaci di Nestorio, patriarca di Costantinopoli deposto nel 431 in quanto
sostenitore delle due distinte nature di Gesù, umana e divina (per cui Maria è
Madre di Cristo, ma non Madre di Dio)
[5]
Tutte le
citazioni sono tratte da: Marco Polo, Il Milione, Ed. CDE su lic. Ed. ERI,
pagg. 50-51. Questa edizione del Milione è la “traduzione” in italiano, ad
opera della scrittrice Maria Bellonci
(1902-1986), del Codice 1116, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi
[6] M.A. Falà, Il
Buddha di Marco Polo, in: Paramita n. 6/1983, pag. 28
[8] Pag. 76
[9] Pag. 77
[10] Pag. 124
[11] Pag. 77
[12] Pag. 114
[13] Pag. 116
[14] Pagg. 196/198
[15]
Tutt’oggi a
Sri Lanka, nella città di Kandy, si trova un tempio nel quale è conservata la
reliquia del sacro dente del Buddha, oggetto di venerazione e di pellegrinaggi
da tutto il mondo buddhista. E ancora a Sri Lanka si trova un monte, lo Sri
Pada (Piede sacro), noto anche come Adam’s Peak, anch’esso meta di
pellegrinaggi per cristiani, musulmani, buddhisti e induisti, in quanto vi si
trova l’impronta di un piede (lunga 180 cm.), che, a seconda di chi la venera,
è considerata l’impronta di Adamo, del dio Shiva o del Buddha.
[16] Si noti che mentre
gli altri periodi storici sono stati definiti con termini specifici (età
antica, moderna, contemporanea ecc.), il Medio Evo è semplicemente definito
come un periodo intermedio, è privo di una propria connotazione temporale
[17] M.A. Falà, Il
Buddha di Marco Polo, pag. 29
[18] Pag. 28
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