sabato 10 gennaio 2015

I versi di Tsanyan Gyatso, VI Dalai Lama del Tibet


Come noto, nel buddhismo non esiste un unico “rappresentante” spirituale di tutte le tradizioni nelle loro differenziazioni storiche e geografiche.
Come ha scritto il monaco zen Yushin Marassi, “il buddhismo non ha mai avuto autorità centrali, gerarchie curiali o strutture rigide e dove queste sono comparse, nelle varie scuole nazionali, il loro ruolo è del tutto marginale se non esterno alla tradizione buddhista intesa come religione, ovvero come via di salvezza”.
Infatti, anche l’appellativo, attribuito da molti occidentali al Dalai Lama, di “Sua Santità” (His Holiness, H.H.), che immediatamente rimanda alla figura del Papa, non corrisponde, né linguisticamente né semanticamente, a quello comunemente usato dai Tibetani, “Kundun”, traducibile con “La Presenza”. Può anzi contribuire ad ingenerare la falsa convinzione che il Dalai Lama in qualche modo “rappresenti” tutti i buddhisti nel mondo (fermo restando che l’attuale Dalai Lama è – quasi –unanimemente riconosciuto da tutti i buddhisti come uno dei grandi Maestri spirituali contemporanei).
Inoltre, le modalità con cui viene scelto il Dalai Lama sono molto diverse da quelle con cui è nominato il Pontefice, Vescovo di Roma e Vicario di Cristo (e tuttora capo politico di uno Stato indipendente), che è sempre il risultato di una elezione, alla quale, a seconda dell’epoca storica, hanno partecipato il popolo romano e i vescovi, fino ad arrivare alla forma ancora oggi vigente della votazione segreta cui partecipano i Cardinali riuniti in Conclave.

La tradizione tibetana ebbe inizio nel XII sec., quindi quattro/cinque secoli dopo che il buddhismo si era diffuso in quelle terre. Un Lama (traduzione tibetana del sanscrito guru, maestro spirituale) della scuola Kagyu prima di morire aveva indicato ad un discepolo le circostanze in cui la sua volontà di proseguire sulla Via si sarebbe unita agli altri elementi che compongono una nuova vita. Venne quindi identificato in un bambino il primo di un lignaggio, quello dei Karmapa, tuttora esistente.

Nel XIV sec. questa forma di successione fu accettata e adottata da tutte le scuole del buddhismo tibetano, dando inizio alla figura dei lama per nascita, detti in tibetano tulku, traduzione del termine sanscrito nirmanakaya, cioè “corpo di emanazione”, il corpo fisico con cui i Buddha compaiono nel mondo.
Secondo questa tradizione, le persone comuni, a causa delle passioni e delle tracce karmiche non dissolte, vengono alla luce senza poter modificare né arrestare il processo delle “rinascite”, e, spinte dal desiderio, vagano nelle forme e nelle condizioni dettate dal karma. Invece, questi esseri santi scelgono volontariamente di tornare (e con quali modalità) nel samsara (l'esistenza ciclica condizionata, permeata di sofferenza) per aiutare coloro che si dibattono nel dolore (è l’ideale del bodhisattva).
Il metodo dei tulku fu pertanto gradualmente adottato dalle scuole del buddhismo tibetano. Si cominciò a cercare tra i bambini nati dopo la morte di un lama il suo successore, sulla base di indicazioni, segni, indizi, lasciati dal lama prima del decesso, o anche successivi (sogni, visioni, oracoli…), secondo una metodologia che risente forse anche degli influssi delle tradizioni religiose tibetane pre-buddhiste (Bon).

Nel XV sec., alla morte di Gedun Drup, anche la scuola Gelug-pa introdusse il metodo di successione secondo i tulku. Lo stesso Gedun Drup (nipote di Lama Tzong Khapa, fondatore della scuola) fu riconosciuto come prima manifestazione di Avalokiteshvara, Bodhisattva della Compassione. Nel 1578 il terzo tulku, Sonam Gyatso, divenne il maestro spirituale di Altan Khan, re dei Mongoli, discendente di Gengis Khan. In segno di devozione, Altan tradusse in mongolo il nome “Gyatso” (che significa “oceano”), che divenne “Dale”, e poi “Dalai”. Quindi Dalai (mongolo) = Gyatso (tibetano) = Oceano. Dalai Lama equivale quindi a “Maestro Oceano” (probabilmente con riferimento alla vastità e alla profondità degli insegnamenti del Buddha). Tale titolo fu esteso retroattivamente ai due predecessori di Sonam Gyatso: il primo Dalai Lama divenne pertanto il Terzo.

La figura del Dalai Lama quale manifestazione del bodhisattva della Compassione, Avalokiteshvara (in tibetano Cenresig), rientra pertanto nella tradizionale concezione buddhista delle rinascite, fermo restando l’assunto della non-affermazione, da parte di tutte le scuole buddiste, di un’anima o spirito immortale. Ed avendo ancor più presente il fatto che tutte queste “teorie” non sono che provvisorie ipotesi, più o meno funzionali al desiderio umano di comprendere con la mente una realtà di cui la mente stessa fa parte. Una realtà priva di esistenza intrinseca, ed una mente che è essa stessa ugualmente vacuità. Tale metodologia implica pertanto la morte di una Dalai Lama quale presupposto necessario ed imprescindibile per l’identificazione del suo successore.

Fatte queste doverose premesse, è possibile comprendere meglio la singolarità di quanto accadde nel Tibet all’inizio del XVIII secolo.

Nel 1697 salì al trono come Sesto Dalai Lama Tsanyan Gyatso (“Oceano della melodiosa voce di Brahma”), il quale apparteneva in linea paterna alla scuola “degli Antichi”, Nying-ma-pa, e per parte di madre all’ordine riformato Gelug-pa, “i Virtuosi”. Poiché per evitare vuoti di potere la morte del Quinto Dalai Lama era stata tenuta nascosta al popolo, il piccolo Tasnyan era rimasto per 14 anni rinchiuso in una fortezza tra i monti, con i genitori e il tutore. Infine, nel 1697, fu insediato al trono come VI Dalai Lama.
Era un ragazzo intelligente, amante della vita all’aperto, poco portato per gli studi filosofici, e ben presto si sentì schiacciato dalle grandi responsabilità che il ruolo del Dalai Lama comporta.
Il Sesto Dalai Lama

Quando a vent’anni (1702 o 1703) gli fu imposto di prendere i voti monastici definitivi davanti al Panchen Lama, seconda autorità politica e spirituale del Tibet, il Sesto si prosternò di fronte a lui tre volte, come da tradizione, poi annunciò non solo di non voler assumere i voti definitivi, ma anche di voler restituire anche i voti da novizio, minacciando addirittura il suicidio. Ritornò così allo stato laicale, divenendo il primo e ad oggi ultimo Dalai Lama non monaco. Dopo di allora, vestì e visse come un nobile capo di Stato nel palazzo del Potala a Lhasa, uscendo a cavallo, partecipando a gare di tiro con l’arco, passando le serate con gli amici e le concubine e scrivendo bellissime poesie. Il che era piuttosto imbarazzante per l’alto clero tibetano, anche se il Sesto era oggetto di assoluta devozione da parte della popolazione.
Ma a quel punto il Khan dei Mongoli Lazhang, su istigazione dell’imperatore cinese Kangxi, spinse il clero a destituire Tsanyan. Ottenne però solo una blanda dichiarazione, secondo la quale il Sesto era veramente la manifestazione di Cenresig, anche se privo del principio di illuminazione (bodhi, la mente altruistica del Risveglio). Il Khan intervenne di persona e lo fece prelevare con la forza delle armi per poi trasferirlo in Cina (giugno 1706). Il Sesto fu ufficialmente deposto, nonostante l’opposizione del clero buddhista, e scortato verso la Cina. Quando le truppe mongole passarono davanti al monastero di Drepung, i monaci con una sortita riuscirono a liberarlo. Ma il monastero venne preso di mira dall’artiglieria mongola, e il Dalai Lama si riconsegnò spontaneamente alla scorta, per evitare lo sterminio dei monaci. Il viaggio verso la Cina riprese, ma sulle rive del lago Gongga-nor, nell’attuale Qinghai, Tsanyan morì, forse assassinato, forse per malattia, nel 1706.
Questo dice la storia.

Ma secondo Ngawang Lhundrub Dargye, monaco ed erudito, autore della “Biografia segreta del Sesto Dalai Lama”, il giovane Tsanyan non morì, ma fuggì, si travestì da pellegrino, trascorse lunghi periodi in ritiri spirituali sotto la guida di grandi maestri, viaggiò per tutto il Tibet, il Nepal, l’India, la Cina. Divenne così a sua volta un grande maestro buddhista, di cui l’autore del testo fu discepolo. Morì infine nel 1757, anno in cui venne scritta la sua biografia segreta.

A questo proposito l’attuale Dalai Lama, il XIV, dice: “Ci sono due versioni sulla sua morte. Al livello convenzionale, si dice che morì o fu ucciso durante il viaggio verso la Cina. Al livello non convenzionale, invece, scomparve lungo la strada per la Cina e ricomparve in seguito nel Tibet sudorientale, poi viaggiò nel Tibet meridionale e raggiunse Lhasa e infine la Mongolia. Qui restò più o meno altri trent’anni. Questo è il punto di vista non convenzionale”. Egli compie così una lettura della storia del tutto inusuale dal punto di vista tradizionale, “occidentale”, ma oltremodo interessante. Propone cioè la possibilità di una duplice lettura, quella “classica”, detta convenzionale, ed una più sottile, non-convenzionale, che potremmo chiamare “mitica”, la quale non è assolutamente meno “vera” dell’altra. La realtà (non solo quella storica) è fatta cioè di entrambe le visioni, del tutto intrecciate tra loro. Solo tenendole presenti entrambe è possibile accostarsi maggiormente ad una sua comprensione.

Può essere interessante vedere alcuni sviluppi successivi alla deposizione del VI Dalai Lama: a partire dal 1706 (data “storica” della morte di Tsanyan), al Khan si presentò il problema di ritrovare il “vero” Sesto, la vera incarnazione del Quinto Dalai Lama (fornito cioè dello spirito del Risveglio). Lo trovò facilmente in un monaco che – guarda caso! – pare fosse suo figlio naturale. Nel 1707 questi divenne il “vero” Sesto, cosa che provocò una frattura insanabile tra il Khan e i tibetani (anche l’imperatore cinese, prudentemente, lo riconobbe solo nel 1710). Se l’ipotesi della compresenza di due Sesti è sostenibile solo nella presunzione che il primo fosse veramente fuggito dalla “custodia” del Khan, è invece un dato storico che nel 1712 venne scoperto a Litang un bambino riconosciuto come rinascita di Tsanyan, e quindi come Settimo. Diversi capi mongoli si schierarono a suo favore, ed anche l’oracolo di Stato, importante istituzione del Tibet, proclamò la giustezza della scoperta.
A questo punto, nel Tibet si ebbe la compresenza di un Sesto e di un Settimo Dalai Lama, se non addirittura di due Sesti e di un Settimo!

Solo nel 1720, dopo un periodo di conflitti, armati e non, tra le fazioni mongole e tra i monasteri delle diverse scuole (Gelug e Nyingma), con la costante presenza politica e militare cinese, il bambino di Litang, Kelsang Gyatso, entrò nel palazzo del Potala di Lhasa, per diventare infine il Settimo Dalai Lama. Il “falso” Sesto, figlio del Khan, morì invece a Pechino nel 1725.

Le strutture di potere, politiche, religiose, economiche, tendono naturalmente a perpetuarsi nel tempo, autoriproducendosi secondo meccanismi differenti, ma simili nella finalità: i Papi nominano i Cardinali che eleggono i Papi; i gruppi dirigenti politici formano al loro interno i loro stessi successori, che vengono poi “democraticamente” scelti; i potentati economici sovente li “generano” fisicamente, nelle persone dei figli o dei nipoti, il cosiddetto “capitalismo famigliare”; lo stesso avviene nelle Monarchie ereditarie; le gerarchie lamaiste sceglievano da bambini i futuri Dalai Lama, per poi istruirli per lunghi anni nei palazzi e nei monasteri… Talvolta, però, l’ironia della storia fa sì che qualche sassolino entri negli ingranaggi, e ne sveli alcuni meccanismi…
Il “primo” Sesto, Tsanyan, che tali meccanismi aveva vissuto sulla propria pelle, forse per questo aveva scritto questi versi:

O Yama, specchio del mio karma,
Tu che siedi nel regno dei morti
Tu dovrai giudicarmi e garantirmi giustizia,
Poiché io, in questa vita, giustizia non ho avuto!


In effetti, ciò per cui il Sesto Dalai Lama è tuttora molto conosciuto ed amato dai Tibetani è proprio la sua opera poetica, oltre naturalmente alle particolari e storicamente controverse vicissitudini della sua esistenza.
I suoi versi ci sono pervenuti grazie alla sua stessa lungimiranza, in quanto si dice che li avesse consegnati personalmente al suo maggiordomo, poco prima di spirare sulle rive del lago.
Essi sono tradizionalmente divisi in due gruppi: una raccolta di una sessantina di componimenti più antichi, denominata “I canti di Tsanyan Gyatso”, più una di 459 canti, “I canti del Detentore di Sapienza Tsanyan Gyatso”, la cui paternità è meno certa.
Il principale argomento dei versi è l’amore, declinato in tutte le sue forme, con accenti di speranza, di dolore, di delusione. Essi descrivono bene la situazione in cui si trovava il giovane Tsanyan, tra le rigide regole religiose e le fughe dal palazzo del Potala per raggiungere i compagni di gioco e di bevute.
Per diminuire la portata scandalistica dei contenuti delle poesie, specchio di comportamenti ben poco ortodossi per un personaggio di quel rango, alcuni studiosi hanno cercato di proporne una lettura dottrinale, secondo la quale gli amori di cui si parla nei versi non erano amori profani, bensì sottili metafore degli insegnamenti segreti del buddhismo tibetano, forse alcuni insegnamenti delle scuole tantriche.
Come che sia, i versi appartengono sotto tutti gli aspetti (linguaggio, forme, contenuti) alla tradizione letteraria dei canti popolari tibetani, che si affianca alla grande produzione di testi religiosi. È un linguaggio semplice ma raffinato, ricco di immagini tratte dall’ambiente naturale. Lo stile è anticonformista, non convenzionale, e richiama quello della poesia del “pazzi”, molto diffusa in India (i canti degli yogi del Bengala) e poi in Tibet (Marpa, Milarepa): uno stile fortemente critico nei confronti della religiosità libresca e dell’ipocrisia del potente clero istituzionale.

Proponiamo alcuni esempi dei versi di Tsanyan, tratti dalla raccolta pubblicata nel 1993 dall’Editore Sellerio di Palermo. I versi, in origine trascritti di seguito, senza divisioni tra i vari canti, sono qui riportati in quartine (trad. dal tibetano di Erberto F. Lo Bue).


A oriente, dalla cima dei monti,
Bianca la splendente luna si levava.
Di una madre da cui non nacqui il volto
In mente mi tornava e ritornava.



A occidente, dalla cima dei monti,
Nubi bianche in cielo si levano e si levano.
Di sacro incenso un’offerta è certo
Per me, dalla rubacuori potente!

Quella persona di cui mi sono innamorato,
Se mia compagna di sempre divenisse,
Sarebbe come cogliere
Dal profondo dell’oceano una gemma.

I miei pensier verso lei vanno e rivanno.
Se verso la santa religione andati fossero,
In questa sola vita e con un corpo solo
Del Buddha la condizione raggiunto avrei.

Alcuni canti sono stati raggruppati ed utilizzati quale colonna sonora del film “Samsara” di Pan Nalin (2001):
Dell’ape la nascita presto è avvenuta;
Del fiore lo spuntar tardi è avvenuto.
Con la beneamata non predestinata
L’incontro è stato rinviato.
Dei fiori la stagione è svanita:
Dell’ape turchese l’animo non s’attrista.
Dell’amore il destino s’è compiuto:
Per questo io non m’attristerò.
Del virtuoso maestro ai piedi
Per chieder guida al cuore andai; ma
Il cuor mio fermarsi pur non potea:
Verso l’amore mio fuggì.
Richiamato, del mio maestro il volto
Nella mia mente non affiorerà.
Non richiamato, dell’amor mio il volto
Nella mia mente distintamente affiora.


Ed infine, due esempi di canti satirici nei confronti del clero:

Se verrà il maestro
Che con color zafferano scuro s’è cangiato,
Sul lago, in alto, un papero giallo
A guidar gli esseri senzienti vi sarà!

Se colui che ripete parole da altrui dette
Del triplice addestramento [morale, concentrazione, saggezza] l’insegnamento preserverà,
Un pennuto signor pappagallo
A insegnar religione vi sarà!



Testi utilizzati:

- Angelini, Tibet, mito e storia, Ed. Stampa Alternativa
- Laird, Il mio Tibet, Ed. Mondadori
- Marassi, Il buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture – Vol. I, Ed. Marietti
- Ngawang Lhundrub Dargye, La biografia segreta del Sesto Dalai Lama, Ed. Luni

- Tsanyan Ghiatso, Canti d’amore, Ed. Sellerio


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