Come noto, nel buddhismo non esiste un
unico “rappresentante” spirituale di tutte le tradizioni nelle loro
differenziazioni storiche e geografiche.
Come ha scritto il monaco zen Yushin
Marassi, “il buddhismo non ha mai avuto
autorità centrali, gerarchie curiali o strutture rigide e dove queste sono
comparse, nelle varie scuole nazionali, il loro ruolo è del tutto marginale se
non esterno alla tradizione buddhista intesa come religione, ovvero come via di
salvezza”.
Infatti, anche l’appellativo, attribuito
da molti occidentali al Dalai Lama, di “Sua Santità” (His Holiness, H.H.), che
immediatamente rimanda alla figura del Papa, non corrisponde, né
linguisticamente né semanticamente, a quello comunemente usato dai Tibetani, “Kundun”, traducibile con “La Presenza”.
Può anzi contribuire ad ingenerare la falsa convinzione che il Dalai Lama in
qualche modo “rappresenti” tutti i buddhisti nel mondo (fermo restando che
l’attuale Dalai Lama è – quasi –unanimemente riconosciuto da tutti i buddhisti
come uno dei grandi Maestri spirituali contemporanei).
Inoltre, le modalità con cui viene scelto
il Dalai Lama sono molto diverse da quelle con cui è nominato il Pontefice,
Vescovo di Roma e Vicario di Cristo (e tuttora capo politico di uno Stato
indipendente), che è sempre il risultato di una elezione, alla quale, a seconda
dell’epoca storica, hanno partecipato il popolo romano e i vescovi, fino ad
arrivare alla forma ancora oggi vigente della votazione segreta cui partecipano
i Cardinali riuniti in Conclave.
La tradizione tibetana ebbe inizio nel XII
sec., quindi quattro/cinque secoli dopo che il buddhismo si era diffuso in
quelle terre. Un Lama (traduzione tibetana del sanscrito guru, maestro spirituale) della scuola Kagyu prima di morire aveva indicato ad un discepolo le circostanze
in cui la sua volontà di proseguire sulla Via si sarebbe unita agli altri
elementi che compongono una nuova vita. Venne quindi identificato in un bambino
il primo di un lignaggio, quello dei Karmapa,
tuttora esistente.
Nel XIV sec. questa forma di successione
fu accettata e adottata da tutte le scuole del buddhismo tibetano, dando inizio
alla figura dei lama per nascita, detti in tibetano tulku, traduzione del
termine sanscrito nirmanakaya, cioè
“corpo di emanazione”, il corpo fisico con cui i Buddha compaiono nel mondo.
Secondo questa tradizione, le persone
comuni, a causa delle passioni e delle tracce karmiche non dissolte, vengono
alla luce senza poter modificare né arrestare il processo delle “rinascite”, e,
spinte dal desiderio, vagano nelle forme e nelle condizioni dettate dal karma. Invece, questi esseri santi
scelgono volontariamente di tornare (e con quali modalità) nel samsara (l'esistenza ciclica
condizionata, permeata di sofferenza) per aiutare coloro che si dibattono nel
dolore (è l’ideale del bodhisattva).
Il metodo dei tulku fu pertanto gradualmente adottato dalle scuole del buddhismo
tibetano. Si cominciò a cercare tra i bambini nati dopo la morte di un lama il
suo successore, sulla base di indicazioni, segni, indizi, lasciati dal lama
prima del decesso, o anche successivi (sogni, visioni, oracoli…), secondo una
metodologia che risente forse anche degli influssi delle tradizioni religiose
tibetane pre-buddhiste (Bon).
Nel XV sec., alla morte di Gedun Drup,
anche la scuola Gelug-pa introdusse
il metodo di successione secondo i tulku.
Lo stesso Gedun Drup (nipote di Lama Tzong Khapa, fondatore della scuola) fu
riconosciuto come prima manifestazione di Avalokiteshvara, Bodhisattva della Compassione. Nel 1578
il terzo tulku, Sonam Gyatso, divenne
il maestro spirituale di Altan Khan, re dei Mongoli, discendente di Gengis
Khan. In segno di devozione, Altan tradusse in mongolo il nome “Gyatso” (che significa “oceano”), che divenne
“Dale”, e poi “Dalai”. Quindi Dalai
(mongolo) = Gyatso (tibetano) =
Oceano. Dalai Lama equivale quindi a “Maestro Oceano” (probabilmente con
riferimento alla vastità e alla profondità degli insegnamenti del Buddha). Tale
titolo fu esteso retroattivamente ai due predecessori di Sonam Gyatso: il primo
Dalai Lama divenne pertanto il Terzo.
La figura del Dalai Lama quale
manifestazione del bodhisattva della
Compassione, Avalokiteshvara (in
tibetano Cenresig), rientra pertanto
nella tradizionale concezione buddhista delle rinascite, fermo restando
l’assunto della non-affermazione, da parte di tutte le scuole buddiste,
di un’anima o spirito immortale. Ed avendo ancor più presente il fatto che
tutte queste “teorie” non sono che provvisorie ipotesi, più o meno funzionali
al desiderio umano di comprendere con la mente una realtà di cui la mente
stessa fa parte. Una realtà priva di esistenza intrinseca, ed una mente che è
essa stessa ugualmente vacuità. Tale metodologia implica pertanto la morte di
una Dalai Lama quale presupposto necessario ed imprescindibile per
l’identificazione del suo successore.
Fatte queste doverose premesse, è
possibile comprendere meglio la singolarità di quanto accadde nel Tibet
all’inizio del XVIII secolo.
Nel 1697 salì al trono come Sesto Dalai
Lama Tsanyan Gyatso (“Oceano della
melodiosa voce di Brahma”), il quale apparteneva in linea paterna alla scuola
“degli Antichi”, Nying-ma-pa, e per
parte di madre all’ordine riformato Gelug-pa,
“i Virtuosi”. Poiché per evitare vuoti di potere la morte del Quinto Dalai Lama
era stata tenuta nascosta al popolo, il piccolo Tasnyan era rimasto per 14 anni
rinchiuso in una fortezza tra i monti, con i genitori e il tutore. Infine, nel
1697, fu insediato al trono come VI Dalai Lama.
Era un ragazzo intelligente, amante della
vita all’aperto, poco portato per gli studi filosofici, e ben presto si sentì
schiacciato dalle grandi responsabilità che il ruolo del Dalai Lama comporta.
Il Sesto Dalai Lama |
Quando a vent’anni (1702 o 1703) gli fu
imposto di prendere i voti monastici definitivi davanti al Panchen Lama, seconda autorità politica e spirituale del Tibet, il
Sesto si prosternò di fronte a lui tre volte, come da tradizione, poi annunciò
non solo di non voler assumere i voti definitivi, ma anche di voler restituire
anche i voti da novizio, minacciando addirittura il suicidio. Ritornò così allo
stato laicale, divenendo il primo e ad oggi ultimo Dalai Lama non monaco. Dopo
di allora, vestì e visse come un nobile capo di Stato nel palazzo del Potala a
Lhasa, uscendo a cavallo, partecipando a gare di tiro con l’arco, passando le
serate con gli amici e le concubine e scrivendo bellissime poesie. Il che era
piuttosto imbarazzante per l’alto clero tibetano, anche se il Sesto era oggetto
di assoluta devozione da parte della popolazione.
Ma a quel punto il Khan dei Mongoli
Lazhang, su istigazione dell’imperatore cinese Kangxi, spinse il clero a
destituire Tsanyan. Ottenne però solo una blanda dichiarazione, secondo la
quale il Sesto era veramente la manifestazione di Cenresig, anche se privo del principio di illuminazione (bodhi, la mente altruistica del
Risveglio). Il Khan intervenne di persona e lo fece prelevare con la forza
delle armi per poi trasferirlo in Cina (giugno 1706). Il Sesto fu ufficialmente
deposto, nonostante l’opposizione del clero buddhista, e scortato verso la
Cina. Quando le truppe mongole passarono davanti al monastero di Drepung, i
monaci con una sortita riuscirono a liberarlo. Ma il monastero venne preso di
mira dall’artiglieria mongola, e il Dalai Lama si riconsegnò spontaneamente
alla scorta, per evitare lo sterminio dei monaci. Il viaggio verso la Cina
riprese, ma sulle rive del lago Gongga-nor, nell’attuale Qinghai, Tsanyan morì,
forse assassinato, forse per malattia, nel 1706.
Questo dice la storia.
Ma secondo Ngawang Lhundrub Dargye, monaco
ed erudito, autore della “Biografia
segreta del Sesto Dalai Lama”, il giovane Tsanyan non morì, ma fuggì, si
travestì da pellegrino, trascorse lunghi periodi in ritiri spirituali sotto la
guida di grandi maestri, viaggiò per tutto il Tibet, il Nepal, l’India, la
Cina. Divenne così a sua volta un grande maestro buddhista, di cui l’autore del
testo fu discepolo. Morì infine nel 1757, anno in cui venne scritta la sua
biografia segreta.
A questo proposito l’attuale Dalai Lama,
il XIV, dice: “Ci sono due versioni sulla
sua morte. Al livello convenzionale, si dice che morì o fu ucciso durante il
viaggio verso la Cina. Al livello non convenzionale, invece, scomparve lungo la
strada per la Cina e ricomparve in seguito nel Tibet sudorientale, poi viaggiò
nel Tibet meridionale e raggiunse Lhasa e infine la Mongolia. Qui restò più o
meno altri trent’anni. Questo è il punto di vista non convenzionale”. Egli
compie così una lettura della storia del tutto inusuale dal punto di vista
tradizionale, “occidentale”, ma oltremodo interessante. Propone cioè la
possibilità di una duplice lettura, quella “classica”, detta convenzionale, ed
una più sottile, non-convenzionale, che potremmo chiamare “mitica”, la quale
non è assolutamente meno “vera” dell’altra. La realtà (non solo quella storica)
è fatta cioè di entrambe le visioni, del tutto intrecciate tra loro. Solo
tenendole presenti entrambe è possibile accostarsi maggiormente ad una sua
comprensione.
Può essere interessante vedere alcuni
sviluppi successivi alla deposizione del VI Dalai Lama: a partire dal 1706
(data “storica” della morte di Tsanyan), al Khan si presentò il problema di
ritrovare il “vero” Sesto, la vera incarnazione del Quinto Dalai Lama (fornito
cioè dello spirito del Risveglio). Lo trovò facilmente in un monaco che –
guarda caso! – pare fosse suo figlio naturale. Nel 1707 questi divenne il
“vero” Sesto, cosa che provocò una frattura insanabile tra il Khan e i tibetani
(anche l’imperatore cinese, prudentemente, lo riconobbe solo nel 1710). Se
l’ipotesi della compresenza di due Sesti è sostenibile solo nella presunzione
che il primo fosse veramente fuggito dalla “custodia” del Khan, è invece un
dato storico che nel 1712 venne scoperto a Litang un bambino riconosciuto come
rinascita di Tsanyan, e quindi come Settimo. Diversi capi mongoli si
schierarono a suo favore, ed anche l’oracolo di Stato, importante istituzione
del Tibet, proclamò la giustezza della scoperta.
A questo punto, nel Tibet si ebbe la
compresenza di un Sesto e di un Settimo Dalai Lama, se non addirittura di due
Sesti e di un Settimo!
Solo nel 1720, dopo un periodo di
conflitti, armati e non, tra le fazioni mongole e tra i monasteri delle diverse
scuole (Gelug e Nyingma), con la costante presenza politica e militare cinese,
il bambino di Litang, Kelsang Gyatso, entrò nel palazzo del Potala di Lhasa,
per diventare infine il Settimo Dalai Lama. Il “falso” Sesto, figlio del Khan,
morì invece a Pechino nel 1725.
Le strutture di potere, politiche,
religiose, economiche, tendono naturalmente a perpetuarsi nel tempo,
autoriproducendosi secondo meccanismi differenti, ma simili nella finalità: i
Papi nominano i Cardinali che eleggono i Papi; i gruppi dirigenti politici
formano al loro interno i loro stessi successori, che vengono poi
“democraticamente” scelti; i potentati economici sovente li “generano”
fisicamente, nelle persone dei figli o dei nipoti, il cosiddetto “capitalismo
famigliare”; lo stesso avviene nelle Monarchie ereditarie; le gerarchie
lamaiste sceglievano da bambini i futuri Dalai Lama, per poi istruirli per
lunghi anni nei palazzi e nei monasteri… Talvolta, però, l’ironia della storia
fa sì che qualche sassolino entri negli ingranaggi, e ne sveli alcuni
meccanismi…
Il “primo” Sesto, Tsanyan, che tali
meccanismi aveva vissuto sulla propria pelle, forse per questo aveva scritto
questi versi:
O
Yama, specchio del mio karma,
Tu
che siedi nel regno dei morti
Tu
dovrai giudicarmi e garantirmi giustizia,
Poiché
io, in questa vita, giustizia non ho avuto!
In effetti, ciò per cui il Sesto Dalai
Lama è tuttora molto conosciuto ed amato dai Tibetani è proprio la sua opera
poetica, oltre naturalmente alle particolari e storicamente controverse
vicissitudini della sua esistenza.
I suoi versi ci sono pervenuti grazie alla
sua stessa lungimiranza, in quanto si dice che li avesse consegnati
personalmente al suo maggiordomo, poco prima di spirare sulle rive del lago.
Essi sono tradizionalmente divisi in due
gruppi: una raccolta di una sessantina di componimenti più antichi, denominata
“I
canti di Tsanyan Gyatso”, più una di 459 canti, “I canti del Detentore di Sapienza
Tsanyan Gyatso”, la cui paternità è meno certa.
Il principale argomento dei versi è
l’amore, declinato in tutte le sue forme, con accenti di speranza, di dolore,
di delusione. Essi descrivono bene la situazione in cui si trovava il giovane
Tsanyan, tra le rigide regole religiose e le fughe dal palazzo del Potala per
raggiungere i compagni di gioco e di bevute.
Per diminuire la portata scandalistica dei
contenuti delle poesie, specchio di comportamenti ben poco ortodossi per un
personaggio di quel rango, alcuni studiosi hanno cercato di proporne una
lettura dottrinale, secondo la quale gli amori di cui si parla nei versi non
erano amori profani, bensì sottili metafore degli insegnamenti segreti del
buddhismo tibetano, forse alcuni insegnamenti delle scuole tantriche.
Come che sia, i versi appartengono sotto
tutti gli aspetti (linguaggio, forme, contenuti) alla tradizione letteraria dei
canti popolari tibetani, che si affianca alla grande produzione di testi
religiosi. È un linguaggio semplice ma raffinato, ricco di immagini tratte
dall’ambiente naturale. Lo stile è anticonformista, non convenzionale, e
richiama quello della poesia del “pazzi”, molto diffusa in India (i canti degli
yogi del Bengala) e poi in Tibet
(Marpa, Milarepa): uno stile fortemente critico nei confronti della religiosità
libresca e dell’ipocrisia del potente clero istituzionale.
Proponiamo alcuni esempi dei versi di
Tsanyan, tratti dalla raccolta pubblicata nel 1993 dall’Editore Sellerio di
Palermo. I versi, in origine trascritti di seguito, senza divisioni tra i vari
canti, sono qui riportati in quartine (trad. dal tibetano di Erberto F. Lo Bue).
A
oriente, dalla cima dei monti,
Bianca
la splendente luna si levava.
Di
una madre da cui non nacqui il volto
In
mente mi tornava e ritornava.
A
occidente, dalla cima dei monti,
Nubi
bianche in cielo si levano e si levano.
Di
sacro incenso un’offerta è certo
Per
me, dalla rubacuori potente!
Quella
persona di cui mi sono innamorato,
Se
mia compagna di sempre divenisse,
Sarebbe
come cogliere
Dal
profondo dell’oceano una gemma.
I
miei pensier verso lei vanno e rivanno.
Se
verso la santa religione andati fossero,
In
questa sola vita e con un corpo solo
Del
Buddha la condizione raggiunto avrei.
Alcuni canti sono stati raggruppati ed
utilizzati quale colonna sonora del film “Samsara” di Pan Nalin (2001):
Dell’ape
la nascita presto è avvenuta;
Del
fiore lo spuntar tardi è avvenuto.
Con
la beneamata non predestinata
L’incontro
è stato rinviato.
Dei
fiori la stagione è svanita:
Dell’ape
turchese l’animo non s’attrista.
Dell’amore
il destino s’è compiuto:
Per
questo io non m’attristerò.
Del
virtuoso maestro ai piedi
Per
chieder guida al cuore andai; ma
Il
cuor mio fermarsi pur non potea:
Verso
l’amore mio fuggì.
Richiamato,
del mio maestro il volto
Nella
mia mente non affiorerà.
Non
richiamato, dell’amor mio il volto
Nella
mia mente distintamente affiora.
Ed infine, due esempi di canti satirici
nei confronti del clero:
Se
verrà il maestro
Che
con color zafferano scuro s’è cangiato,
Sul
lago, in alto, un papero giallo
A
guidar gli esseri senzienti vi sarà!
Se
colui che ripete parole da altrui dette
Del
triplice addestramento [morale,
concentrazione, saggezza]
l’insegnamento preserverà,
Un
pennuto signor pappagallo
A
insegnar religione vi sarà!
Testi utilizzati:
-
Angelini, Tibet, mito e storia, Ed. Stampa Alternativa
-
Laird, Il mio Tibet, Ed. Mondadori
-
Marassi, Il buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture – Vol. I,
Ed. Marietti
-
Ngawang Lhundrub Dargye, La biografia segreta del Sesto Dalai Lama,
Ed. Luni
-
Tsanyan Ghiatso, Canti d’amore, Ed. Sellerio
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