Due vite, una storia
“Quando volerà l’aquila di ferro e i cavalli correranno su ruote, il popolo tibetano sarà disperso per tutto il mondo e il Dharma approderà alla terra dell’uomo rosso” (cioè l’Occidente). Così, nell’VIII sec. d.C., predisse Padmasambhava, il maestro che aveva portato il Dharma dall’India al Tibet. Ed oggi, mentre auto ed aerei sfrecciano sulla terra e in cielo, pare proprio che, a causa dell’invasione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese, la profezia di Padmasambhava si sia avverata.
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Padmasambhava |
La figura più nota della storia recente del Tibet e del Buddhismo tibetano è senza dubbio il XIV Dalai Lama. Ma molti altri maestri (nonchè semplici monaci e laici) hanno incarnato ugualmente nella loro stessa vita le parole della profezia. Tra loro, spicca la figura di Lama Thubten Yesce Rimpoce.
Lama Yesce nacque vicino a Lhasa nel 1935, in una famiglia contadina. A sei anni entrò nel monastero di Sera, dove vivevano 10.000 monaci. Lì rimase per 19 anni, proseguendo gli studi monacali, fino al 1959, anno dell’invasione cinese del Tibet. Fuggì a piedi in India, attraversando l’Himalaya, e visse in un campo profughi. Dal 1965, a seguito delle sue pressanti richieste, iniziò a dare insegnamenti ad una praticante di origine russa, e poi, dal 1969, a gruppi sempre più numerosi di occidentali, organizzando corsi e ritiri a Kopan, in Nepal. Disse a questo proposito: “Mi resi conto che l’attuale civiltà occidentale si fondava sul concetto che i valori materiali sono la cosa più importante della vita.. Ero convinto che il buddhismo tibetano avesse molti valori da offrire agli occidentali, che in gran parte sono privi della comprensione delle funzioni della mente.” Sviluppò quindi uno stile personale di insegnamento, al di fuori dei modelli tradizionali, per estrarne il significato essenziale, in un linguaggio più accessibile agli occidentali.
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Lama Yesce a Pomaia |
Nel 1974 Lama Yesce si recò negli USA, poi in Australia. E l’anno dopo viaggiò anche in Europa e in Italia, fondando ovunque centri di pratica (in Italia nel 1977 nacque grazie a lui l’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia – www.iltk.it). Per mantenere il collegamento tra i vari centri, diede vita alla Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana, strutturata in centri cittadini, centri residenziali in campagna, monasteri, centri di ritiro e case editrici. Dalla fuga dal Tibet in poi, tutta la sua vita fu dedicata a portare gli insegnamenti del Buddha agli occidentali, inverando la profezia di Padmasambhava. E lo fece fino alla sua morte, all’età di 49 anni, il 3 marzo 1984, in un ospedale di Los Angeles. Il suo corpo fu cremato nel centro di meditazione Vajrapani, in California, dai suoi stessi studenti.
Quasi un anno dopo, il 12 febbraio 1985, a Granada, in Spagna, nacque il quinto figlio dei coniugi Paco e Maria Torres, lui muratore e lei madre a tempo pieno. Il bambino fu chiamato Osel, che in tibetano significa “Chiara Luce”. Entrambi i genitori, infatti, erano praticanti buddisti, e nel 1977 avevano conosciuto Lama Yesce durante un corso di Dharma ad Ibiza, e ne erano divenuti discepoli. Sotto la sua guida avevano fondato presso Granada, in montagna, un centro di Dharma, che ricevette anche la visita del Dalai Lama.
Dopo la morte di Lama Yesce, il suo principale discepolo e successore, Lama Zopa, anch’egli fuggito dal Tibet nel ’59, aveva iniziato, secondo la tradizione tibetana, la ricerca della reincarnazione del suo maestro. Una traccia indicava un bambino occidentale nato in una famiglia di studenti di Lama Yesce. Un’altra aveva predetto il nome della madre, Maria. In sogno, Lama Zopa stesso aveva visto un bimbo, occidentale, che gattonava in una sala di meditazione. Altri segni ancora confermavano che Lama Yesce stava per riprendere una forma umana. Nel 1985, visitando i centri fondati dal suo maestro, Lama Zopa vide, nella sala di meditazione del centri di Granada, un bambino che si muoveva carponi sul pavimento: era Osel Torres. Lo osservò attentamente, e vide che il bambino si strofinava la testa come faceva Lama Yesce. Lo stesso Lama Yesce aveva detto ai coniugi Torres (che conservavano il video di quell’incontro): “So quanto avete fatto per il centro.. non vi dimenticherò mai, anche dopo morto. Abbiamo molto karma in comune”. La scelta di Osel quale rinascita di Lama Yesce stava prendendo forma. Lama Zopa scrisse al Dalai Lama, includendo Osel in una lista di dieci candidati, tra cui diversi tibetani e due occidentali. Nell’aprile 1986, Maria Torres fu invitata a recarsi a Dharamsala, in India, col bambino, per sottoporlo alle prove tradizionali. In una di queste, Lama Zopa raccolse alcuni oggetti posseduti da Lama Yesce e li mescolò con altri simili: un rosario, una campana.. Osel scelse subito il rosario giusto, poi prese la mano di Lama Zopa e la portò sulla campana del Lama defunto. Queste, ed altre prove ancora, convinsero definitivamente Lama Zopa che la ricerca era terminata: a soli 14 mesi, Osel era stato riconosciuto come reincarnazione di uno dei maggiori maestri del buddhismo tibetano del XX secolo, Lama Yesce. La cerimonia ufficiale di insediamento si svolse a Dharamsala nel marzo 1987. Lama Osel arrivò in braccio al padre, con l’abito dei lama, il cappello giallo e un gufo di peluche in mano. La cerimonia terminò dopo oltre tre ore.
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Lama Osel |
Alla domanda della giornalista inglese Vickie Mackenzie, autrice del libro “Reincarnazione. Il piccolo grande Lama”, se Lama Yesce e Lama Osel fossero esattamente la stessa persona, Lama Zopa rispose: “La meravigliosa pianta di rose che vediamo oggi non è che la continuazione della pianta di ieri. Allo stesso modo, la mente di Lama Osel è la continuazione della mente di Lama Yesce.. La mente associata a quel particolare corpo che fu chiamato Lama Yesce.. quello stesso continuum mentale associato a un corpo occidentale nato in Spagna ora porta una semplice designazione-etichetta attribuitagli: Osel. È la stessa continuità”. E a questo punto la scrittrice rammenta uno degli ultimi insegnamenti rilasciati da Lama Yesce, poco prima della morte. In risposta ad una domanda sull’identità, aveva detto, pizzicandosi il braccio: “Chi pensate che sia? Sono questo viso, questo braccio, questo corpo?”.
Chi nasce? Chi muore?Molto spesso i maestri di Dharma dicono che è importante non il cercare risposte, quanto imparare a porre le domande giuste, nel modo giusto.
Uno dei testi più importanti del Buddhismo Mahayana (tradizione diffusa in Tibet, Mongolia, Cina, Giappone, Corea..) è il cosiddetto Sutra del cuore, il cui titolo per intero è Prajnaparamita Hrdaya Sutra, il Sutra del cuore della Perfetta Conoscenza, un testo apparentemente semplice e devozionale, ma in realtà tra i più profondi e difficili di tutto il buddhismo (IV-V sec. d. C.). Ecco il testo dei primi versi:
“Così udii. Una volta il Bhagavan [il Beato, il Buddha] dimorava sul Picco dell’Avvoltoio vicino alla città di Rajgir. Egli era accompagnato da un gran numero di monaci e Bodhisattva. In quell’occasione, il Bhagavan era immerso in una particolare concentrazione, chiamata “ Profonda Apparenza”. Nello stesso momento il Bodhisattva, il Grande Essere, il Nobile Avalokiteshvara contemplava la pratica profonda della Perfezione della Saggezza. Egli vide che i cinque costituenti psicofisici [i cinque skanda, o aggregati: la corporeità, la sensazione, la percezione, la volizione, la coscienza] sono privi di una loro propria intrinseca natura.”
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Prajnaparamita, personificazione della Saggezza |
In un’altra traduzione, si dice che Avalokiteshvara, manifestazione della Compassione, “dall’alto guardò giù” e “scorse soltanto i cinque aggregati ed egli vide che nella loro essenza essi erano vuoti”. Dalla profondità della sua meditazione, egli “guarda al dolore del mondo e invece di vedere, come in un formicaio, il brulicare angosciato e agitato delle miriadi di uomini, esseri celesti, animali e esseri infernali, non vede nessuna persona, nessuna esistenza (..) Invece degli esseri viventi vede solamente i cinque aggregati, ossia i cinque elementi costitutivi di ogni essere vivente” (da “Il Buddhismo Mahayana” di M. Yushin Marassi). Dove una mente preda dell’ignoranza vede un “io”, una persona, lì la sapienza del Buddha vede il combinarsi degli aggregati.
Secondo questa visione, propria del buddhismo, noi, e con noi tutti i fenomeni, “non siamo esistenze autonome, non esistiamo di per sé ma siamo formati da parti assemblate assieme, che danno un’illusione di vera esistenza – che è la realtà di ogni giorno – perciò tutti gli esseri, dicendo “io”, proprio in quel modo, da se stessi creano colui che soffre. Ma non solo: anche i cinque elementi costitutivi degli esseri viventi, a loro volta sono vuoti, privi di reale esistenza” (Y. Marassi). E’ l’insegnamento della Vacuità (Sunyata in sanscrito, Ku in giapponese), assolutamente centrale nel buddhismo, secondo il quale vacuità è la vera natura di tutti i fenomeni (compreso l’io), che sono quindi privi di esistenza intrinseca, non-sostanziali. Vacuità non è quindi il nulla, la non-esistenza delle cose, ne è invece la vera natura (a causa del rischio di una errata interpretazione, si dice che la vacuità mal compresa è pericolosa come un serpente afferrato per la coda).
Così prosegue infatti il testo del Sutra:
“O Shariputra, i fenomeni non sono differenti dalla vacuità, la vacuità non è differente dai fenomeni. I fenomeni stessi sono vacuità, la vacuità stessa è i fenomeni. E per la sensazione, la percezione, la formazione mentale e la coscienza vale la stessa cosa.
O Shariputra, tutte le esistenze hanno il carattere della vacuità, sono senza nascita né estinzione, né pure né impure, non aumentano né diminuiscono.
E’ per questo che nella vacuità non vi è né forma, né sensazione, né percezione, né formazione mentale, né coscienza; né occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né coscienza. Non ci sono né colore, né suoni, né odore, né gusto, né tatto, né pensiero. Dunque nella vacuità non esiste ambito dei sensi. Non vi è né ignoranza, né cessazione dell’ignoranza, né illusione, né cessazione dell’illusione. Non vi è né degenerazione e morte, né cessazione della degenerazione e della morte.
Non vi è sofferenza, né causa, né cessazione, né Via. Non vi è né saggezza, né ottenimento, né non-ottenimento.
Per il Bodhisattva, grazie alla Grande Saggezza che conduce al di là, lo spirito è senza ostacoli e non conosce paura; ogni illusione e attaccamento sono allontanate. Può raggiungere il fine ultimo, il nirvana.”
Un altro testo che può aiutare ad avvicinarsi alla concezione buddista del sé è il “Milindapanha” (“I Dialoghi del Re Milinda”), del II-III sec. d.C., nel quale il monaco Nagasena propone al re Milinda il famoso esempio del carro. Il re chiede al monaco chi egli sia, se esista veramente Nagasena o se questo sia solo un nome vuoto. Ed il monaco risponde a sua volta chiedendo al re cosa sia il cocchio con cui questi era giunto fin lì. “E’ forse il timone il cocchio?.. E’ l’asse che è il cocchio?.. Sono le ruote, o il telaio, o le corde, o il giogo, o i raggi delle ruote.. che sono il cocchio?” Ogni volta il re non può che rispondere di no. E così pure risponde quando il monaco chiede se tutte le parti insieme siano il cocchio, o se esso sia alcunché al di fuori di esse. Così il re giunge alla corretta conclusione che quando si hanno tutte le parti insieme, allora si usa la comune designazione di “cocchio”. Ugualmente, quando vi sono gli skanda, gli aggregati, allora si parla di “essere”.
Ogni cosa dell’universo, per il buddhismo, esiste ed insieme non esiste. Esiste nelle modalità dell’interdipendenza di tutti i fenomeni e della loro impermanenza. Ogni cosa è, volta a volta, causa ed effetto: B esiste per causa di A, A e B fanno esistere C, e D esiste grazie ad A e B e C, e così via, fino a che A esiste a causa di B, C, D.. V, Z. Che esistono grazie ad A, B,… Il tutto proiettato nella dimensione temporale oltre che in quella spaziale. Ogni più piccola azione, parola, pensiero, quindi, condiziona tutto l’insieme.
Scrive il grande Maestro Nagarjuna: “Tutto l’universo è, invero, causa ed effetto, né c’è qui essere alcuno che sia altro da ciò… Non vi è nulla che possa essere sottratto e nulla che possa essere aggiunto. La realtà va vista secondo realtà: colui che così vede la realtà si libera”.
In questa visione, quale è il vero senso della domanda di Lama Yesce, “Chi pensate che io sia?”.
Una prima risposta la può dare un antico testo, il “Sutra di Ananda”. Vi si narra che un giorno un asceta di nome Vacchagotta chiese al Buddha: “Il sé esiste?”. Il Buddha restò in silenzio. Allora gli domandò: “Forse, il sé non esiste?”. Ed ugualmente il Buddha restò in silenzio. Allora Vacchagotta andò via. A quel punto, Ananda, il discepolo del Buddha, chiese al Maestro il motivo del suo silenzio. Ed il Buddha disse: Se avessi risposto sì, il sé esiste, avrei confermato le dottrine di quegli asceti che sono detti eternalisti. E se avessi risposto no, il sé non esiste, avrei confermato le dottrine dei nichilisti. E continua: Se avessi risposto sì, il sé esiste, “questo, o Ananda, avrebbe forse fatto nascere in lui la consapevolezza che tutti i fenomeni sono privi di sé?” No, rispose Ananda. “E se quando Vacchagotta mi domandava: Il sé non esiste? Io gli avessi riposto: No, il sé non esiste, non avrebbe forse fatto aumentare la perplessità e l’offuscamento nel già confuso Vacchagotta inducendolo a pensare: Il mio sé esisteva prima ed ora non esiste più?”
Altre parole, altre opinioni, scrive il monaco Zen Yushin Marassi nel libro sul Mahayana, farebbero solo dei danni. Porre il problema di chi o cosa rinasce, porre il problema di chi nasce e chi muore, vuol dire continuare a pensare, al contrario dell’insegnamento di Nagarjuna, che qualcosa può essere sottratto e qualcosa può essere aggiunto. Ma il ciclo di causa ed effetto non ha fine né inizio, e non necessita di un “io”. Anzi, ogni permanenza renderebbe impossibile il mutamento, il processo stesso della vita.
Ha scritto il M° Dogen nel “Bendowa” (“Il Cammino Religioso”): “Nel momento in cui tutti gli esseri davvero si dedicano completamente ad essere ciò che devono essere, tutto, sia le cose che gli esseri umani.. superando le distinzioni relative quali “me” e “altro da me”, e stabilendosi saldamente nella sorgente della vita, momento per momento fanno sbocciare l’assoluto modo in cui essere. Per questo ogni cosa canta la verità senza aggiungere nulla.”
m. Mauro Ton Ko, novembre 2006