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martedì 30 marzo 2021

Schegge di Dharma dal passato

 Un breve passo di San Girolamo (347-420 d.C.), Padre della Chiesa, tratto dal Libro I della sua opera Adversus Jovinianum, ci fornisce un’ulteriore prova del fatto che la figura del Buddha era ben nota in Occidente nei primi secoli dell’era cristiana. Nello scritto l’A. cita la vicenda della nascita del principe Siddhartha, e la utilizza nella sua polemica contro l’eretico Gioviniano, il quale disprezzava la verginità e la mortificazione cristiana, negando la verginità perpetua di Maria. Senza entrare nel merito se, come asserisce Girolamo, il concepimento e la nascita del futuro Buddha siano o meno avvenuti da una vergine (si vedano i capitoli V e VI del Lalitavistarasutra, tradotto dal francese in questo blog, e il I canto del Buddhacarita di Aśvaghoṣa), è qui importante osservare come il Buddha, l’episodio della nascita e i Gimnosofisti, cioè gli Yogi, siano citati da Girolamo con la stessa naturalezza con cui parla di Minerva, Bacco, Apollo…, cioè come se si trattasse di figure ed eventi già sufficientemente noti ai suoi lettori. 

Ecco il testo:

 Presso i Gimnosofisti dell'India si tramanda autorevolmente l'opinione secondo cui una vergine avrebbe generato dal suo fianco Buddha, il fondatore della loro dottrina. E non dobbiamo meravigliarci di questo nel caso dei Barbari, quando la dottissima Grecia supponeva che Minerva alla sua nascita fosse uscita dalla testa di Giove e Padre Libero [Bacco] dalla sua coscia. Anche Speusippo, figlio della sorella di Platone, e Clearco nel suo elogio di Platone, e Anasselide nel secondo libro della sua filosofia, riferiscono che Perizione, madre di Platone, fu violata da un'apparizione di Apollo, e altro non pensano se non che il principe della saggezza sia nato da una parto verginale. Anche Timeo scrive che la vergine figlia di Pitagora era a capo di una schiera di vergini e impartiva loro insegnamenti sulla castità. Si dice che Diodoro, il discepolo di Socrate, abbia avuto cinque figlie esperte in dialettica e distinte per la castità, delle quali anche Filone maestro di Carneade dà un resoconto completo. E nemmeno la potente Roma può rinfacciarci che il Signore Salvatore sia stato generato da una vergine, poiché si ritiene che i fondatori della città e del suo popolo siano nati dalla vergine Ilia e da Marte.

Icona di San Girolamo a Ravenna

Per quanto concerne poi la figura di Girolamo, fondamentale nella storia del Cristianesimo, si può fare riferimento a quanto disse di lui il Pontefice Benedetto XVI nel corso dell’udienza generale del 7 novembre 2007 (testo tratto dal sito www.vatican.va):

 Cari fratelli e sorelle,

fermeremo oggi la nostra attenzione su san Girolamo, un Padre della Chiesa che ha posto al centro della sua vita la Bibbia: l’ha tradotta nella lingua latina, l’ha commentata nelle sue opere e soprattutto si è impegnato a viverla concretamente nella sua lunga esistenza terrena, nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura.

Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione, inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane sentì l’attrattiva della vita mondana (cfr Ep. 22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l’interesse per la religione cristiana. Ricevuto il Battesimo verso il 366, si orientò alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si inserì in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito quasi «un coro di beati» (Cronaca dell’anno 374), riunito attorno al Vescovo Valeriano. Partì poi per l’Oriente e visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi. Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell’ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e opere patristiche (cfr Ep. 5,2). La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare la sua sensibilità cristiana. Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7) e avvertì vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana: un contrasto reso celebre dalla drammatica e vivace «visione», della quale egli ci ha lasciato il racconto. In essa gli sembrò di essere flagellato al cospetto di Dio, perché «ciceroniano e non cristiano» (cfr Ep. 22,30).

Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso, conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e culturali. Alcune persone dell’aristocrazia romana, soprattutto nobildonne come Paola, Marcella, Asella, Lea ed altre, desiderose di impegnarsi sulla via della perfezione cristiana e di approfondire la conoscenza della Parola di Dio, lo scelsero come loro guida spirituale e maestro nell’approccio metodico ai testi sacri. Queste nobili donne impararono anche il greco e l’ebraico.

Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contro Rufino 3,22; Ep. 108,6-14). Nel 386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14). A Betlemme restò fino alla morte, continuando a svolgere un’intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.

La preparazione letteraria e la vasta erudizione consentirono a Girolamo la revisione e la traduzione di molti testi biblici: un prezioso lavoro per la Chiesa latina e per la cultura occidentale. Sulla base dei testi originali in ebraico e in greco e grazie al confronto con precedenti versioni, egli attuò la revisione dei quattro Vangeli in lingua latina, poi del Salterio e di gran parte dell’Antico Testamento. Tenendo conto dell’originale ebraico e greco, dei Settanta, la classica versione greca dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta Vulgata, il testo «ufficiale» della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente revisione, rimane il testo «ufficiale» della Chiesa di lingua latina. E’ interessante rilevare i criteri a cui il grande biblista si attenne nella sua opera di traduttore. Li rivela egli stesso, quando afferma di rispettare perfino l’ordine delle parole delle Sacre Scritture, perché in esse, dice, «anche l’ordine delle parole è un mistero» (Ep. 57,5), cioè una rivelazione. Ribadisce inoltre la necessità di ricorrere ai testi originali: «Qualora sorgesse una discussione tra i Latini sul Nuovo Testamento, per le lezioni discordanti dei manoscritti, ricorriamo all’originale, cioè al testo greco, in cui è stato scritto il Nuovo Patto. Allo stesso modo per l’Antico Testamento, se vi sono divergenze tra i testi greci e latini, ci appelliamo al testo originale, l’ebraico; così tutto quello che scaturisce dalla sorgente, lo possiamo ritrovare nei ruscelli» (Ep. 106,2). Girolamo, inoltre, commentò anche parecchi testi biblici. Per lui i commentari devono offrire molteplici opinioni, «in modo che il lettore avveduto, dopo aver letto le diverse spiegazioni e dopo aver conosciuto molteplici pareri – da accettare o da respingere –, giudichi quale sia il più attendibile e, come un esperto cambiavalute, rifiuti la moneta falsa» (Contro Rufino 1,16).

Confutò con energia e vivacità gli eretici che contestavano la tradizione e la fede della Chiesa. Dimostrò anche l’importanza e la validità della letteratura cristiana, divenuta una vera cultura ormai degna di essere messa a confronto con quella classica: lo fece componendo il De viris illustribus (Gli uomini illustri), un’opera in cui Girolamo presenta le biografie di oltre un centinaio di autori cristiani. Scrisse pure biografie di monaci, illustrando accanto ad altri itinerari spirituali anche l’ideale monastico; inoltre tradusse varie opere di autori greci. Infine nell’importante Epistolario, un capolavoro della letteratura latina, Girolamo emerge con le sue caratteristiche di uomo colto, di asceta e di guida delle anime.

San Girolamo del Caravaggio

Che cosa possiamo imparare noi da san Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice san Girolamo: «Ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (Commento ad Isaia, prol.). Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev’essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio per ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio, che si rivolge anche a noi, e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell’individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell’ascolto della Parola di Dio è la Liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l’eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l’eterno, la vita eterna.

E così concludo con una parola di san Girolamo a san Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l’eternità, la vita eterna. Dice san Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità, la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).

 

 

mercoledì 30 maggio 2018

Enfants prodige!


Nel X capitolo del Lalitavistara Sūtra si è letto di come il giovane principe Siddhārtha, colui che sarebbe poi divenuto il Buddha Śākyamuni, sia stato condotto, preceduto da un corteo di diecimila donne e in compagnia di diecimila bambini, presso la scuola di scrittura, e di come abbia stupito l’insegnante elencandogli sessantaquattro tipi di scrittura, molti dei quali ignoti allo stesso docente. E di come Siddhārtha abbia poi recitato tutto l’alfabeto sanscrito, facendo corrispondere ad ogni lettera un preciso insegnamento di Dharma [http://zenvadoligure.blogspot.com/p/blog-page_20.html].

Più o meno nello stesso periodo in cui il Sūtra veniva composto, in un paese molto lontano dall’India del Nord un anziano padre di nome Giuseppe mandava presso la scuola di rabbi Zaccheo il giovanissimo figlio adottivo, di nome Gesù, del quale non aveva ancora compreso le reali qualità, affinché imparasse l’alfabeto.


 La vicenda è narrata in uno dei testi noti come Vangeli apocrifi, ovvero non autentici, erronei, esclusi dal canone, anche se il termine apocrifo deriva dal greco apokrutpto, e significa quindi più precisamente nascondere, occultare. Si tratta del Vangelo dello Pseudo-Tommaso, più noto con il titolo I fatti dell’infanzia del Signore, un testo apparentemente sconcertante, crudo, favolistico, ma in realtà molto profondo, oltre che di piacevole lettura.
L’incontro tra Gesù e rabbi Zaccheo è leggibile nella bellissima versione dello Pseudo-Tommaso pubblicata dall’Editore Einaudi alle pagine 34-36 di un dotto volume della collana I Millenni, curato da M. Craveri, che raccoglie molti testi apocrifi, tra i quali la Natività di Maria, la Storia di Giuseppe il falegname, il Vangelo di Pietro, i Vangeli gnostici di Tommaso, di Filippo, della Verità…, tutte opere senza le quali la letteratura e l’arte cristiana sarebbero infinitamente più povere. Ed anche, ci permettiamo di suggerire, ne sarebbero sminuiti anche molti aspetti della stessa devozione cristiana, nelle sue forme più popolari, ma non per questo meno sincere e significative.

Ha scritto Origene (185-254) in una sua omelia che “Ecclesia quattuor habet evangelia, haeresis plurima”. Ma per noi, questo non è che un ulteriore buon motivo per avvicinarsi anche a questi scritti…

La narrazione riportata nello Pseudo-Tommaso è molto breve, si tratta di poche righe.

Ma a partire da qui, in maniera del tutto fedele, il noto studioso di miti e simboli Robert Graves (1895-1985) ha sviluppato la vicenda all’interno del suo romanzo Io, Gesù, già pubblicato in Italia con il titolo Jesus Rex, nel quale ha raccontato la vita di Gesù-uomo mantenendo un perfetto equilibrio tra storia, mito, finzione letteraria, religione e filosofia, cultura ebraica, greca e latina.
Riportiamo, proponendone la lettura in parallelo con la vicenda “scolastica” di Siddhārtha, i passi del romanzo di Graves dedicati a Gesù studente dell’alfabeto ebraico (pag. 219 e seg.):

Robert Graves

Il rabbi [disse a Gesù]: “Affrettiamoci a iniziare insieme il nostro studio. Ti insegnerò tutto sull’alfabeto.”
Prese uno stampino di legno dalla cassetta dell’alfabeto e impresse una lettera su una tavoletta d’argilla. “Questa è la Alef, ragazzo, la prima lettera; di’ con me: Alef.”
Gesù ripeté docilmente: “Alef”.
“Esamina attentamente il carattere. È la Alef, ripeti la parola. “
E Gesù ripeté: “Alef”.
“Ancora una volta, per essere ben sicuri. “
“Alef.”
“Eccellente. Ora possiamo passare alla lettera successiva, che è la Bet. “
“Ma, rabbi – esclamò Gesù con disappunto –, non mi hai ancora insegnato la. Alef. Qual è il significato del carattere? Lo scrivano mi ha detto che certamente tu l’avresti saputo.”
L’insegnante fu sorpreso. “Alef significa. Alef vale a dire bue.”
“Sì, rabbi. So che Alef significa bue, ma perché il carattere ha la forma che ha? Somiglia alla testa di un bue con il giogo sul collo, ma perché è inclinato con un angolo così strano?”
Il rabbi sorrise e disse: “Pazienza, figliolo. Prima impara a conoscere le lettere e poi, se vorrai, a discuterne la forma. Ti dirò, tuttavia, una cosa a proposito dell’Alef. Si tramanda la leggenda che agli albori del tempo ci fu una disputa tra le lettere dell’alfabeto, ciascuna delle quali pretendeva il diritto di precedenza sulle altre. Perorarono la propria causa al cospetto del Signore, dilungandosi prolissamente. Soltanto Alef non disse nulla e non avanzò rivendicazioni. Il Signore si compiacque dell’Alef e promise che avrebbe iniziato i Dieci Comandamenti proprio con quel carattere; e così fece con ANOKHI ADONAI, “Io sono il Signore”. E una lezione, fanciullo, di modestia e silenzio. Allora, questa è la lettera Bet. Ripeti: Bet”.
 “Se mi ordini di dire Bet, dirò Bet. Ma io già conosco le ventisei lettere dell’alfabeto e so scriverle nell’ordine esatto, sia nei caratteri antichi sia in quelli moderni. Non hai intenzione di rispondere alla mia domanda sull’Alef? Perché sicuramente ogni carattere dell’alfabeto, se è davvero un’invenzione ingegnosa, deve rappresentare una qualche verità che con tale lettera è collegata. Forse il bue scuote la testa spazientito? Oppure è morto sul colpo?”
Il rabbi sospirò e disse con fermezza: “Torna a casa in pace da tuo padre, piccolo Gesù, prima che arrivino gli altri scolari, e digli da parte mia che deve mandarti da un insegnante più dotto di me”.
Gesù tornò tristemente da Giuseppe col messaggio del rabbi. Domandò Giuseppe: “Ma perché mai il rabbi ti ha rimandato a casa così presto?”
“Perché gli ho domandato il motivo per cui la lettera Alef ha la forma che ha, e lui non ha saputo dirmelo.”
Giuseppe si consultò con Maria e decise di mandare Gesù da un altro rabbi che godeva di grande fama di erudito e che insegnava all’altro capo della città.
Il giorno seguente Gesù si recò dal secondo insegnante al quale, nel frattempo, il primo aveva riferito cos’era accaduto; il secondo maestro era ben deciso a impedire al ragazzino di turbare le normali attività scolastiche ponendo domande impertinenti, come le definiva lui.
“E chiaro come il sole” disse il secondo insegnante. “Quel bambino ti ha preso in giro. Dev’essere stato quel furfante di scrivano ad aizzarlo.”
“Può darsi che tu abbia ragione, ma sembra un fanciullo innocente e non posso attribuirgli intenzioni così maliziose.”
Entrato nella nuova aula e salutato il maestro con reverenza, Gesù unì la sua voce al coro in risposta alla benedizione e poi si sedette sul tappeto a gambe incrociate assieme agli altri ragazzi, ma si sentì ordinare seccamente di alzarsi.
Si alzò.
“Sei venuto a imparare da me?” domandò il maestro. “Sì, rabbi.”
 “Ho saputo dal tuo precedente insegnante, il dotto rabbi Osea, che conosci già l’alfabeto. “E’ vero, rabbi.”
“Sei davvero un fanciullo istruito! Sei forse già un esponente della letteratura sacra?”
“Per grazia del nostro Dio ho mosso i primi passi, rabbi.”
“I primi passi, e come?”
“Ho iniziato con la lettera Alef.”
“Splendido, splendido! E senza dubbio avrai scoperto perché quel carattere ha la forma che ha?”
“Ho riflettuto sulla questione tutta la notte, pregando, rabbi, e stamattina mi è stata data la risposta.”
“Degnati di illuminarci con la tua prodigiosa rivelazione.”
Gesù aggrottò le sopracciglia, pensieroso, e poi disse: “Eccola. La Alef è la prima delle lettere, e la Alef è il bue che è il sostegno dell’uomo, il primo e il più onorevole dei suoi beni a quattro zampe”.
“Giustifica questa tua asserzione. Perché il più onorevole non è l’asino?”
“Il bue è menzionato prima dell’asino nel Comandamento contro il ricorso al malocchio.”
“Che impudenza! E perché non la pecora? Hai preso in considerazione la pecora?”
“Ho preso in considerazione la pecora, sebbene non sia menzionata nel Comandamento; e chiaramente il bue è più onorevole, come si arguisce dall’allegoria dei due matrimoni di Giacobbe: per prima ha sposato Lia, che sarebbe la vacca, e per seconda Rachele, che sarebbe la pecora.”
L’insegnante frenò la collera crescente e disse: “Prosegui, Hiram di Tiro!”
“La Alef, per come vedo io il carattere, è un bue offerto in sacrificio, col giogo ancora sul collo; ciò significa che lo studio della letteratura deve iniziare col sacrificio. Dobbiamo consacrare al Signore il nostro primo e più prezioso bene, che è simboleggiato dal bue aggiogato, vale a dire la nostra docile fatica finché non crolliamo morti. Ecco la risposta che mi è stata data.”
“Dimmi, sei venuto in questa scuola in qualità di allievo o in qualità di dottore della Legge?” esclamò l’insegnante parlando con il lento e cantilenante tono ironico che i suoi allievi avevano imparato a temere più dei suoi scoppi di rabbia.
Ribatté Gesù in tutta semplicità: “Ho sentito dire: ‘Chi semina raccoglie’. Mi hai domandato perché la prima lettera dell’alfabeto ha la forma che ha e ti ho fornito la spiegazione che mi è stata data in risposta alla mia preghiera. E questa è stata la mia semina. Quanto al raccolto, vorrei sapere, se sei disposto a seminare a tua volta, spiegandomi perché l’ultima lettera dell’alfabeto ha la forma che ha”.
Il maestro afferrò la verga di storace e avanzò verso Gesù bofonchiando in tono minaccioso. Domandò, pallido per la collera: “L’ultima lettera dell’alfabeto! Alludi alla lettera Tau, rabbi Gesù?”
“Non sono io il rabbi, tu sei il rabbi; ed è alla Tau che alludo.”
“La Tau è l’ultima lettera dell’alfabeto e la ragione della sua forma non è difficile da intuire. La Tau ha la forma di una croce, e la croce vergognosa è la fine alla quale sono destinati gli scolari impudenti che presumono di spaccare un capello in quattro col loro maestro. Gesù, figlio del falegname, attento! Poiché la sua ombra già incombe sul tuo cammino!”
Gesù balbettò: “Se ti ho offeso, rabbi, ne sono veramente dispiaciuto. Chiederò a mio padre di mandarmi a un’altra scuola”.
“Non prima che ti abbia punito come meriti, rampollo di stoltezza. Infatti sta scritto: ‘La stoltezza risiede nel cuore di un fanciullo, ma la verga del castigo l’allontanerà’. Col fanciullo stolto e presuntuoso non ho pazienza; e il fanciullo assennato ha timore della mia verga.”
Rispose audacemente Gesù: “Rabbi, considera bene ciò che ci stai dicendo. Non conosci l’opinione del dotto Hillel: ‘Un maestro iracondo non sa insegnare, né un fanciullo impaurito può imparare?’”
Era più di quanto il maestro potesse tollerare. Calò la verga con tutta la sua forza sul capo di Gesù, e la verga volò in mille pezzi.
 Gesù non batté ciglio né tentò di difendersi, ma rimase a fissare l’uomo adirato, il quale tornò al suo scranno e cercò di riprendere la lezione. Ma all’improvviso si portò le mani all’altezza del cuore e stramazzò in avanti, morto.
Così si concluse l’istruzione scolastica di Gesù, poiché nessun altro rabbi di Leontopoli lo voleva come allievo. Nei mesi che seguirono, i passanti lo segnavano a dito per strada, scuotendo il capo e borbottando: “Ecco il ragazzo che ha ucciso il suo maestro facendo domande impudenti! Eppure dicono che quel dotto gli abbia risposto per le rime prima di morire e gli abbia predetto che sarebbe finito sulla croce dei criminali”.



Da leggere:

M. Craveri (a cura di), I Vangeli Apocrifi, Ed. Einaudi
R. Graves, Io, Gesù, Ed. Longanesi
R. Graves, I miti ebraici, Ed. Longanesi
R. Graves, I miti greci, Ed. Longanesi

mercoledì 28 marzo 2018

Buddha, Francesco, Dante e il Papa - II parte


Il saggio di Silvia Ronchey è stato pubblicato su la Repubblica del 30 novembre 2017 con il titolo:

Buddha, Dante e il segreto di Francesco

Francesco e Buddha. Un accostamento logico, per chi si interessa anche solo un po' di storia delle spiritualità e delle religioni, eppure inusuale, almeno in apparenza, quello tracciato da papa Bergoglio nel suo viaggio in Birmania, davanti al consiglio supremo sangha dei monaci buddisti a Rangoon, tra le parole del Buddha e di san Francesco. Un riferimento a quella che non a caso Bergoglio ha chiamato la “sapienza” francescana, a indicare una volta di più una profonda conoscenza del francescanesimo nel papa che per primo ha scelto il nome di Francesco, unita a una altrettanto profonda aderenza, nel primo papa gesuita, alla tradizione della Compagnia di Gesù. Come sempre dietro le sue parole solo in apparenza semplici c’è una sofisticata cultura e uno strato molteplice di rimandi e significati destinati ad essere intesi, per dirla coi vangeli, da chi ha orecchie per intendere. Spesso, e specie di questi tempi, si sono accostati Buddha e Cristo. Un accostamento non solo legato alla crescente diffusione del buddismo in occidente, ma collegato a un sincretismo antico, che dalla predicazione nestoriana e manichea attraverso il culto medievale, bizantino, poi occidentale, di “san Buddha” (Ioasaf, metamorfosi cristiana del bodhisattva venerato nel sinassario costantinopolitano e poi incluso da Baronio e Bellarmino nei Martirologio Romano, al tempo della Controriforma) arriverà a Tolstoj, a Hesse, a Thomas Merton. Non si era invece mai sentito, almeno nella cultura diffusa, né certo dalle labbra di un papa, accostare direttamente Buddha e Francesco. Eppure anche questo è un accostamento antico, che si trova, come la lettera rubata di Poe, sotto gli occhi di tutti. Lo si può scorgere, a guardare bene, nel testo più noto e diffuso della letteratura italiana in particolare e medievale in generale, la Commedia di Dante. Nell’undicesimo canto del Paradiso, in quello che viene di solito chiamato l’Elogio di Francesco (vv. 43 sgg.), là dove Dante prende a narrarne la storia a partire da una descrizione geografica minuziosa e visionaria, quasi aerea, del luogo di nascita tra la “fertile costa” che digrada verso la valle di Spoleto e verso Perugia e il “grave giogo” montano del Subasio che incombe opprimente (“e di retro le piange”) su Nocera e Gualdo Tadino, due terzine hanno fatto riflettere quanto meno per la stranezza e ricercatezza delle rime che precedono l'affiorare, nella toponomastica umbra, di un nome inaspettato: quello del Gange. Dalla cortina di monti appena evocata (“Di questa costa”), nel punto dove si fa meno ripida (“là dov’ella frange / più sua rattezza”), scrive Dante, “nacque al mondo un sole, /come fa questo tal volta di Gange” (vv. 48-51). L’evocazione improvvisa del fiume indiano, folgorante quanto l’epifania di un nuovo sole, annunciata dai verbi “piange” e “frange”, ha dato da pensare agli studiosi, che l’hanno in genere interpretata, non senza esitazioni, come mera espressione di un punto cardinale: l’oriente, da cui appunto sorge il sole. Non fosse che la parola Oriente ricorre due versi dopo, a identificare il borgo stesso di nascita di Francesco: Assisi, che Dante denomina direttamente “Ascesi”, ma che, aggiunge drastico, è limitativo chiamare con questo nome e non denominare invece tout court Oriente (“Perché chi d'esso loco fa parole / non dica Ascesi, che direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vole”).

 Possiamo dire che in questa elaborata evocazione del manifestarsi al mondo di un illuminato, che sorge all’umanità come “fa a volte” dal Gange, in un luogo il cui nome già evoca la disciplina ascetica degli antichi monaci orientali, ma che di fatto è di per sé un Oriente, si avverte l’eco della profezia della venuta di quel nuovo Buddha, la cui rinascita è attesa nella letteratura canonica di tutte le scuole buddhiste? La questione è più complessa. Il canto XI del Paradiso è stato costruito da Dante in maniera simmetrica al XII, quello su san Domenico. Il comune riferimento al sole e il ricorrere dell'espressione “tal volta” eliminano ogni dubbio sul fatto che i due passi vadano letti insieme. Ma, facendolo, non si può non concludere che, dei due pilastri della cristianità, uno, Francesco, è considerato da Dante “orientale”. Quanto al Gange, ricorre altre due volte nella Commedia, in due passi del Purgatorio (II, 5 e XXVII, 4). Paragonando le tre occorrenze, non si può non concludere che per Dante l’origine della particolare illuminazione portata all’umanità dal “sole” Francesco è l’Oriente e che con Francesco ha inizio un nuovo ciclo. Sarebbe quindi certamente troppo dire che l'intenzione di Dante è indicare in Francesco un Maitreya, un “re del mondo” che tramite l’illuminazione completa moltiplicherà i suoi discepoli unendo tutte le scuole. Ma nelle due terzine dell’undicesimo del Paradiso non si può non avvertire almeno un’eco di quella tradizione orientale, almeno una remota conoscenza della dottrina buddista, che non stupirebbe troppo in Dante e si aggiungerebbe alle sue sorprendenti conoscenze della mistica medievale globale.
Una sterminata letteratura è stata dedicata dai dantisti al rapporto di Dante con le tradizioni mistiche orientali: a volte in un filone quasi fantasy come quello del Dante di Guénon, preceduto e seguito da una pletora di altri studi e letture esoteriche della Commedia; a volte in saggi rigorosamente accademici, come ad esempio, in Italia, quelli di Marco Ariani, o in studi particolari sul rapporto tra Commedia, buddismo e induismo. Una altrettanto sterminata letteratura è stata dedicata dai francescanisti al rapporto privilegiato e intenso dei francescani con l’oriente, vicino ed estremo. Un fenomeno di portata colossale, di cui solo una pallida traccia affiora dai meravigliosi frammenti bizantini della predica di Francesco agli uccelli della Kalenderhane Camii, oggi al Museo Archeologico di Istanbul. Sappiamo che già nel XIII secolo i francescani tornarono dall'oriente con repertori accurati di preghiere buddhiste ed elenchi dei bodhisattva. Pensiamo a un personaggio come Giovanni da Montecorvino, vissuto a Pechino dal 1294 al 1328, fatto dal papa vescovo di Khan Baliq. I francescani dei primi del Trecento avevano probabilmente più informazioni sul buddismo degli intellettuali di epoche successive. Il punto è cosa fecero di queste informazioni. Certamente la messe di materiali circolò per via orale, nei cenacoli intellettuali italiani ed europei. Ma non innescò alcun orientalismo. Bisognerà aspettare, per questo, i gesuiti del Seicento.
Ed ecco, il cerchio si chiude. Che un papa gesuita, devoto di Francesco tanto da prenderne il nome, sette secoli dopo la stesura della Commedia e il circolare in Italia e in Europa di una visione che, se non assimilava direttamente Francesco al Buddha, certamente usava per descriverne la statura mistica categorie e immagini vividamente orientali, decida di avvicinare esplicitamente i due sapienti, di presentarli contigui, è un fatto storico. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

Di Silvia Ronchey si legga il recente libro:

La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto, Ed. Rizzoli