sabato 27 aprile 2013

Zen & Tai Ji

Pubblichiamo un altro articolo del maestro Zen Dario Doshin Girolami, responsabile del Centro Zen L'Arco di Roma (http://www.romazen.it/), autore della prefazione al volume "Tornare a casa - Un commento zen all'Odissea" di Norman Fischer (http://zenvadoligure.blogspot.it/2013/04/lo-zazen-di-odisseo.html).
Qui Doshin Girolami parla della pratica del tai chi chuan (tai ji quan), di cui egli stesso è insegnante, come forma di meditazione in movimento.


Il maestro Yang Cheng Fu (1883-1936)

"TAI CHI CHUAN, L'ARTE DI MEDITARE IN SOGNO

Chi non si è incantato almeno una volta nel guardare i movimenti lenti, sinuosi del Tai chi chuan, magari avendo l'impressione di vedere qualcuno che si stava muovendo sott'acqua, o, meglio ancora, in un magico liquido trasparente capace di sospendere il fluire del tempo? Non è un caso infatti che tale arte venga praticata, soprattutto in Occidente, per promuovere la longevità, il benessere fisico e la salute. 
Ora, è sicuramente vero che la pratica costante del Tai chi chuan costituisca un ottimo metodo terapeutico, ma questo certo non esaurisce i suoi scopi. Infatti è anche un efficacissima arte marziale e un'antica forma di meditazione. 
Per quanto possa sembrare difficile da credere, quei sinuosi ed eleganti movimenti che caratterizzano quest'arte sono, di fatto, movimenti marziali, sono cioè una serie di parate, attacchi e schivate. Certo, si tratta comunque di un'educazione al combattimento alla cui base c'è il principio dell'armonia, pertanto ogni azione è di natura difensiva e non offensiva e mira a scoraggiare l'avversario piuttosto che a eliminarlo. 
Ma questi movimenti, questi stessi movimenti, costituiscono anche una forma di meditazione in movimento. Ora, l'obiettivo fondamentale della meditazione orientale, e in particolare di quella buddhista, è lo sviluppare una consapevolezza costante e onnipervadente. Per poter arrivare a ciò ci si educa a focalizzare la propria attenzione sul respiro, sulla postura, o, nel caso della meditazione camminata, sul movimento del corpo collegato al ritmo respiratorio. Non diversamente, il Tai chi chuan educa alla consapevolezza del corpo in movimento, movimento che, per di più, è estremamente complesso e articolato, il che costringe a una maggiore e più costante attenzione. 
Il lento e armonico fluire da una figura all'altra che caratterizza l'esecuzione del Tai chi chuan ricorda il fluido movimento dell'acqua che scorre senza opporre resistenza. Ciò richiama anche alla mente le Nobili Verità del buddhismo, infatti in esse si afferma che tutto è sofferenza, che tutto è privo di un io sostanziale, ma anche che tutto è impermanente, transeunte, in continuo movimento e che la causa di tale sofferenza deriva dall'attaccamento: semplificando potremmo dire che l'attaccarsi, il resistere al continuo, mutevole fluire della realtà genera la sofferenza esistenziale. In accordo con ciò l'arte del Tai chi insegna a fluire con la realtà, a non opporre resistenza alla costante mutevolezza, e a fondersi in un'armonica danza con questo movimento cosmico, così come non bisogna opporre resistenza, nel combattimento, agli attacchi dell'avversario, ma farli "scorrere via". Inoltre lo studio del combattimento si rivela essere di enorme stimolo allo sviluppo della consapevolezza, infatti trovandoci di fronte a una persona determinata a colpirci, come se non grazie alla consapevolezza potremmo riuscire a rimanere illesi? 
Si dice che tutte le arti marziali servano anche (o forse sarebbe meglio dire soprattutto) ad affrontare le proprie paure, i mostri nascosti nel proprio inconscio: questo è particolarmente vero per il Tai chi chuan. Per poter meglio combattere le proprie paure occorre calarsi in maniera cosciente nella dimensione onirica, in altre parole si tratta di imparare a essere consapevoli del fatto che si sta sognando e poi divenire in grado di agire volontariamente e consciamente nel sogno, cioè nella dimensione inconscia, il che vuol dire annullare la consueta differenziazione tra veglia e sonno. Se è vero che la via spirituale deve condurre al supremo risveglio, allora tale risveglio che si esprime in una totale e costante consapevolezza, deve andare anche a illuminare le dimensioni più oscure e recondite del nostro sé. 
Non è un caso dunque che il Tai chi chuan, inteso come via alla trascendenza, insegni anche a dominare il sogno: il praticante viene costantemente invitato a osservare consapevolmente le proprie mani nel corso dell'esecuzione della forma. Una volta che tale capacità sarà ben acquisita si potrà cominciare a eseguire l'esercizio di ritrovare le proprie mani in sogno: questo è il primo passo per arrivare a sognare secondo volontà, e dunque affrontare in un combattimento onirico i fantasmi, le ombre che albergano dentro di noi e a sconfiggerle con le tecniche marziali. Ma questo superare le proprie paure apre la porta alla possibilità di dirigere a volontà il sogno, di interrogare il proprio inconscio e dunque di conoscersi, al fine di divenire una persona che ha completamente armonizzato la parte luminosa di se stessa con la parte oscura, e che armonicamente si muove e vive all'interno di un vibrante cosmo."

Li Rong Mei, maestro di Tai Ji e Wushu


lunedì 22 aprile 2013

Buddhismo e filosofia presocratica

Si vuole qui condividere una pagina che Richard Gombrich, uno dei maggiori indologi viventi, ha dedicato al tema del confronto tra il buddhismo e la filosofia dell'antica Grecia prima di Socrate, facendo rilevare delle ineressanti analogie, sulle quali può essere utile interrogarsi, in quanto occidentali e, nel caso, in quanto praticanti della via del Dharma.
Il testo è pubblicato alle pagine 174-175 del volume "Il pensiero del Buddha", pubblicato da Adelphi nel 2012, in cui Gombrich evidenzia in quale misura e con quali modalità il Buddha abbia attinto al vocabolario e al patrimonio del Brahmanesimo (e del Jainismo), in particolare per quanto concerne nozioni fondamentali quali il karma, l'impermanenza, il non-sè.



 Scrive Gombrich:

"Vorrei concludere questo capitolo con un'ipotesi di portata ancora maggiore. Sebbene il Buddha non si considerasse un filosofo, di certo propugnò alcune ragguardevoli idee filosofiche; la più notevole è probabilmente quella che lo indusse a sostituire dei processi alle cose quali sono comunemente intese. Un esempio saliente è la sua dottrina dei cinque khandha, secondo cui quella che normalmente concepiamo come una persona è costituita da un insieme di cinque processi, i quali per di più non sono casuali, ma condizionati da un insieme di cause. Spero di aver mostrato che egli potrebbe aver tratto quest'idea proprio dalla considerazione della natura del fuoco, che vide non come una cosa - e tanto meno come un dio -, ma come un processo, e per giunta un processo causalmente condizionato.

C'è una sorprendente somiglianza fra il Buddha ed Eraclito, che visse nella Ionia (la moderna Turchia), ed era probabilmente quasi contemporaneo del Buddha – quest’ultimo è posteriore solo di pochi anni. Della sua opera ci sono pervenuti pochi frammenti; il suo detto più famoso è “panta rhei”: “tutto scorre”. Ma Eraclito disse anche: “Non è possibile immergersi due volte nello stesso fiume”. In altre parole, egli condivise l’intuizione del Buddha che vede il nostro mondo come un flusso costante: un mondo di processi. Si suppone che nella successione intellettuale egli sia seguito a Talete, il quale sosteneva che tutto era in ultima analisi fatto di acqua, e ad Anassimene, il quale affermava che invece tutto era fatto di aria. Eraclito proclamò che era il fuoco l’elemento fondamentale, il materiale da cui tutto veniva e in cui tutto ritornava.

Inoltre, come ho scritto nel precedente capitolo, la concezione vedantica secondo cui la vera realtà è eterna e immutabile ricorda la concezione del filosofo presocratico Parmenide. Quella di Eraclito era probabilmente una risposta a Parmenide, proprio come quella del Buddha lo era alle Upanisad. Non credo che Eraclito possa aver influenzato il Buddha, e tanto meno l’opposto, ma vale la pena di notare che anche nell'antica Grecia il fuoco sembra aver suggerito a qualcuno la concezione di un mondo in perpetuo mutamento."

Eraclito di Efeso (535-475 a.C.)




martedì 16 aprile 2013

Lo zazen di Odisseo

Non di rado nella pratica del sedere nella quiete, la si chiami zazen, yoga, preghiera o altro, è possibile percepire la sensazione di un desiderio di “ritornare a casa”.

E se si osservano con attenzione le motivazioni per cui si inizia a seguire una via spirituale, che possono essere riassunte con parole quali: sofferenza, disagio, insoddisfazione, si potrà altrettanto vedere che esse assumono talvolta la forma di una sorta di “nostalgia” di un qualcosa di non facilmente definibile.

Nella cultura occidentale – ma da quando la cultura ha assunto una connotazione geografica? – nessuno ha espresso tali sentimenti meglio di quella figura archetipica nota come Odisseo (Nessuno, appunto).

Percorrere il Sentiero, quindi, come desiderio di ritornare a casa... e poi di partire nuovamente.

È il nesso che il maestro zen americano Norman Zoketsu Fischer ha colto nei versi di Omero, e che ci propone nella raccolta di commenti-insegnamenti "Tornare a casa", pubblicata nel 2010 dalle Edizioni La Parola di Roma (si veda: 
http://www.laparola.eu/ )

Riportiamo qui di seguito la Prefazione all'edizione italiana dell'opera di Fischer, scritta da Dario Doshin Girolami, monaco zen ed insegnante presso il Centro Zen L’Arco di Roma. 


PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA 

Forse in molti ricordano quando, negli anni Settanta, la Rai mandò in onda per la prima volta L'Odissea, con Bekim Femhiu.
Con i vecchi monitor a bianco e nero e la ricezione nebulosa, si aveva quasi l’impressione di guardare il vero Ulisse, attraverso un cronovisore che, come una finestra sul tempo, ci faceva vedere in diretta le sirene attirare i marinai, o il ciclope scagliare massi. Finalmente i personaggi che avevamo immaginato sui banchi di scuola avevano un volto. Ma da sempre l’Odissea appartiene profondamente alla nostra cultura, tanto che molti luoghi del nostro paese hanno nomi connessi a tale poema. Per esempio Scilla e Cariddi, le isole Eolie, il monte Circeo. 
Per farci conoscere lo Zen, Norman Zoketsu Fisher, da compassionevole maestro quale è, piuttosto che usare antiche storie cinesi - come fanno normalmente i libri sullo Zen - e per aprirci la mente e il cuore, usa le storie dell'Odissea, storie che ci appartengono e che dunque sono assolutamente comprensibili alla mente occidentale. 
Inoltre, abilmente l’autore affianca all’antica saggezza Zen citazioni dal Cristianesimo, dall'Ebraismo, dalla teologia e dalla filosofia, attingendo alla sua unica e unificante visione della vita. Quindi, come tutti i veri libri Zen, questo è un libro Non Zen. Il Maestro Zoketsu, infatti, riesce ad andare al di là del linguaggio dello Zen, puntando dritto verso quella patria spirituale che appartiene a tutti gli esseri. 
Quando Odisseo - o Ulisse per i latini - torna a Itaca, il primo a riconoscerlo, al di là di ogni mascheramento, è il cane Argo, che "rizzò muso e orecchie". Ma nell’edizione originale greca Omero ci dice che Argo "noèin" con il muso. Il verbo noein vuoi dire annusare, fiutare e indica la capacità di subodorare, di presentire, di accorgersi istintivamente di qualcosa. 

Dopo Omero il verbo è divenuto il termine per indicare il pensare. Ma anche quando questo termine si è sviluppato con un significato tecnico, ha sempre indicato un’apprensione in qualche modo diretta, immediata, un’intuizione, opposta a forme di pensiero discorsivo. E la pratica Zen ha proprio a che vedere con il silenziare la mente logico discorsiva per permettere a un pensiero più profondo di sorgere. Un pensiero diretto, intuitivo perfettamente aderente a quello che è la realtà, un pensiero immediato, cioè senza mediazioni. Attraverso questo libro Norman Fisher sembra proprio volerci insegnare a pensare in questo modo, cioè a "pensare il non-pensiero", come si dice nella tradizione Zen. Non è un caso che un famoso koan zen – cioè uno di quei famosi indovinelli irrisolvibili razionalmente usati dalla tradizione per aprire la mente del praticante - domanda: "Un cane ha la natura di Buddha? " 
Ma c'è di più. Poiché lo Zen è essenzialmente una pratica, ogni capitolo si conclude con un esercizio pratico di meditazione. Passo dopo passo il lettore viene condotto lungo il viaggio interiore attraverso una serie di pratiche profondamente utili a chi intende avvicinarsi alla meditazione Zen ma anche a tutti quelli che intendono seguire un cammino spirituale, o meglio, un viaggio di ritorno a casa.

Ho incontrato Norman Zoketsu Fisher per la prima volta a un reading in memoria del poeta beat e monaco zen Philip Whalen. Sul palco del teatro dell’Università di San Francisco si sono succeduti poeti e scrittori come Michael McClure, Diane di Prima, Leslie Scalapino, Jane Hirschfield e tanti altri. Gli ultimi poeti della beat generation erano venuti a recitare o a improvvisare poesie per il loro amico scomparso Philip Zenshin Whalen. E a guidare la serata c’era Norman, anche egli poeta e scrittore. Mi sembrò di stare davanti a un personaggio uscito da un libro di Jack Kerouak, o meglio, uscito da un antico libro zen: monaco zen, poeta, montanaro, allo stesso tempo saggio e divertente. L’insegnamento di Norman è noto per essere eclettico, aperto, avvolgente. La sua poesia è nota per le innovazioni linguistiche, lo humor e per la profondità spirituale. È quindi con grande gioia che presentiamo al pubblico italiano la presente opera, che ben rappresenta le tante qualità di Fisher, compresa la sua capacità di adattare il linguaggio Zen alla cultura occidentale.
I passi dell’Odissea citati nell’edizione originale di quest’opera, provengono da diverse versioni inglesi del poema Omerico. Per l’edizione italiana, piuttosto che ritradurli, per evitare così il doppio rimbalzo greco-inglese-italiano, abbiamo invece preso i passi corrispondenti dalla moderna e precisa traduzione italiana dell’Odissea di Rosa Calzecchi Onesti, pubblicata da Einaudi. 
Nel testo originale Fisher si riferisce costantemente all’eroe del poema omerico come Odisseo, preferendo il nome greco al nome latino Ulisse. Sebbene in italiano l’eroe sia più conosciuto come Ulisse, abbiamo preferito rimanere fedeli alla non casuale scelta dell’autore e usare per tutto il testo il nome Odisseo. 
L’augurio è che il presente libro, oltre ad avvincere gli adepti del Buddhismo, possa avvicinare allo Zen anche tutti quelli che hanno amato l’Odissea, che hanno pensato, almeno una volta, che l’Odissea, oltre a un poema epico, è un grande manuale spirituale e anche a tutti quelli che, come Odisseo, "molti dolori patirono in cuore sul mare, lottando per la vita e pel ritorno". 

Dario Doshin Girolami

Centro Zen L'Arco - Roma 


Dario Doshin Girolami ha ricevuto la Trasmissione del Dharma da Eijun Linda Cutts, badessa del San Francisco Zen Center - Green Gulch.
Ha cominciato a praticare nel 1986 ed è stato ordinato monaco Zen da Zenkei Blanche Hartmann presso il San Francisco Zen Center - fondato da Shunryu Suzuki Roshi.
Zenshinji-Tassajara, Hosshinji-City Center, Soryu-ji-Green Gulch. Questi i monasteri frequentati da Doshin per completare la formazione di monaco e insegnante. 
Oltre a essersi laureato in Religioni e filosofie dell'India e dell'Estremo Oriente con Corrado Pensa all'Università La Sapienza di Roma, ha studiato al seguito dei maestri Zen Thich Nhat Hanh e Maezumi Roshi, e ha ricevuto l'iniziazione ad Avalokiteshvara da Sua Santità il Dalai Lama. 


http://www.romazen.it/ 

domenica 14 aprile 2013

Primavera cinese

Riportiamo qui i versi "primaverili" di alcuni poeti della dinastia Tang, che dominò la Cina dal 618 al 907 d.C.

Alba di primavera

Profondo sonno di primavera non vede l’alba.

Intorno intorno suona canto d’uccelli. 
A notte scroscio di pioggia e vento: 
i fiori caddero, quanti? 

Meng Hao-jan (Meng Haoran, 689-740)

Meng Haoran


Canto di primavera

Fresca di cibo e belletto la bella

     discende dalla sua rossa stanza. 
Cupa e rinchiusa la luce della primavera 
     su tutto il cortile spande tristezza. 
Nel mezzo ella viene, 
     conta i fiori: 
una libellula a volo si posa 
     sullo spillone di giada. 

Liu Yu-hsi (Liu Yuxi, 772-842)

Liu Yuxi

Guardando la primavera 

Sulla patria in rovina si sollevano i monti, i fiumi,

nella città la primavera addensa le sue piante, le erbe. 
Io sono percosso dagli eventi, le mie lacrime grondano sui fiori, 
l’addio mi schianta, gli uccelli mi spauriscono il cuore. 

Sulle vedette, i fuochi delle scolte bruciano da tre mesi, 
da casa una lettera pesa diecimila once d’oro. 
La mia testa s’imbianca, sotto le tormentate dita diradano i capelli, 
che più non reggono la spilla. 

Tu Fu (Du Fu, 712-770)


In una notte di primavera nell’ala sinistra del palazzo


Tra i fiori cade il buio della sera sotto l’ala del muro,

il trillo degli uccelli per l’aria corre e si posa. 
S’affacciano le stelle, vibranti su diecimila porte, 
la luna s’adagia immensa nei nove cieli. 

Non so dormire, intendo il suono della chiave d’oro,

il vento richiama al pensiero i pendagli di giada… 
con la luce del giorno, scritture, sigilli…, 
e mi ripeto intanto:- A che punto, la notte? – 

Tu Fu (Du Fu)

Du Fu


Pioggia di primavera

Triste mi metto a dormire. Intorno è primavera,

     e indosso, la fresca veste di lino bianco. 
Bianca la soglia deserta e sola, 
     quante cose avverse ai desideri… 
Tu in rossa stanza dalla pioggia divisa 
     riguardi fredda. 
Dietro il velo di perle il lume trema, 
     io torno ancora solo. 

Sulla mia lunga via è il mio lamento

     nel tramonto di primavera. 
La rimanente notte mi recherà 
     sogni sempre più rari. 
La lettera, gli orecchini, 
     dove li mando? 
Per diecimila li nubi di velo, 
     solitaria un'anatra vola. 

Li Shang-yin (Li Shangyin, 813-858)

Li Shangyin