Il
pensiero filosofico dei primi decenni del ‘900 fu caratterizzato dal bisogno “di ripensare e ridefinire il compito della
filosofia”, in opposizione al riduzionismo psicologistico della coscienza e
rivalorizzando “la vita trascendentale
della coscienza stessa come sfera d’essere assoluta, da cui occorre prendere le
mosse per recuperare il senso perduto della realtà, impoverita come mondo di
mere cose o di fatti senza significato” [1].
Il più
forte impulso in questa direzione venne da Edmund
Husserl (1859-1938), il fondatore della fenomenologia,
il cui pensiero influenzò, direttamente o indirettamente, filosofi quali
Löwith, Levinas, Sartre, Merleau-Ponty, Enzo Paci…, e portò, tra l’altro, ad un
incontro tra la fenomenologia e il marxismo con esiti anche molto lontani dalle
originarie intenzioni del fondatore.
Uno degli
interpreti più originali della fenomenologia di Husserl fu il suo assistente e
poi successore presso l’Università di Freiburg, Martin Heidegger (1889-1976). Nato da genitori cattolici, studiò
teologia e filosofia, in particolare Hegel, Schelling, Nietzsche, Husserl, la
poesia tedesca… Proprio ad Husserl dedicò nel 1927 la sua prima grande opera, Sein
und Zeit (Essere e tempo),
che fece di lui uno dei più geniali ed influenti pensatori della filosofia
contemporanea.
Martin Heidegger |
Per i temi
centrali della sua filosofia – l’uomo, la libertà, la morte, il linguaggio – e
soprattutto per “il suo insistere
sull’analisi esistenziale dell’uomo” [2],
Heidegger è definito un pensatore esistenzialista,
come pure Jaspers, Sartre, Merleau-Ponty, Gadamer – laddove con il termine esistenzialismo
si intende non tanto una vera e propria scuola o corrente filosofica, ma
piuttosto un’atmosfera, un clima
culturale che coinvolse il pensiero, l’arte, la letteratura, lo stesso stile di
vita, fino a divenire un luogo comune dell’immaginario europeo.
In Essere e tempo, testo che Heidegger
lasciò incompiuto, egli espose la sua concezione della fenomenologia, secondo
cui essa “non si limita a presentare ciò
che si mostra comunque o immediatamente, ma si assume il compito di portare
alla luce ciò che dapprima e per lo più non appare, restando nascosto dietro
l’invadenza dei fenomeni ordinari. Questo inapparente, che la fenomenologia
disocculta, è tuttavia qualcosa che appartiene essenzialmente a ciò che si
mostra dapprima e per lo più, così da costituirne il senso e il fondamento”
[3]. Per Heidegger questo è “l’essere dell’ente”.
Di
conseguenza la fenomenologia è definibile come ontologia. Il problema dell’essere consiste nell’interrogare
l’ente, privilegiando quell’ente particolare determinato dal fatto di
comprendere l’essere – ovvero noi stessi. Heidegger non lo designa come uomo, ma ricorre al termine Dasein (Esser-ci), l’ente che “non
semplicemente sussiste, come una cosa qualunque, ma che esiste, nel senso che
ha sempre da essere il proprio essere come proprio [..]. Esistere può solo il
Dasein, non la pietra o l’albero, perché vuol dire comprendersi, e cioè
progettarsi verso la possibilità d’essere più propria, potersene appropriare e
così potersi realizzare per quello che ciascuno ha da essere autenticamente”
[4].
Secondo
Heidegger “l’uomo è un essere predisposto
alla realizzazione delle proprie possibilità non in quanto ego isolato, ma come
un essere che ha necessariamente interrelazioni con il mondo delle cose e delle
persone” [5]. È questo un
aspetto specifico del suo esistenzialismo, da cui consegue che l’uomo nel suo
esistere “si stacca dal retroterra della
natura per aprirsi all’Essere. [..] Potenzialmente l’uomo è aperto al mistero
dell’Essere” [6]. Il che, fino
ad allora, era stato “completamente
trascurato o, nell’Occidente, aveva dato origine ad una speculazione di tipo
teocentrico. Per Heidegger anche il problema di Dio è sollevato dall’uomo” [7], e non a caso J.P. Sartre lo definì
un esistenzialista ateo, come lui
stesso – definizione peraltro respinta da Heidegger.
Ma tutto il
suo pensiero non si presta a definizioni precise o a dottrinarismi, men che
meno negli sviluppi successivi alla pubblicazione di Essere e tempo. Nella fase della maturità (nella quale viene
rivisitato il pensiero pre-socratico) la filosofia diviene per lui meditazione, un “pensare all’Essere che rivela se stesso”; l’Essere si svela più
vicino, “è essenzialmente aperto e
parzialmente svelato in tutti gli esseri. Ognuno di noi può avere un accesso
diretto all’Essere, a condizione che non si scordi della Sua realtà” [8], in quanto è l’Essere a rivelarsi
al pensiero umano, essendo il Dasein
per natura passivo.
E la
filosofia diviene altresì poesia,
svelamento dell’Essere attraverso le parole. Ma, anche qui, “non è l’uomo che parla, ma il linguaggio
stesso e, nel linguaggio, l’Essere. L’uomo può parlare solo in quanto ascolta”
[9] il linguaggio dell’Essere.
Questi pur
brevi ed approssimativi accenni su uno dei pensatori più complessi e profondi
dell’Occidente contemporaneo possono far meglio comprendere un fatto storico
particolare: il grande interesse, il vero e proprio fascino che la filosofia di
Heidegger risvegliò da subito nel mondo orientale, in particolare in Giappone,
fino a fare di lui il filosofo occidentale più tradotto nel paese del Sol
Levante.
Un interesse
assolutamente reciproco, anche se contraddistinto da “un aspetto singolare: la disparità esistente tra la rilevanza dei
materiali e delle testimonianze oggi a disposizione [..] e l’esiguità dei
riferimenti espliciti presenti nelle opere di Heidegger” [10].
Riportiamo qui alcuni esempi di tali riferimenti tra i non molti
possibili [11]:
q “...ogni meditazione su ciò che è oggi può sorgere e svilupparsi solo
se, mediante un dialogo con i pensatori greci e il loro linguaggio, affonda le
radici nel fondamento della nostra esistenza storica. Questo dialogo aspetta
ancora di essere iniziato. Esso è a mala pena ancora in preparazione, e rimane
a sua volta la condizione per l’indispensabile dialogo con il mondo
dell’oriente asiatico” (1954).
q “…per il costruire planetario sono imminenti
degli incontri a cui coloro che oggi vanno incontro non sono affatto pronti.
Questo vale in ugual misura sia per il linguaggio europeo sia per quello
asiatico-orientale, soprattutto per l’ambito del loro possibile dialogo.
Nessuno dei due, infatti, è in grado di aprire e fondare da sé questo ambito” (1955).
q “La parola-guida nel pensare poetante di
Lao-tzu suona ‘Tao’ e ‘propriamente’ significa ‘via’. Ma poiché ci si
rappresenta in modo superficiale la via come il tratto di collegamento tra due
luoghi, si è frettolosamente scartato il termine ‘via’[..]. Si è così tradotto
‘Tao’ con Ragione, Spirito, Senso, Logos. Ma il Tao potrebbe essere la via che
tutto av-via; [..] Forse nella
parola ‘via’, Tao, si nasconde il mistero di tutti i misteri del dire pensante
[..]. Tutto è via” (1959).
q “La mia convinzione è che solo a partire dal medesimo luogo del mondo
nel quale il moderno mondo tecnico è nato, possa prepararsi anche
un'inversione, e che questa non possa avvenire tramite l'assunzione del
buddismo zen o di altre esperienze orientali del mondo. Per cambiare il modo di
pensare c'è bisogno dell'aiuto della tradizione europea e di una sua
riappropriazione. Il pensiero viene modificato solo dal pensiero che ha la
stessa provenienza e la stessa destinazione” (1976).
Poche ma
significative parole, sufficienti comunque a documentare testualmente il
rapporto di Heidegger con il pensiero orientale, specificamente con le
tradizioni del Taoismo e del Buddhismo, soprattutto Zen. E a mostrare altresì la centralità del tema della parola, del
linguaggio, nel suo pensiero: egli sottolineò infatti “il ritardo occidentale nella padronanza delle lingue est-asiatiche,
come anche la necessità di evitare semplicistiche comparazioni” [12]. Quindi, ciò che Heidegger vide
nel pensiero orientale non fu tanto una possibilità di salvezza da accogliere acriticamente
e con ingenuità – come sovente accade tuttora – bensì la necessità di avere un
valido interlocutore con cui confrontarsi in un serio tentativo dell’Occidente
di ridefinire il compito, il metodo e il linguaggio della filosofia.
Molto più
numerosi e ben documentati furono invece i rapporti
personali intercorsi tra Heidegger e importanti esponenti delle tradizioni
filosofiche e spirituali dell’Oriente.
v Già negli anni ’20 i suoi corsi universitari videro la partecipazione
di alcuni buddhisti giapponesi, legati alla tradizione dello Zen e alla cosiddetta Scuola di Kyôto, sorta in quel periodo
ad opera del filosofo Kitarô Nishida (1870-1945), la quale “costituì uno dei tentativi più interessanti
di stabilire un dialogo e una sintesi tra il pensiero occidentale e quello
orientale [nel tentativo] di esprimere una nuova sintesi epocale capace di
affrontare la sfida nichilistica dell’impero planetario della tecnica, di
matrice occidental-europea” [13].
A partire da quel periodo, in Giappone si cominciò a tradurre le opere del
filosofo tedesco e a tenere corsi sul suo pensiero, ad esempio da parte del
Barone Shûzô Kuki.
Kitaro Nishida |
v Dopo la guerra (1946) Heidegger intraprese la traduzione in tedesco
del Tao Te Ching, insieme con lo
studioso cinese Paul Shih-yi Hsiao, autore della traduzione italiana pubblicata
nel 1941 dall’Editore Laterza. Al riguardo, Hsiao disse poi che quel lavoro
aveva esercitato una significativa influenza su Heidegger, e che la sua
concezione del Niente era molto
vicina al wu taoista, il quale non è
un Nulla assoluto, non-esistenza, ma è piuttosto non-essere, “esistenza in uno
stato privo di attributi, di qualità, di attività proprie della manifestazione,
sebbene tutte le possibilità della manifestazione siano in esso latenti. Non-essere
è essere in latenza” [14].
Heidegger
affermò spesso che la sua non era una posizione nichilista. Il Nulla della sua
filosofia non è un nulla che annichilisce. Lo comprese bene Hsiao dal punto di
vista del Taoismo, come pure Nishida da quello del Buddhismo Zen. Conseguentemente, “Heidegger rifiuta di parlare sia di sé
sostanziale sia di sostanza spirituale” [15], così come nel Buddhismo viene respinta ogni concezione di un
sé sostanziale, separato, permanente.
Inoltre,
si è visto come il problema del linguaggio sia centrale nella riflessione
heideggeriana, la cui attenzione “è
diretta al momento originario che precede la distinzione tra soggetto e oggetto”
[16]. Qualcosa di analogo avviene
nello Zen, allorquando lo studente medita sul koan che chiede “qual era il
tuo volto originario [honrai no memoku], quello che avevi prima della tua nascita?”, ovvero l’essenza
originaria, la natura di Buddha [17].
v Nel 1953 conobbe personalmente Daisetz Teitarô Suzuki (1870-1966), il
primo e più noto divulgatore del Buddhismo Zen
in Occidente, autore di numerosi testi pubblicati anche in Italia. Così Suzuki
rievocò l’incontro: “Il tema principale
del nostro colloquio è stato il pensiero nel suo rapporto con l'essere. [..] ho
detto che l'essere è là dove l'uomo, che medita l'essere, avverte se stesso,
senza però separare sé dall'essere [..] ho aggiunto che nel Buddhismo Zen il
luogo dell'essere è mostrato evitando parole o segni grafici, poiché il
tentativo di parlarne finisce inevitabilmente in una contraddizione” [18].
D.T. Suzuki |
v Nel 1954 ebbe luogo un interessante incontro tra Heidegger e Tomio
Tezuka, docente di Letteratura tedesca a Tokyo e traduttore di Goethe, Rilke,
Nietzsche, Hesse. Insieme lessero, tradussero e commentarono un famoso haiku di Matsuo Bashô (XVII sec.):
Un’allodola.
Oltre, silenzioso immobile,
questo valico.
Parlarono
del film Rashômon, il capolavoro di
Kurosawa (1950), ed infine, ad una domanda di Tezuka sul Cristianesimo,
Heidegger rispose definendolo “imborghesito”,
espressione di una “religiosità convenzionale”, e ormai privo della
forza presente solo in una fede viva [19].
v Nel 1958 Heidegger tenne a Freiburg un seminario cui partecipò Hôseki
Shin’ichi Hisamatsu, monaco Zen Rinzai, allievo di Kitarô Nishida,
filosofo e maestro di Shodô, la Via
della calligrafia. Hisamatsu fece un intervento, illustrando la concezione
giapponese dell’arte e il suo legame con lo Zen
[20]. Alla fine del seminario,
Heidegger propose agli uditori uno dei più famosi kôan del maestro Zen
Hakuin: “Ascolta il suono del battito di
una sola mano!” [21].
v Risale invece al 1963 uno scambio epistolare con Takehiko Kojima,
direttore di un istituto filosofico di Tokyo. In una precedente conferenza
Heidegger aveva fatto riferimento ai pericoli del predominio della tecnica nel
mondo moderno e alla necessità di comprenderla con l’esercizio del pensiero meditante. Kojima vide
rispecchiata nelle parole del filosofo la situazione del suo Giappone, dove
nemmeno la mancanza di Dio veniva più riconosciuta come mancanza e dove perfino
le tracce della fuga degli Dei erano ormai scomparse [22]. Espose a Heidegger le sue considerazioni in una lettera, alla
quale egli rispose affermando tra l’altro che il pericolo maggiore derivante
dal predominio dell’Occidente favorito dalla scienza e dalla tecnica non era
costituito dalla perdita dell’identità umana, bensì dal fatto “che all’uomo sia impedito di diventare quel
che non poté ancora espressamente essere” [23].
La via
verso la peculiarità umana non risiedeva però nell’alternativa – falsa – tra il
padroneggiare la tecnica o l’esserne schiavo, ma piuttosto nel compiere un passo indietro, non nel passato e
nemmeno nel tentativo di fermare il progresso tecnico: doveva essere un passo indietro del pensare, quello che
permette di “dare ascolto in meditazione
al mistero, ancora nascosto, della potenza dell’installare [stellen, la totalità del porre tecnico].
Un tale meditare non si può più compiere
attraverso la filosofia occidental-europea finora esistente, ma neanche senza
di essa, cioè senza che la sua tradizione, fatta propria in modo rinnovato, sia
impiegata su di una via appropriata” [24].
Il già
citato studioso nepalese Dipak Raj Pant così commenta il reciproco interesse
tra Heidegger e il Buddhismo Zen: “Il disinteresse per ciò che è 'rituale' e
l'attenzione data allo spirito da parte dello Zen potrebbero essere considerati
equivalenti al rifiuto di Heidegger della struttura filosofica convenzionale
delle nozioni, dei termini e delle categorie classiche in favore di un
'filosofare vero'. La sua tendenza ad indagare su tutto in modo intenso ed
informale è nella sua natura essenzialmente ‘spirituale’, anche se egli non
parla mai chiaramente di ciò” [25].
Per
concludere, può essere interessante menzionare un incontro privato avvenuto a
Freiburg il 27 settembre 1964 tra Heidegger e Maha Mani, un monaco buddhista
thailandese trentenne, di tradizione Theravada
(si ricorda che lo Zen appartiene
alla tradizione Mahayana, come il Vajrayana tibetano o il Ch’an cinese), docente di filosofia e
psicologia presso l’Università buddhista di Bangkok. Bikkhu Maha Mani si trovava in Europa per realizzare trasmissioni
televisive sul Buddhismo, ed era un sostenitore (seppur moderato) dell’uso dei media a fini educativi. Per il giorno
dopo era previsto lo stesso incontro, ma davanti alle telecamere.
Del
colloquio fu testimone diretto H.W. Petzet, biografo di Heidegger, che fece da
interprete e che riportò dettagliatamente lo svolgimento dell’incontro in un
capitolo della sua biografia del pensatore tedesco [26].
Fece anche
una dettagliata descrizione della persona del monaco, che indossava “una semplice toga di lino, color rosa (che,
si dice, denota il rango più alto del suo ordine monastico). Questa ricorda la
toga dell’antichità, ugualmente rivolta all’indietro sulla spalla destra.
Cammina a piedi nudi, in leggerissimi sandali aperti, che lasciano liberi piede
e malleolo; i piedi sono minuti quanto le mani dalle delicate dita. Quando le
muove dalla loro posizione di riposo, formano gesti densi di significato, ma
privi di pathos, per nulla studiati. Talvolta, la mimica si eleva ad una grande
forza espressiva, ma ciò avviene solo due o tre volte durante l’intero
colloquio. Indimenticabile un piccolo movimento: l’indice destro si muove
orizzontalmente verso l’esterno a partire dalla coda dell’occhio destro. Una
leggerissima ruga appare sulla fronte quando la resa dell’interprete non è del
tutto comprensibile”.
I temi
toccati durante il colloquio, iniziato con un lungo silenzio da parte di
entrambi, furono soprattutto quelli della tecnica e del rapporto
filosofia/scienza, dell’incontro tra pensiero orientale e occidentale, delle
espressioni religiose. Heidegger, molto critico nei confronti del predominio
delle scienze e della tecnologia che da esse deriva, chiese a Maha Mani cosa ne
pensassero in Thailandia, ed egli rispose che ciò che lo interessava era se una
cosa fosse buona oppure no. E aggiunse: “Noi
non diciamo mai di no ad una cosa fin dall’inizio!”. Heidegger espose
allora come l’essenza del carattere europeo, cioè la scienza occidentale, che
in ogni ambito particolare è già tecnica, fosse scaturita dalla filosofia
moderna, per la quale solo ciò che è conosciuto in modo chiaro e distinto, con
certezza matematica, è reale. Ma “questa
scienza [..] sottrae il terreno all’autentica domanda del pensiero. Poiché
nella scienza si considera sempre solo ciò che è calcolabile – mentre il
pensiero è lontano da ogni calcolo e le sue risposte non offrono ‘dati’ nel
senso delle scienze”. Di conseguenza la separazione tra soggetto e oggetto,
apparentemente incontestabile dal punto di vista della scienza, è proprio ciò
che impedisce un autentico sviluppo del pensiero. Nonché un vero confronto tra
le filosofie dell’Occidente e dell’Oriente, che partono da presupposti diversi.
Per quanto
concerne la religione, Heidegger chiarì che per lui era importante “solo la possibilità di seguire e condividere
il cammino di pensiero e che la sola cosa importante [era] ‘essere-in-cammino”, al di fuori quindi
di ogni “sistema”. Punto sul quale il monaco dimostrò di essere in pieno
accordo, dicendo che per religione egli altro non intendeva se non le dottrine
dei fondatori. Toccò qui a Heidegger manifestare il proprio accordo con Maha Mani,
in quanto religione significava per lui “seguire
la parole del fondatore. Questo solo, né i sistemi né le dottrine e i dogmi sono
importanti. Religione è Imitazione”.
Fu questo
uno dei punti culminanti dell’incontro.
Heidegger
affermò poi che gli uomini avevano perduto la capacità di semplicemente ascoltare, perché pronti solo a cogliere
ciò che si confà al loro pre-giudizio, senza vedere il tutto. Di qui, la sua
contrarietà all’uso della televisione quale strumento educativo, in quanto
privo di genuinità, atto a travisare ciò che viene detto. Unico modo per
superare il pre-giudizio e l’incapacità all’ascolto era per lui “l’abbandono alle cose e l’apertura al
mistero”.
Quindi tornò sul tema della religione,
chiarendo che sebbene pensiero e fede non fossero riuscite a portare la pace
tra gli uomini, non per questo dovevano essere abolite: “l’uomo nel suo essere [che è finito] è costretto a sempre nuovi tentativi! Proprio nell’epoca attuale posso
pensare che la meditazione su che cosa e chi sia l’uomo è necessaria; oggi,
quando c’è il pericolo che l’uomo sia del tutto consegnato alla tecnica e da un
giorno all’altro sia reso una macchina pilotata”.
Infine,
riprendendo il tema dell’abbandono e del mistero, chiese al monaco cosa
significasse per un orientale la meditazione.
La risposta fu “Raccogliersi”. E poi Maha
Mani spiegò che “quanto più l’uomo, senza
sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa se stesso. L’io si estingue.
Alla fine vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio
tutt’altro: la pienezza. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena
realizzazione”. Heidegger mostrò di comprendere profondamente le parole del
monaco: “Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto”. Al che
Maha Mani concluse: “Venga nella nostra
terra. Noi la comprendiamo”.
Maha Mani |
Al termine
dell’incontro il filosofo si dimostrò molto colpito dalla figura del Bikkhu, come racconta Petzet: “Entrambi si alzano e si guardano a lungo.
Poi il monaco si inchina profondamente e va via. Il colloquio è durato più di
due ore e si è fatto notte. Solo lentamente si scioglie la tensione [..]. Heidegger ed io [Petzet] conveniamo sul fatto che il volto del
monaco ha una purezza infantile, tra l’animale e lo spirituale, ma mostrata
senza ‘infantilità’, poiché vi è la più profonda consapevolezza. E che
attraverso il viso diventa visibile la santità di tutta la persona.
Meravigliosi i profondi occhi che, a differenza dei giapponesi, guardano dritto
negli occhi. Nessun dualismo tra spirito e sensi. La serietà, ma anche la
serena allegria: questo resta indimenticabile”
“Circa un anno dopo l’incontro con il monaco
(o forse di più), un giorno [Heidegger] mi
chiamò: aveva da parteciparmi qualcosa di triste. ‘Il monaco col quale ebbi
quel bel colloquio ha abbandonato il suo Ordine e ha assunto un lavoro in una
società televisiva americana”.
********************
Note
1. M. Ruggenini, Fenomenologia e ontologia,
in: A.V., Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. 6 pag. 1518 e
1520
2. Dipak
Raj Pant, Heidegger e il pensiero orientale, Ed. Il Cerchio, pag. 14
3.
Ruggenini, pag. 1534
4. Id., pag.1534-1535
5. Copleston, cit. in Pant, pag. 19
6. Pant, pag. 19
7. Id., pag. 19-20
8. Id., pag. 22
9. N.
Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET, vol. III pag. 848
10.
C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, Ed. Il Melangolo, pag. 13
11.
Le citazioni dagli scritti di Heidegger sono tratte da Saviani, pag. 14 segg.
12. Id.,
pag. 17
13.
Saviani, pag. 23. È interessante osservare che nel 1874 il termine filosofia fu tradotto in giapponese con tetsugaku, alla lettera: “amore della saggezza”
14. Ramacharaka, cit. in Laotse, Il Tao-Te-King, Ed. Laterza, pag. 111,
nota 4
15.
N.C. Nielsen jr, Il Buddhismo Zen e la filosofia di Heidegger, in Dharma n. 7/2001, pag. 56
16.
Id.
17.
Cfr. E. Sablé, Dizionario del buddhismo zen, Ed. Il Melangolo, pag. 199
18.
C. Mutti, La fortuna di Heidegger in Oriente, in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=220.
Devo a questo saggio e al volume di Saviani le notizie sugli incontri personali
tra Heidegger e gli esponenti delle tradizioni orientali
119.
Cfr. Saviani, pag. 63-64
20.
L’intervento di Hisamatsu è leggibile qui: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/hisamatsu.htm.
Alcune sue opere tradotte sono pubblicate dalle Edizioni Il Melangolo di Genova
21.
Cit. in Saviani, pag. 104
22.
Cfr. Saviani, pag. 71
23. Id., pag. 74
24. Id. pag.76
25. Pant, pag. 66
26. H.W.
Petzet, Il monaco di Bangkok, in: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiacomparata/petzet.htm,
dove è riportato il capitolo della biografia quasi interamente dedicato
all’incontro. Se ne veda anche il sunto in Saviani, pag. 76 e segg. – Da qui in
poi tutte le citazioni sono state tratte dal succitato testo di Petzet
Da leggere:
G.
Pasqualotto, Oltre la tecnica: Heidegger e lo zen, in: Il Tao della filosofia,
Ed. Pratiche
D.R.
Pant, Heidegger e il pensiero orientale, Ed. Il Cerchio
C.
Saviani, L’Oriente di Heidegger, Ed. Il Melangolo
N.C.
Nielsen jr, Il Buddhismo Zen e la filosofia di Heidegger, in Dharma n. 7/2001
C.
Mutti, La fortuna di Heidegger in Oriente, in: http://www.claudiomutti.com
H.W.
Petzet, Il monaco di Bangkok, in: http://www.gianfrancobertagni.it