Oltre a Heidegger, l’altro grande esponente dell’Esistenzialismo
tedesco fu Karl Jaspers (1883-1969).
A differenza del primo, Jaspers si dedicò inizialmente agli studi di
medicina e lavorò fino al 1915 in una clinica psichiatrica. Nel 1913 pubblicò
un testo ancor oggi fondamentale, la Psicopatologia
generale.
Studiò
poi filosofia come autodidatta, conseguì la docenza e insegnò presso
l’Università di Heidelberg. Nel 1937 perse la cattedra a causa della sua
opposizione al nazismo – il che non accadde a Heidegger, il quale anzi guardò
al regime con simpatia. Jaspers fu anche
obbligato a scegliere tra divorziare dalla moglie Gertrud, ebrea, ed emigrare
ma non fece nessuna delle due cose e da quel momento visse come un recluso,
nascosto ad Heidelberg. I nazisti sapevano
della sua presenza, ma ormai la sua capacità di nuocere era ridotta al minimo.
Dopo la fine della guerra riottenne la cattedra, ma nel 1948 si trasferì in
Svizzera, in quanto non condivideva le scelte operate dalla Germania della
ricostruzione. Lì rimase fino alla morte, continuando la sua attività di
docente e di scrittore di testi filosofici, spesso legati anche a temi
politici, quali il rischio atomico e la riunificazione della Germania (una
scelta per lui secondaria, essendo da privilegiare invece la ricostruzione del
senso della responsabilità civile e morale del Paese).
Karl Jaspers |
Al centro
della sua ricerca – in campo prima medico poi filosofico – egli pose il tema
dell’esistenza, la quale è sempre la mia esistenza, singola, inconfondibile,
storicamente individuata. Unitamente alla ragione
– che è intelletto per la coscienza, vita per lo spirito e ragione chiarificatrice per l’esistenza stessa – e soltanto con essa, l’esistenza si apre alla verità, che è comunicazione
con gli altri [1].
Nella
comunicazione – che è movimento
infinito, inesauribile – coincidono l’essere
se stesso, nella propria unicità, e l’essere
vero, che si rivela agli altri e con
essi comunica. Disse Jaspers: “L’esistenza
diventa manifesta a se stessa, e con ciò reale, se essa con un’altra esistenza, attraverso di essa e con essa, giunge a se stessa” [2].
La
comunicazione non può comunque raggiungere una sua forma definitiva, compiuta –
se lo facesse sarebbe distrutto il compito dell’uomo, che solo in essa diviene
se stesso. Lo scacco della comunicazione è riempito dalla trascendenza. È un limite impensabile, il pensarlo fa solo ricadere
nelle forme già note – ovvero incompiute – della comunicazione. A quel limite
non c’è che il silenzio.
Come si
vede, per Jaspers – come per Heidegger – esistenza
è sempre esistenza nel mondo.
Esistenza è ricerca dell’essere, ovvero guardare a sé come Dasein, Esser-ci. È una
ricerca senza fine, una orientazione nel
mondo, da una cosa ad un’altra cosa, mai definitiva. Non è una conoscenza del mondo, che resta un orizzonte
trascendente, un orizzonte che si sposta col progredire stesso della
conoscenza.
Ogni immagine
totale del mondo non è che un singolo punto di vista tra i tanti, è ciò che
Jaspers chiama cosmo. Ciò che sta
oltre il cosmo resta impensato, spesso addirittura insospettato.
“Medici e psichiatri – disse una volta – devono imparare a pensare” [3], laddove pensare significa andare al di là della scissione soggetto/oggetto,
che fa sì che l’oggetto appaia nei limiti già predeterminati dal soggetto.
Oltrepassare l’oggettività consente di cogliere le cose nel loro rinviare alla totalità, comprendere l’uomo come apertura alla domanda.
La verità non è quindi un possesso
definitivo, la verità è la via. La
filosofia non è un sapere la totalità, bensì diviene un continuo superamento
delle risposte già raggiunte. Non si tratta di una dottrina, ma di un atteggiamento dell’esistenza. Si parla
allora di fede, non la fede religiosa che porta alla chiusura
dogmatica e indiscutibile, ma la fede
filosofica, che è tensione vigile e apertura verso ciò che è oltre.
Il
pensiero di Jaspers non è conclusivo, ma non per questo conduce alla rinuncia o
al nichilismo, in quanto rimane fondamentalmente aperto: la filosofia per lui
non è una sapienza/saggezza (sophia)
conseguita una volta per tutte, è amore
per la sapienza/saggezza (filo-sophia). È critica, è crisi. È “impedire che il mondo delle risposte copra la domanda e la invada fino
a oscurare la radice che l’ha generata” [4], e quindi è libertà, anzi, è liberazione.
Dal 1948
in poi Jaspers cominciò ad insistere “sugli
aspetti positivi della sua filosofia e [..] sul valore della fede come
rivelazione e manifestazione immediata dell’essere trascendente” [5].
Fede era per
lui la vita stessa, “un ritorno
all’origine misteriosa della vita, un ritorno in virtù del quale le cose
perdono la loro assolutezza e l’essere si manifesta in un’esperienza
inesprimibile, che i mistici hanno provato e metaforicamente descritto” [6]. Egli accentuò così gli aspetti
metafisici e teologici del suo pensiero, in contrapposizione con le vie
intraprese da altri filosofi esistenzialisti, ad es. J.P. Sartre.
Jaspers
non si identificò comunque con nessuna delle religioni “storiche”, difendendo
invece l’idea di religiosità come origine e fondamento.
Portò
questa visione anche nella sua concezione della storia umana, nella quale
giunse a identificare un particolare periodo, l’Era – o Periodo – Assiale (Achsenzeit), compreso tra l’VIII e il II secolo a.C.
Fu una età
che costituì un vero asse nella
storia universale, durante il quale “l’uomo
si rese consapevole dell’essere in generale, di se stesso e dei suoi limiti”
[7].
Nacquero
in quel periodo le grandi filosofie di Confucio e Laotse in Cina, delle Upanishad e del Buddha in India, di
Zarathustra e dei profeti biblici in Medio Oriente, di Omero e dei filosofi
classici in Grecia.
Prima di
allora il pensiero umano era privo di problematicità, il sapere era un sapere
del sacro, e perciò dogmatico. Dopo, l’uomo, pur biologicamente inferiore all’animale, si rivelò portatore di una
coscienza, che proviene dal suo essere mortale.
“Nel rifiuto di questa situazione limite
- scrisse Jaspers - egli sperimenta
l’eternità del tempo, la storicità come manifestazione dell’essere nel tempo,
l'obliterazione del tempo. La sua coscienza storica si identifica con la
coscienza dell’eternità [..] La crescita di quest'epoca in tutti e tre i mondi
in cui si è espressa, è costituita dal fatto che l'uomo prende coscienza [..]
dei suoi limiti. Egli viene a conoscere il carattere terribile del mondo e la
propria impotenza. Pone domande radicali [..].
Comprendendo così certamente i suoi limiti si propone obiettivi più
alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere se-stesso e nella
chiarezza della trascendenza” [8].
Alla fine
del Periodo assiale si compì anche la
separazione tra l’Oriente e l’Occidente, dove il processo si interruppe a causa
della techne, la tecnica,
l’aggressione alla terra e alla natura da parte dell’uomo, una tematica già
incontrata in Heidegger. Ne costituiscono un perfetto esempio le figure mitiche
di Adamo, che fu cacciato dal
Paradiso perché temuto anche da Dio, e di Prometeo,
che portò il sapere tecnico agli uomini che Zeus voleva distruggere – non a
caso il giovane Marx sostenne che la filosofia fa propria la professione di
odio di Prometeo nei confronti degli Dei, rivolgendola a tutte le divinità che
non si sottomettono all’autocoscienza umana, una divinità superiore a loro [9].
Uno dei
frutti della nozione di Periodo assiale è un’opera di Jaspers del 1957, I
grandi filosofi (Die große
Philosophen), suddivisa in tre sezioni: la prima, Le personalità decisive, è dedicata a Socrate, Buddha, Confucio e
Gesù; la seconda, I riformatori creativi
del pensare, a Platone, Agostino e Kant; la terza, I metafisici che attingono all’origine, ad Anassimandro, Eraclito,
Parmenide, Plotino, Anselmo, Cusano, Spinoza, Laotse e Nagarjuna.
L’intera
opera è stata tradotta in italiano e pubblicata nel 1973 presso Longanesi, ma
non è più reperibile in libreria. Nel 2013 l’Editore Fazi ne ha ora riproposto
la prima parte come testo autonomo [10],
il che ci permette di conoscere le modalità con cui Jaspers ha affrontato la
figura e l’insegnamento del Buddha storico.
Le fonti a
cui Jaspers ha attinto sono costituite, come si legge nella Bibliografia, dagli scritti buddhisti più
antichi: i Sutra, il Dhammapada, il Buddhacarita, il Theragatha
e il Therigatha, con i bellissimi
canti dei monaci e delle monache. Oltre alle opere di studiosi quali Oldenberg,
autore di un Buddha tradotto anche in
lingua italiana e tuttora reperibile.
Il testo
(di circa 40 pagine) inizia con una succinta biografia del Buddha śākyamuni:
qui il termine muni viene tradotto con
“il taciturno” (della stirpe degli śākya),
una traduzione corretta ma non molto comune (in genere si trova gioiello), che ha però il pregio di
rimandare da subito il lettore ad una significativa visione del Sentiero
buddhista come Via del Silenzio, una
via mistica quindi – se si intende
quest’ultima parola, che molti praticanti aborrono, nel suo senso etimologico,
dal greco myein, tacere.
Jaspers
riconosce che “non esiste alcun testo che
riproduca con certezza le parole di Buddha”, e che la realtà “deve essere criticamente ricostruita
sottraendo gli elementi palesemente leggendari e quelli che si dimostrano
aggiunte postume. Chi volesse attenersi a ciò che è necessariamente certo
arriverebbe, eliminando una cosa dopo l’altra, al punto in cui non rimane più
nulla del testo” – così come accade, ci piace aggiungere, a chi si volesse mettere
alla ricerca del proprio ego sostanziale, eterno, separato…
Quindi
Jaspers passa ad esporre la dottrina
del Buddha, il Buddhadharma, che “mira alla liberazione mediante la visione
intellettiva”, attraverso un sapere
che – diversamente dalla comune accezione del termine – “non si ottiene mediante processi logici di dimostrazione né sulla base
dell’intuizione dei sensi, ma si riferisce all’esperienza che si ottiene nelle
trasformazioni della coscienza e nei gradi della meditazione”. Il senso
autentico dell’insegnamento del Buddha – afferma correttamente Jaspers – “va perduto se è racchiuso nelle proposizioni
dottrinarie facilmente enunciabili e pensabili in modo astratto”.
Ma la
verità, sia del pensare filosofico sia dell’esperienza meditativa, deve essere
connessa “alla purificazione che la vita
dell’uomo consegue nel suo agire morale”. L’insegnamento del Buddha non è
un sistema conoscitivo, è un sentiero di
salvezza. È l’Ottuplice Sentiero,
che Jaspers così espone: “la fede retta,
la decisione retta, la parola retta, l’azione retta, la vita retta, la morte
retta, il pensiero retto, la concentrazione retta su di sé” [11].
In
sintesi, un corretto comportamento etico rende possibile la meditazione, questa
porta alla conoscenza e quest’ultima alla liberazione. I diversi aspetti non si
pongono però gerarchicamente l’uno sull’altro, ma agiscono di concerto, così
come avviene per gli otto rami dello Yoga.
Sono qui
interessanti le osservazioni di Jaspers in merito alla meditazione, la quale “non è
una tecnica che può riuscire di per sé sola. È pericoloso disporre
metodicamente dei propri stati di coscienza, accentuarne uno e farne scomparire
un altro. Ciò porta l’uomo alla rovina quand’egli si dà alla meditazione senza
ottemperare al giusto presupposto [che] consiste
nel modo in cui si conduce tutta la propria vita, nella purezza di essa”.
E ancora:
“i gradi meditativi non debbono
consistere in certi speciali stati psichici di ebbrezza, di estasi, di piacere
ottenuti con l’uso di hashish o di oppio, ma nella conoscenza più chiara
possibile, superiore in chiarezza a ogni coscienza normale, conoscenza
determinata da una presenza autentica e non dalla mera opinione”.
Jaspers è
ben consapevole del fatto che una descrizione del Sentiero costituisce già di
per sé “una cristallizzazione dottrinaria”,
in contraddizione con la definizione stessa del Sentiero come Via di
liberazione e non come sistema concettuale. Ma è anche vero che l’esposizione
del Dharma nei testi “si presenta come una conoscenza che viene
enunciata per la coscienza normale in distinte proposizioni e nessi razionali
di pensiero”. In tale esposizione, ovvero nei Sutra del Canone Pali o
in altri testi, “si avverte il gusto del
concetto, dell’astrazione, della nomenclatura. Della combinazione, che è del
tutto proprio della tradizione filosofica indiana”. Ma la comprensione
razionale dell’insegnamento non può coglierne il vero senso, essa è solo un
riflesso di quella concentrazione meditativa dalla quale l’insegnamento
scaturisce.
Vengono
poi esposti i punti-chiave dell’insegnamento del Buddha:
P le Quattro Nobili Verità
sul dolore (duhkha) e sul suo
superamento, che non portano ad un “atteggiamento
pessimistico, ma [sono uno] sguardo
conoscitivo sul dolore che tutto abbraccia”.
P Il sorgere condizionato (pratitya samutpada), la cui comprensione
“è in grado di arrestare tutto questo
terribile divenire spettrale”, e in merito al quale “non si prende in considerazione la possibilità di una caduta
assolutamente primitiva da una perfezione eterna nell’ignoranza, il che
potrebbe assumere l’aspetto di un analogo del peccato originale”.
P La dottrina (anatman) secondo
cui “l’esserci è composto di vari fattori
che si presentano fra i termini della serie causale, cioè dai cinque sensi e
dai loro oggetti [..] e inoltre dalle forze inconsce dell’immaginazione che
operano determinando disposizioni, impulsi, istinti, e costituiscono le potenze
che edificano la vita, e infine dalla coscienza”, fattori che alla morte si
dissolvono. Il Buddha “non nega l’io ma
fa vedere come nessun pensiero riesce a penetrare nell’io autentico”.
P L’insegnamento (anitya)
secondo cui ciò che esiste è “la corrente
del divenire, che non è mai essere; l’apparenza dell’io che in verità non è un
io sostanziale [..]. Il divenire è la catena delle esistenze momentanee [..], è
la prima momentaneità del non-essere di ogni cosa che sembra essere”.
P Il Nirvana, la liberazione
definitiva che si schiude dalla conoscenza. Jaspers riconosce bene come il
parlare del Nirvana sia un paradosso,
in quanto se ne parla rimanendo “entro il
campo della coscienza illusoria”, il che fa del Nirvana un essere o un nulla. Se il Nirvana non è né essere né non-essere, esso è inconoscibile con i
mezzi mondani, non può essere oggetto di ricerca scientifica, ma è comunque certezza. “Qui ha fine ogni questionare [..]. Si è annientato ciò che il pensiero
poteva cogliere: e così si è pure annientato ogni sentiero del linguaggio”.
Anche qui,
si conferma quanto già visto, il Dharma
“non [è] una metafisica, ma via della salvezza”, il Buddha “non si presenta come maestro di un sistema,
ma come nunzio del cammino della salvezza”. Le questioni metafisiche
diventano anzi “una nuova prigionia, perché
il pensiero metafisico si tien fermo proprio a quella forme dalle quali tende a
liberarci la via che conduce alla salvezza”. Di qui, la potenza del silenzio, che non significa che il
Buddha fosse privo di quelle conoscenze, ma che è invece strumento di
comunicazione del suo pensiero. La verità non proferita “non scompare, ma opera nello sfondo in modo tanto più formidabile in
quanto viene avvertita”.
Ugualmente
interessante è il paragrafo 4 del capitolo, Che
cosa c’è di nuovo nel pensiero di Buddha? Se si guarda alla dottrina, alla
terminologia, alle forme di pensiero – afferma Jaspers – non si trova nulla che
già non fosse presente nell’India di quel tempo: esistevano gli asceti e le
loro comunità, l’idea della liberazione attraverso la conoscenza, lo yoga, le rappresentazioni del mondo che
il Buddha accettò. Il punto è la categoria di nuovo, che, “usata come
criterio di valore, è propria di noi occidentali moderni”.
Volendo
comunque utilizzare tale categoria, costituisce allora una novità la “potente
personalità del Buddha”, la straordinaria tensione della sua volontà, volta
al superamento dell’ego. Ma proprio quel superamento è ciò che distrugge tale
tensione, ogni legame del Buddha con gli interessi mondani, con il desiderio. “Egli stesso è divenuto impersonale:
innumerevoli Buddha hanno compiuto nelle precedenti età cosmiche e compiranno
in quelle future ciò che egli ora compie [..]. Egli è l’unico ma lo è come mera
ripetizione”. È l’apparente paradosso “di
una personalità che ha operato mediante la scomparsa di tutti i suoi tratti
individuali”, una personalità “priva
della coscienza occidentale e della coscienza cinese dell’individualità”.
Ugualmente
nuovo è il fatto che egli lasciò
cadere alcuni elementi fondanti della tradizione indiana, in particolare
l’istituzione delle caste e la
potenza degli Dei. Non li combatté, semplicemente tolse loro ogni importanza.
Inoltre,
anche se il Buddhismo fu una dottrina aristocratica, che poteva essere intesa
solo da persone “di alto rango spirituale”,
il Buddha si rivolse a tutti gli
esseri viventi indistintamente, non solo gli uomini, ma anche gli Dei e gli
animali – diversamente da ciò che fecero religioni più recenti quali il
Cristianesimo o l’Islam. Ognuno doveva apprendere le sue parole secondo il
proprio linguaggio. Di qui la semplicità nell’espressione degli insegnamenti,
la continua ripetizione delle idee, l’uso frequente di metafore, parabole,
similitudini, versi.
Jaspers
dedica quindi alcune pagine alla storia del Buddhismo: la divisione tra Hinayana e Mahayana, la scomparsa del Buddhismo dall’India e la sua diffusione
nel resto dell’Asia, la trasformazione della “filosofia buddhista del cammino della salvezza [..] in una religione”
nella quale il Buddha diviene un dio cui appellarsi. In particolare, Jaspers si
dimostra piuttosto critico nei confronti del Buddhismo tibetano, nel quale “i vecchi metodi della magia divengono metodi
buddhisti, la comunità monastica si trasforma in una Chiesa organizzata con un
suo potere temporale”, analogamente a quanto avvenuto nel Cattolicesimo.
Positiva è
invece la figura del bodhisattva, già
presente nell’Hinayana ma
assolutamente centrale nel Mahayana:
“tutti gli esseri hanno innanzi a sé la
prospettiva [..] di diventare un bodhisattva che non entra ancora nel nirvana
soltanto perché dovrà ancora rinascere in qualità di un buddha per arrecare
agli altri la salvezza”.
E
comunque, nonostante gli Dei, i riti, i culti, le sette che la trasformazione
della filosofia in religione ha portato con sé, “il buddhismo è assurto a unica religione universale che non conosce
violenza né persecuzione di eretici né inquisizione né processo alle streghe né
crociate. [..] esso non ha mai visto comparire alcun contrasto tra filosofia e
teologia, tra libertà della ragione e autorità religiosa”, poiché “la filosofia è già di per sé azione
religiosa. Rimane valido questo principio: il sapere è già liberazione e
redenzione”.
Ma infine,
“che significato hanno per noi il Buddha
e il buddhismo?”. È una domanda imprescindibile, motivo per cui proponiamo
qui, per esteso, la risposta di Jaspers:
“Non dobbiamo dimenticare
che nel Buddha e nel buddhismo scorre l’acqua di una fonte che noi occidentali
ci siamo preclusa e che ci si trova qui di fronte a un limite dell’intelligenza
umana. È necessario sentire la straordinaria distanza in cui si trova la
serietà del buddhismo e vietarci ogni facile e sbrigativo tentativo di
avvicinamento. Dovremmo prima cessare di essere quel che siamo per poter
prendere essenzialmente parte alla verità del Buddha. La differenza qui in
gioco non è quella che può sussistere tra due posizioni razionali, ma quella
che riguarda la disposizione pratica e il modo di pensare nella loro essenza.
Ma al di là di ogni possibile distanza, non dobbiamo perdere di vista l’idea
che siamo tutti degli uomini. Si tratta in ogni caso delle medesime questioni
che riguardano l’esserci dell'uomo. Nel Buddha si è trovata e realizzata una
grande soluzione di questo problema e a noi spetta il compito di conoscerla e
di intenderla secondo le nostre forze.
La questione è qui di sapere fin dove arriva la nostra comprensione di ciò
che noi stessi non siamo né possiamo realizzare. È nostra esigenza che questa
comprensione si avvicini sempre più alla sua meta, in un processo senza
limiti, quando però ci si astiene da una comprensione frettolosa che si presume
definitiva. Nel nostro intendere teniamo deste delle possibilità di noi stessi
che ci sono profondamente chiuse e ci vietiamo di erigere la nostra condizione
storica in una verità assoluta e definitiva.
Abbiamo il diritto di affermare che tutto ciò che è detto nei testi
buddhistici si rivolge alla normale coscienza desta e deve perciò da questa
coscienza potersi intendere almeno fino a un certo punto.
È un grande fatto storico che sia stato possibile condurre una vita come
quella del Buddha che egli realizzò in sé e che, inoltre, sia stato possibile
in Asia fino a oggi vivere secondo il buddhismo. Questa semplice
constatazione dimostra quanto sia problematica la condizione umana. L’uomo non
è ciò che è stato determinato una volta e per sempre, ma è aperto. Egli non
riconosce una sola soluzione o una sola realizzazione come l’unica esatta. Il
Buddha è la realizzazione di un’essenza umana che non riconosce alcun compito
positivo riguardo al mondo, ma, dentro il mondo, abbandona il mondo stesso.
Non lotta, non contrasta, ma vuole soltanto dissolvere l’esserci fondato sull’ignoranza,
e lo vuole in modo così radicale da non aspirare nemmeno alla morte, perché ha
trovato al di sopra della vita e della morte il luogo dell’eternità. È vero che
nel mondo occidentale si possono trovare determinazioni analoghe da far valere
di fronte a questi atteggiamenti buddhisti, come l’imperturbabilità, la
liberazione mistica dal mondo, il non contrastare i malvagi, che sono propri
della figura di Gesù. Però in Occidente tutto ciò è soltanto un abbozzo o un
elemento particolare, mentre in Asia assurge a valore totale e perciò ha un
altro significato.
Resta perciò tra questi due mondi una reciproca tensione stimolante, e
come fra le singole persone una si oppone all’altra così, in grande, è un mondo
spirituale che si oppone a un altro. Come nei rapporti personali, nonostante
l’amicizia, la confidenza, la benevolenza, si può talora avvertire una
subitanea lontananza tra gli individui, come se io e l’altro sfuggissimo in
direzioni opposte e fossimo separati dall’impossibilità di esser altro, senza
però volerlo riconoscere, poiché non cessa mai di operare l’esigenza di riferirci
assieme al centro dell’eternità che ci fa cercare incessantemente una migliore
intesa reciproca, ebbene, la stessa situazione si è verificata tra l'Asia e
l'Occidente”.
********************
Note
1. Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia,
Ed. UTET, vol. III, pag. 849 e segg.
2. Cit. in N. Abbagnano, pag. 850
3. Cit. in U. Galimberti, Esistenzialismo
ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia del pensiero occidentale, Ed.
Curcio, vol. VI, pag. 1543
4. Id., pag. 1548
5. N. Abbagnano, pag. 858
6. Id.
7. Id., pag. 859
8. Cit. in D. Smizer, Periodo assiale e periecontologia”,
in: http://digilander.libero.it/moses/jaspers04.html
9. Id.
10. K. Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù –
Le personalità decisive, Ed. Fazi. Tutte le citazioni successive sono
tratte da questo testo. Il capitolo dedicato al Buddha si trova da pagina 43 a
pagina 84.
11. In effetti, nel Sutra in cui il Buddha li espose, gli otto aspetti del Sentiero
sono così elencati: retta visione, retta
intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo,
retta presenza mentale, retta concentrazione. Cfr. il Discorso della messa in moto
della ruota del Dharma, in: La rivelazione del Buddha – I testi antichi,
Ed. Mondadori, pag. 8. Si notano alcune differenze rispetto all’esposizione di
Jaspers, che non sembrano dovute soltanto ad una diversa traduzione.
Da leggere
U.
Galimberti, Esistenzialismo ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia
del pensiero occidentale, Ed. Curcio
K.
Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – Le personalità
decisive, Ed. Fazi