martedì 19 marzo 2013

Un Sesto, forse due, e un Settimo...

In questa fine d’inverno del 2013, è oggetto di interesse mediatico e di curiosità popolare la compresenza di due Pontefici della Chiesa Cattolica: l’uno, Benedetto XVI, Pontefice “Emerito”, avendo egli abdicato, e l’altro da poco eletto con il nome di Francesco. Tale evento non costituisce una novità assoluta nella storia della Chiesa. Si è verificato alcune volte, 5 o 6, a partire dal caso (non del tutto accertato) di Clemente ed Evaristo (II sec.), per giungere quello più noto di Celestino V e Bonifacio VIII (XIII sec.) ed infine alla compresenza di papi ed antipapi (Gregorio XII, Benedetto XIII, Alessandro V, Giovanni XXIII) nel periodo dello Scisma d’Occidente del XIV-XV secolo. 
Papa Celestino V
Nel cattolicesimo la possibilità che un Papa rinunci al trono è prevista, e quindi il verificarsi della compresenza di due pontefici viventi è “normale”, anche se rara. 
È forse meno noto che tale fatto sia accaduto anche nella storia del buddhismo tibetano, quando due, o forse tre, Dalai Lama furono presenti nello stesso periodo...
Ovvia, ma sempre necessaria, è la premessa che la figura del Dalai Lama (quello attuale è il XIV°) non era e non è assimilabile a quella del Papa cattolico: nel buddhismo non esiste un unico “rappresentante” spirituale di tutte le tradizioni nelle loro differenziazioni storiche e geografiche. 
Come ha scritto il monaco zen Yushin Marassi, “il buddhismo non ha mai avuto autorità centrali, gerarchie curiali o strutture rigide e dove queste sono comparse, nelle varie scuole nazionali, il loro ruolo è del tutto marginale se non esterno alla tradizione buddhista intesa come religione, ovvero come via di salvezza”. 
Anche l’appellativo, attribuito da molti occidentali al Dalai Lama, di “Sua Santità” (His Holiness, H.H.), che immediatamente rimanda alla figura del Papa, non corrisponde, né linguisticamente né semanticamente, a quello comunemente usato dai Tibetani, “Kundun”, traducibile con “Presenza”. Può anzi contribuire ad ingenerare la falsa convinzione che il Dalai Lama in qualche modo “rappresenti” tutti i buddhisti nel mondo (fermo restando che l’attuale Dalai Lama è – quasi –unanimemente riconosciuto da tutti i buddhisti come uno dei grandi Maestri spirituali contemporanei). 

Come noto, la scelta del Pontefice, Vescovo di Roma e Vicario di Cristo (e capo politico di uno Stato indipendente), è sempre stata il frutto di una elezione, alla quale, a seconda dell’epoca storica, hanno partecipato il popolo romano e i vescovi, fino ad arrivare alla forma ancora oggi vigente della votazione segreta cui partecipano i Cardinali riuniti in Conclave. 

Molto diverse sono le modalità con cui viene scelto il Dalai Lama. 
La tradizione ebbe inizio nel Tibet del XII sec., quindi quattro/cinque secoli dopo che il buddhismo vi si era diffuso. Un Lama (traduzione tibetana del sanscrito guru, maestro spirituale) della scuola Kagyu prima di morire indicò ad un discepolo le circostanze in cui la sua volontà di proseguire sulla Via si sarebbe unita agli altri elementi che compongono una nuova vita. Venne quindi identificato in un bambino il primo di un lignaggio, quello dei Karmapa, tuttora esistente. 

Nel XIV sec. questa forma di successione fu accettata e adottata da tutte le scuole del buddhismo tibetano, dando inizio alla figura dei lama per nascita, detti in tibetano tulku, traduzione del termine sanscrito nirmanakaya, cioè “corpo di emanazione”, il corpo fisico con cui i Buddha compaiono nel mondo. 
Secondo questa tradizione, le persone comuni, a causa delle passioni e delle tracce karmiche non dissolte, vengono alla luce senza poter modificare né tantomeno arrestare il processo delle “rinascite”, e, spinte dal desiderio, vagano nelle forme e nelle condizioni dettate dal karma. Invece, questi esseri santi scelgono volontariamente di tornare (e con quali modalità) nel samsara (l'esistenza ciclica condizionata, permeata di sofferenza) per aiutare coloro che si dibattono nel dolore (è l’ideale del bodhisattva). 
Il metodo dei tulku fu pertanto gradualmente adottato dalle scuole del buddhismo tibetano. Si cominciò a cercare tra i bambini nati dopo la morte di un lama il suo successore, sulla base di indicazioni, segni, indizi, lasciati dal lama prima del decesso, o anche successivi (sogni, visioni, oracoli…), secondo una metodologia che risente forse anche degli influssi delle tradizioni religiose tibetane pre-buddhiste (Bon). 

Nel XV sec., alla morte di Gedun Drup, anche la scuola Gelug introdusse il metodo di successione secondo i tulku. Lo stesso Gedun Drup (nipote di Lama Tzong Khapa, fondatore della scuola) fu riconosciuto come prima manifestazione di Avalokiteshvara, Bodhisattva della Compassione. Nel 1578 il terzo tulku, Sonam Gyatso, divenne il maestro spirituale di Altan Khan, re dei Mongoli, discendente di Gengis Khan. In segno di devozione, Altan tradusse in mongolo il nome “Gyatso” (che significa “oceano”), che divenne “Dale”, e poi “Dalai”. Quindi Dalai (mongolo) = Gyatso (tibetano) = Oceano. Dalai Lama equivale quindi a “Maestro Oceano” (probabilmente con riferimento alla vastità e alla profondità degli insegnamenti del Buddha). Tale titolo fu esteso retroattivamente ai due predecessori di Sonam Gyatso: il primo Dalai Lama divenne pertanto il Terzo. 
Cenresig
La figura del Dalai Lama quale manifestazione del bodhisattva della Compassione, Avalokiteshvara (in tibetano Cenresig), rientra pertanto nella tradizionale concezione buddhista delle rinascite, fermo restando l’assunto della non-affermazione, da parte di tutte le scuole buddiste, di un’anima o spirito immortale. Ed avendo ancor più presente il fatto che tutte queste “teorie” non sono che provvisorie ipotesi, più o meno funzionali al desiderio umano di comprendere con la mente una realtà di cui la mente stessa fa parte. Una realtà priva di esistenza intrinseca, ed una mente che è essa stessa ugualmente vacuità. Tale metodologia implica pertanto la morte di una Dalai Lama quale presupposto necessario ed imprescindibile per l’identificazione del suo successore. 

Fatte queste doverose premesse, è ora possibile comprendere la singolarità di quanto accadde nel Tibet all’inizio del XVIII secolo, quando a Roma regnava Papa Clemente XI.

Nel 1697 salì al trono come Sesto Dalai Lama Tsanyan Gyatso, un ragazzo intelligente, amante della vita all’aperto, poco portato per gli studi filosofici, il quale si sentì ben presto schiacciato dalle grandi responsabilità che il ruolo del Dalai Lama comporta.
Il VI Dalai Lama
Quando a vent’anni (1703) gli fu imposto di prendere i voti monastici definitivi davanti al Panchen Lama, seconda autorità politica e spirituale del Tibet, il Sesto si prosternò di fronte a lui tre volte, come da tradizione, poi annunciò non solo di non voler assumere i voti definitivi, ma anche di voler restituire anche i voti da novizio, e ritornò così allo stato laicale. Dopo di allora, vestì e visse come un nobile capo di Stato nel palazzo del Potala a Lhasa, uscendo a cavallo, partecipando a gare di tiro con l’arco, passando le serate con gli amici e le concubine e scrivendo bellissime poesie. Il che era piuttosto imbarazzante per l’alto clero tibetano, anche se il Sesto era oggetto di assoluta devozione da parte della popolazione. 
A quel punto il Khan dei Mongoli Lazhang, su istigazione dell’imperatore cinese Kangxi, spinse il clero a destituire Tsanyan. Ma ottenne solo una blanda dichiarazione, secondo la quale il Sesto era veramente la manifestazione di Cenresig, anche se privo del principio di illuminazione. Il Khan intervenne di persona e lo fece prelevare con la forza delle armi per poi trasferirlo in Cina (giugno 1706). Il Sesto fu ufficialmente deposto, nonostante l’opposizione del clero buddhista. L’artiglieria mongola ebbe la meglio, il giovane ex Sesto fu trasferito verso la Cina, ma sulle rive di un lago dell’attuale Qinghai morì, forse assassinato, forse per malattia (1706 o 1707). Questo dice la storia. 

Ma secondo Ngawang Lhundrub Dargye, monaco ed erudito, autore della “Biografia segreta del Sesto Dalai Lama”, il giovane Tsanyan non morì, ma fuggì, si travestì da pellegrino, trascorse lunghi periodi in ritiri spirituali sotto la guida di grandi maestri, viaggiò per tutto il Tibet, il Nepal, l’India, la Cina. Divenne così a sua volta un grande maestro buddhista, di cui l’autore del testo fu discepolo. Morì infine nel 1757, anno in cui venne scritta la sua biografia segreta. 
Il XIV Dalai Lama
A questo proposito l’attuale Dalai Lama dice: “Ci sono due versioni sulla sua morte. Al livello convenzionale, si dice che morì o fu ucciso durante il viaggio verso la Cina. Al livello non convenzionale, invece, scomparve lungo la strada per la Cina e ricomparve in seguito nel Tibet sudorientale, poi viaggiò nel Tibet meridionale e raggiunse Lhasa e infine la Mongolia. Qui restò più o meno altri trent’anni. Questo è il punto di vista non convenzionale”. Egli compie così una lettura della storia del tutto inusuale dal punto di vista tradizionale, “occidentale”, ma oltremodo interessante. Propone cioè la possibilità di una duplice lettura, quella “classica”, detta convenzionale, ed una più sottile, non-convenzionale, che potremmo chiamare mitica, la quale non è assolutamente meno “vera” dell’altra. La realtà (non solo quella storica) è fatta cioè di entrambe le visioni, del tutto intrecciate tra loro. Solo tenendole presenti entrambe è possibile accostarsi maggiormente ad una sua comprensione. 

Nel frattempo, a partire dal 1706, al Khan si presentava il problema di ritrovare il “vero” Sesto, la vera incarnazione del Quinto Dalai Lama (ancora oggi noto come il Grande Quinto, appellativo che spettò in seguito al solo Tredicesimo). Lo trovò facilmente in un monaco che pare fosse suo figlio naturale. Nel 1707 questi divenne il “vero” Sesto, cosa che provocò una frattura insanabile tra il Khan e i tibetani (anche l’imperatore cinese, prudentemente, lo riconobbe solo nel 1710). Se l’ipotesi della compresenza di due Sesti è sostenibile solo nella presunzione che il primo fosse veramente fuggito dalla “custodia” del Khan, è invece un dato storico che nel 1712 venne scoperto a Litang un bambino riconosciuto come rinascita di Tsanyan, e quindi come Settimo. Diversi capi mongoli si schierarono a suo favore, ed anche l’oracolo di Stato, importante istituzione del Tibet, proclamò la giustezza della scoperta.
A questo punto, nel Tibet si ebbe la compresenza di un Sesto e di un Settimo Dalai Lama, se non addirittura di due Sesti e di un Settimo!

Solo nel 1720, dopo un periodo di conflitti, armati e non, tra le fazioni mongole e tra i monasteri delle diverse scuole (Gelug e Nyingma), con la costante presenza politica e militare cinese, il bambino di Litang, Kelsang Gyatso, entrò nel palazzo del Potala di Lhasa, per diventare infine il Settimo Dalai Lama. Il “falso” Sesto, figlio del Khan, morì invece a Pechino nel 1725.

Le strutture di potere, politiche, religiose, economiche, tendono naturalmente a perpetuarsi nel tempo, autoriproducendosi secondo meccanismi differenti, ma simili nella finalità: i Papi nominano i Cardinali che eleggono i Papi; i gruppi dirigenti politici formano al loro interno i loro stessi successori, che vengono poi “democraticamente” scelti; i potentati economici sovente li “generano” fisicamente, nelle persone dei figli o dei nipoti, il cosiddetto capitalismo famigliare; lo stesso avviene nelle Monarchie ereditarie; le gerarchie lamaiste sceglievano da bambini i futuri Dalai Lama, per poi istruirli per lunghi anni nei palazzi e nei monasteri…
Talvolta, però, l’ironia della storia fa sì che qualche sassolino entri negli ingranaggi, e ne sveli alcuni meccanismi… 
Il “primo” Sesto, Tsanyan, che li aveva vissuti sulla propria pelle, forse per questo aveva scritto: 

O Yama, specchio del mio karma, 
tu che siedi nel regno dei morti 
tu dovrai giudicarmi e garantirmi giustizia, 
poiché io, in questa vita, giustizia non ho avuto! 

Si leggano sull'argomento: 

- Angelini, Tibet, mito e storia, Ed. Stampa Alternativa
- Laird, Il mio Tibet, Ed. Mondadori 
- Marassi, Il buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture – Vol. I, Ed. Marietti 
- Ngawang Lhundrub Dargye, La biografia segreta del Sesto Dalai Lama, Ed. Luni 

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