Si legge nel Vangelo di Matteo (13, 10-13): “Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: Perché parli loro in parabole? Egli rispose: Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole, perché pur vedendo non vedono e pur udendo non odono e non comprendono”.
Che cosa è una parabola? Secondo quanto si legge nei dizionari della lingua italiana, con il termine “parabola” si intende, in letteratura, la narrazione di un fatto immaginario, sebbene appartenente alla vita reale, con la quale si vuole suggerire una qualche verità, o illustrare un insegnamento di carattere etico o religioso. Si tratta quindi di una similitudine, di un confronto tra due identità, in una delle quali si individuano proprietà somiglianti e paragonabili a quelle dell'altra.
L’uso delle similitudini è molto comune nella letteratura classica: nella Bibbia (Sapienza 2,4: “La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore”), in Omero (Iliade, libro XVI: “Perché piangi, o Patroclo, come una bimba, piccola che corre dalla madre per essere presa in braccio, le prende la veste, e non la lascia camminare, ma piangendo la guarda dal basso, perché la prenda in braccio: a lei assomigli, Patroclo, versando tenere lacrime”), in Dante (Inferno, I, 22-24 : “E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volse a l'acqua perigliosa e guata, così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva”), e lo si trova sovente anche nella letteratura buddhista, ad esempio nei versi del Dhammapada, il fondamentale testo dell’etica buddhista:
“Come la vespa sul fiore, senza sciuparne il colore o l’odore, vola via dopo succhiato il nettare, così si comporti il monaco al villaggio” (4,49).
“Proprio come un blocco di solida roccia non si muove con il vento, così dalla lode e dal biasimo non sono scossi i saggi” (6,81).
“Come la macchia di ruggine che sorge nel ferro mangia corrodendo se stessa, così dedicandosi troppo ai beni della vita le proprie azioni conducono alla rovina” (18,240). (1)
La parabola è in definitiva un confronto tra due elementi, una similitudine, sviluppata però fino a costituire un vero e proprio racconto a se stante (2).
Il termine “parabola” trova la sua origine nel greco antico: il vocabolario greco-italiano di Lorenzo Rocci traduce il sostantivo “parabolé” con “ravvicinamento”, “giustapposizione”, “confronto”, “comparazione”, ed anche con “proverbio”, “favola” ecc., oltre ai significati geometrici o astronomici che qui non interessano.
Parabolé (da cui originano anche “parlare”, “parola”, in spagnolo “palabra”) è composto dalla preposizione “para” (= accanto, a lato, in confronto) e dal verbo “bàllein” (= gettare, scagliare, mettere). Parabolé è quindi mettere accanto, accostare una narrazione ad un’altra, per permettere la comprensione del senso profondo di un discorso, in particolare di un insegnamento.
Secondo il sito Internet www.treccani.it, “il termine è riferito oggi esclusivamente alle 49 parabole contenute nei vangeli sinottici”, il che non è del tutto esatto, in quanto non solo l’insegnamento per mezzo di parabole era già molto diffuso nell’ambito giudaico pre-cristiano, ma era (ed è tuttora) parte essenziale del “linguaggio intenzionale”, cioè del linguaggio utilizzato dai maestri buddhisti, a partire dal Buddha Shakyamuni stesso, per spiegare ai discepoli e agli ascoltatori ciò che non può essere validamente reso con forme di discorso del tutto concettuali, razionali, prive di contraddizioni.
Il Picco dell'avvoltoio a Rajgir (Bihar, India), dal quale il Buddha espose gli insegnamenti del Sutra del Loto |
Nel II capitolo del Sutra del Loto il Buddha si rivolge al discepolo Shariputra con queste parole: “Profonda, difficile da percepire, difficile da capire è la conoscenza buddhica penetrata dai Tathagata (..). Difficile da capire è il linguaggio intenzionale del Tathagata” (3). E per tre volte Shariputra chiede al Buddha la ragione delle sue parole. Alla prima, il Buddha risponde che “il mondo con i suoi dei si spaventerebbe se parlassi di un tale argomento” (4). Alla seconda, che “il mondo con i suoi dei si spaventerebbe [e] qualche monaco orgoglioso cadrebbe in grande disgrazia” (5). Alla terza, il Buddha accetta di rispondere ma, prima ancora che inizi a parlare, 5000 monaci, monache, laici e laiche si alzano e abbandonano l’assemblea, poiché “a causa delle loro radici di arroganza, si immaginavano di aver ottenuto ciò che non avevano ottenuto, di aver realizzato ciò che non avevano realizzato” (6). E il Buddha, rimanendo in silenzio, approva: “la partenza degli orgogliosi è un bene” (7). Questo fatto e le conseguenti parole del Buddha, apparentemente contrarie allo spirito di compassione che anima gli insegnamenti Mahayana, sono così commentate da Thich Nhat Hanh: “Coloro che abbandonano l’assemblea non sentono di poter imparare ancora qualcosa di nuovo; con un simile atteggiamento non sarebbero in grado di ricevere il vero significato” (8) degli insegnamenti. Se una persona non è pronta, matura, per ricevere il vero senso di un insegnamento, ascoltarlo potrebbe essere per lei ancor più dannoso che non udirlo.
Ma che cosa è il linguaggio intenzionale di cui ha parlato il Buddha, definendolo “così difficile da capire”? E’ un linguaggio (in sanscrito chiamato samdhabhasya) utilizzato proprio dai Risvegliati per spiegare ciò che non può essere verbalizzato, ciò che, come l’autentico insegnamento del Dharma, trascende la sfera della ragione e che pertanto non può essere ridotto a concetti (9). E’ “un modo di parlare che ci consente di dire anche ciò che non è possibile dire. Dove le parole alludono, rimandano a qualche cosa che non è l’oggetto letterale del discorso, oppure lo è, ma non va inteso come detto. Nella cultura buddhista l’obiettivo di quel modo di esprimersi è non nascondere, non coprire, non distorcere, non rivelare” (10). Il linguaggio intenzionale, di cui le parabole sono un elemento essenziale, è quindi uno tra gli innumerevoli abili mezzi (in sanscrito: upaya) di cui i Risvegliati si servono per insegnare il Dharma. La upayakaushalya, l’abilità nella scelta e nell’uso dei mezzi salvifici, è una indispensabile qualità di una maestro spirituale, che deve “saper scegliere l’insegnamento più adatto a ciascuno e l’azione che è opportuno suggerire o compiere nelle diverse circostanze” (11), insistendo più sull’aspetto della saggezza che sulla devozione, o sull’energia piuttosto che sulla contemplazione, o su altri aspetti della pratica. Dando insegnamenti tra loro diversi, talora apparentemente contraddittori. Andando, se necessario, anche contro i comportamenti dettati dalle regole monastiche e dalle norme etiche. Sempre in perfetta armonia con le circostanze e le infinite inclinazioni degli esseri, al cui beneficio gli insegnamenti sono rivolti. La pluralità, talvolta la contraddittorietà, delle azioni salvifiche non comporta relativismo morale, poiché alla loro radice vi è l’elemento unificante della motivazione volta al bene, alla liberazione dalla sofferenza di tutti gli esseri senzienti. E’ quindi evidente l’aspetto funzionale degli insegnamenti (guardare la luna e non il dito; abbandonare la zattera dopo aver traversato il fiume, ecc.), che devono essere adattati alle differenti individualità umane nel loro mutevole contesto culturale.
Questi concetti, presenti già nel buddhismo delle origini, vengono nel buddhismo Mahayana ampiamente sviluppati. E di questo sviluppo il già citato Sutra del Loto è un perfetto esempio.
Il Sutra del Loto è uno dei testi più antichi del buddhismo Mahayana, ed è altrettanto importante quanto il Sutra del Cuore della Saggezza, il Sutra del Diamante, il Sutra di Vimalakirti o altri ancora (12). Il nome completo del sutra è Saddharmapundarikasutra, ovvero Sutra del Loto della Buona Legge (o della Vera Dottrina: Dharma = legge, dottrina, insegnamento). L’esposizione orale del sutra è attribuita al Buddha stesso, mentre nella sua forma scritta (in sanscrito) pare essere stato composto in un periodo che va dai primi anni dell’era volgare al 150.
Lo stupa di Rajgir |
Nel 286 e.c. fu tradotto dal sanscrito in cinese dal monaco indiano Dharmaraksa, e nel 406 il famoso traduttore Kumarajiva (13) ne diede una versione, in lingua cinese, tuttora considerata definitiva, con il titolo di Sutra del Loto del Dharma meraviglioso (Miaofalianhuajing, in giapponese Miohorengekyo (14)). Il sutra divenne popolarissimo in tutti i territori in cui si era irradiato l’insegnamento Mahayana: in Kashmir, in Nepal, in Tibet, e soprattutto in Cina e in Giappone, dove ha svolto un ruolo paragonabile a quello della Bibbia in Occidente. E infatti il Sutra del Loto “segna una fase importante per lo sviluppo di un atteggiamento devozionale in seno al buddhismo” (15).
In particolare, nel Giappone del XIII sec. il monaco Nichiren (1222-1282) fece “del Sutra del Loto l’unica pratica in grado di salvare gli esseri senzienti in quest’epoca degenerata, detta mappo” [= era della fine del Dharma] e introdusse l’uso dell’invocazione di omaggio al sutra, “Namu Myohorengekyo" destinata a superare, quanto a efficacia, il nembutsu (16) e le pratiche delle altre scuole buddhiste (..). La scuola Nichiren si svilupperà nei secoli a venire. Nel XX secolo si suddividerà in varie sette, tra cui la Nichiren-shoshu, il ramo ortodosso, e la Soka-gakkai, emanazione laica oggi diffusa in tutto il mondo” (17).
Il sutra divenne la più importante scrittura anche nella scuola cinese T’ien-t’ai (in Giappone Tendai), e altre scuole, come il Ch’an in Cina e lo Zen e lo Shingon in Giappone, lo tengono in altissima considerazione.
Come spiega Thich Nhat Hanh, il Sutra del Loto deve essere osservato in profondità, per evitare di farsi intrappolare dal suo linguaggio mistico e dallo stile teatrale, quasi barocco, in cui è redatto, vedendo in esso “solo descrizioni di eventi miracolosi e di poteri soprannaturali” (18). In particolare, è necessario, per un praticante, studiare il messaggio essenziale del sutra, ovvero che tutti gli esseri hanno in sé la qualità del Risveglio, la capacità di divenire dei Buddha, di entrare in contatto con la dimensione assoluta proprio qui, nella dimensione storica, nella vita di tutti i giorni, nelle azioni quotidiane (19).
Di qui l’importanza del sutra, non a caso chiamato “il Re dei sutra”, anche perché “riesce a combinare insieme e accogliere tutte le scuole del buddhismo” (20).
Questi insegnamenti sono ciò che si ritrova nei 27 capitoli di cui è composto il sutra (28 in altre traduzioni), sia nelle parti in prosa sia in quelle in versi. E, in particolare per ciò che qui maggiormente ci interessa, nelle parabole, che si possono leggere nei capitoli dal III all’VIII, e che costituiscono come si è detto uno degli abili mezzi di cui i maestri (non solo buddhisti) si servono per dare i loro insegnamenti agli esseri, quale che sia il loro grado di evoluzione spirituale.
Il testo tradotto del Sutra del Loto e delle parabole in esso contenute (la casa in fiamme, il figlio ritrovato, il gioiello nascosto ecc.) è reperibile in Internet, ad esempio sul sito http://ilbuddismodinichiren.blogspot.it/2010/05/il-sutra-del-loto-versione-completa-di_27.html, un blog “nato per diffondere il Buddismo di Nichiren Daishonin (Nichiren Shu, Nichiren Shoshu, Soka Gakkai ecc.), e gli altri tipi di Buddismo”.
Se ne consiglia comunque la lettura nell’edizione pubblicata dalla BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), tradotta dal sanscrito e annotata da Luciana Meazza.
NOTE
1. Le citazioni sono tratte dalla versione del Dhammapada pubblicata nel 1971 dalle Edizioni Buddhismo Scientifico a cura di L. Martinelli con il titolo Etica buddhista ed etica cristiana.
2. Si veda, in particolare: G. Miegge (a cura di), Dizionario biblico, Ed. Claudiana, pag. 436.
3. Sutra del Loto, Ed. Rizzoli BUR, pag. 71. Le citazioni del Sutra del Loto sono tratte dalla suddetta edizione, tradotta dal sanscrito e annotata da L. Meazza.
4. idem, pag. 79.
5. idem.
6. idem, pagg. 80-81.
7. idem, pag. 81.
8. Thich Nhat Hanh, Il cuore del cosmo, Ed. Mondadori Oscar, pag. 40. Thich Nhat Hanh è un monaco Zen Rinzai vietnamita (nt. 1926), più volte candidato al Nobel per la Pace per il suo impegno durante e dopo la guerra del Vietnam.
9. Cfr. F. Sferra, Introduzione al Sutra del Loto, pagg. 30-31
10. M. Yushin Marassi, Il linguaggio intenzionale, in: www.lastelladelmattino.org/buddista/index.php/23
11. F. Sferra, cit., pag. 31
12. Nella tradizione buddhista ogni scuola, ogni maestro, sceglieva i sutra che riteneva più importanti, più significativi, relativamente alla propria didattica, allo stile di pratica di quella scuola.
13. Si dice che dopo la sua morte e la sua cremazione si trovò tra i resti la lingua di Kumarajiva ancora intatta, segno certo della sua assoluta affidabilità quale traduttore dei sutra.
14. cfr. la voce “Sutra del Loto” in: P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 614.
15. F. Sferra, cit., pag.27.
16. Namu Amida Butsu = omaggio al Buddha Amithaba.
17. P. Cornu, cit., pag. 614. Si calcola che circa il 50% dei buddhisti italiani sia composto da appartenenti alla Soka-gakkai (ad es. personaggi noti come Roberto Baggio, Sabina Guzzanti). Il nome Soka-gakkai significa “società per la creazione di valori”.
18. Thich Nhat Hanh, cit., pag. 13.
19. cfr. idem, pagg. 11-12.
20. idem, pag. 15.
N.B. - Il presente testo è una rielaborazione del post "Le parabole del Buddha" pubblicato il 19.10.2012 leggibile qui:
http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-200910-le-parabole-del-buddha.html
Mauro Tonko Peretti, settembre 2014
Nessun commento:
Posta un commento