“Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi” (1)
Queste parole scritte dal M° Dogen Zenji nel Giappone del XIII secolo introducono immediatamente al cuore dell’insegnamento buddista: la pratica della meditazione.
Il termine “studiare” deve infatti essere inteso come “praticare”. Lo stesso Dogen scrisse che “studiare e praticare lo zen significa fare zazen”, cioè praticare la meditazione seduta (za = sedere, zen = meditazione). Secondo tutte le scuole buddiste di ogni epoca e paese, studiare la Via non è accumulare nozioni attraverso la lettura dei testi e la riflessione intellettuale (anche se non vengono certamente esclusi lo studio e l’ascolto degli insegnamenti!).
Infatti il Buddha Sakyamuni non ha inteso creare un nuovo sistema filosofico che reinterpretasse l’uomo e il mondo né fondare una nuova religione in alternativa alle altre. Il Buddhismo, come molte tradizioni della spiritualità orientale (ad es. lo Yoga) è una via esperienziale, pratica, pragmatica. E’ la Via che conduce alla liberazione dalla sofferenza per tutti gli esseri senzienti, e questo non può avvenire se non attraverso la pratica della meditazione.
Questa serie di incontri consisterà in una rilettura di temi buddisti attraverso figure del nostro tempo che col buddhismo sono (o sono state) in relazione molto stretta, secondo differenti modalità. Persone reali che chi scrive ha avuto la fortuna di “incontrare” nel corso del proprio cammino – in alcuni casi anche nella realtà, non solo attraverso i libri.
Queste parole scritte dal M° Dogen Zenji nel Giappone del XIII secolo introducono immediatamente al cuore dell’insegnamento buddista: la pratica della meditazione.
Il termine “studiare” deve infatti essere inteso come “praticare”. Lo stesso Dogen scrisse che “studiare e praticare lo zen significa fare zazen”, cioè praticare la meditazione seduta (za = sedere, zen = meditazione). Secondo tutte le scuole buddiste di ogni epoca e paese, studiare la Via non è accumulare nozioni attraverso la lettura dei testi e la riflessione intellettuale (anche se non vengono certamente esclusi lo studio e l’ascolto degli insegnamenti!).
Infatti il Buddha Sakyamuni non ha inteso creare un nuovo sistema filosofico che reinterpretasse l’uomo e il mondo né fondare una nuova religione in alternativa alle altre. Il Buddhismo, come molte tradizioni della spiritualità orientale (ad es. lo Yoga) è una via esperienziale, pratica, pragmatica. E’ la Via che conduce alla liberazione dalla sofferenza per tutti gli esseri senzienti, e questo non può avvenire se non attraverso la pratica della meditazione.
Questa serie di incontri consisterà in una rilettura di temi buddisti attraverso figure del nostro tempo che col buddhismo sono (o sono state) in relazione molto stretta, secondo differenti modalità. Persone reali che chi scrive ha avuto la fortuna di “incontrare” nel corso del proprio cammino – in alcuni casi anche nella realtà, non solo attraverso i libri.
Ma la persona che fondamentalmente il praticante incontra lungo la Via è se stesso: studiare il Buddha (cioè praticare la Via) è studiare se stessi (cioè praticare se stessi). Non si tratta di un conoscere meramente descrittivo, e nemmeno legato al raggiungimento di un qualsiasi modello ideale. Infatti Dogen così continua nella sua opera maggiore, lo “Shobogenzo” (= “Il Tesoro dell’Occhio del Vero Dharma”):
“Studiare la Via del Buddha è studiare se stessi.
Studiare se stessi è dimenticare se stessi.
Dimenticare se stessi è percepire se stessi come tutte le cose.
Realizzare questo è lasciar cadere mente e corpo di se stessi e degli altri.” (2)
Studiare il Buddha è studiare se stessi |
Nelle scuole del buddhismo tibetano (4 scuole maggiori, più diverse sottoscuole) il termine “meditazione” è reso con la parola “gom”, che significa “familiarizzarsi”, “divenire intimo” (ed infatti il luogo della pratica è detto “gompa”, genericamente tradotto con “monastero”).
E il termine giapponese “sesshin”, che indica i periodi di pratica intensiva di uno o più giorni, significa “trattare la propria mente-cuore (shin, lo spirito) come un ospite”, quindi, ancora, divenire intimi con se stessi.
Divenire profondamente intimi con se stessi: questo è lo studio di se stessi, e questa è la pratica della meditazione, al di là (o al di qua...) delle diverse metodiche adottate dalle varie tradizioni buddiste.
Nei 4 versi di Dogen sopra citati sono racchiusi insegnamenti di grande profondità, che toccano i temi fondamentali del buddhismo: la vacuità del sé e di tutti i fenomeni (“abbandonare se stessi”), l’interdipendenza (“percepire se stessi come tutte le cose”), la compassione, il Risveglio…
In questa sede ci limiteremo (per così dire...) a toccare un solo argomento, che in realtà li racchiude tutti: la postura di zazen, secondo gli insegnamenti dello Zen Soto, la scuola cui appartiene chi scrive.
Venticinque secoli fa, nella pianura dell’India del Nord Est, il principe Siddhartha Gautama Sakyamuni abbandonò il Palazzo e la famiglia, per cercare la Via che conduce alla definitiva liberazione dalla sofferenza. Per sei anni praticò forme di ascetismo sempre più estreme, fino a giungere alla soglia della morte. Infine, tornò a nutrirsi con un poco di latte e riso, poiché aveva compreso che quella via non portava né “a sopprimere la passione, né all’Illuminazione, né alla Liberazione”. Quindi, come narra Asvaghosa, “prese dell’erba pura da un falciatore, fece voto di conseguire l’Illuminazione e si sedette ai piedi di (un) puro grande albero. Egli assunse allora la somma incrollabile postura che è raccolta come le spire del serpente addormentato” (3). All’alba, alla luce della stella del mattino, era divenuto il Buddha, il Risvegliato.
E il termine giapponese “sesshin”, che indica i periodi di pratica intensiva di uno o più giorni, significa “trattare la propria mente-cuore (shin, lo spirito) come un ospite”, quindi, ancora, divenire intimi con se stessi.
Divenire profondamente intimi con se stessi: questo è lo studio di se stessi, e questa è la pratica della meditazione, al di là (o al di qua...) delle diverse metodiche adottate dalle varie tradizioni buddiste.
Nei 4 versi di Dogen sopra citati sono racchiusi insegnamenti di grande profondità, che toccano i temi fondamentali del buddhismo: la vacuità del sé e di tutti i fenomeni (“abbandonare se stessi”), l’interdipendenza (“percepire se stessi come tutte le cose”), la compassione, il Risveglio…
In questa sede ci limiteremo (per così dire...) a toccare un solo argomento, che in realtà li racchiude tutti: la postura di zazen, secondo gli insegnamenti dello Zen Soto, la scuola cui appartiene chi scrive.
Venticinque secoli fa, nella pianura dell’India del Nord Est, il principe Siddhartha Gautama Sakyamuni abbandonò il Palazzo e la famiglia, per cercare la Via che conduce alla definitiva liberazione dalla sofferenza. Per sei anni praticò forme di ascetismo sempre più estreme, fino a giungere alla soglia della morte. Infine, tornò a nutrirsi con un poco di latte e riso, poiché aveva compreso che quella via non portava né “a sopprimere la passione, né all’Illuminazione, né alla Liberazione”. Quindi, come narra Asvaghosa, “prese dell’erba pura da un falciatore, fece voto di conseguire l’Illuminazione e si sedette ai piedi di (un) puro grande albero. Egli assunse allora la somma incrollabile postura che è raccolta come le spire del serpente addormentato” (3). All’alba, alla luce della stella del mattino, era divenuto il Buddha, il Risvegliato.
Quella postura è la stessa che da quel giorno generazioni di praticanti hanno assunto nei templi o sotto gli alberi delle foreste, nelle case delle grandi città o nel silenzio delle montagne.
Essa è così descritta dal M° Dogen (1227): “La posizione è con le gambe incrociate o in modo completo o in modo incompleto.. Posa il dorso della mano destra sul piede sinistro e il dorso della mano sinistra nel palmo della mano destra. Le punte dei pollici devono toccarsi leggermente.. la lingua riposa contro il palato.. tieni sempre gli occhi aperti. Respira tranquillamente attraverso il naso.. fa qualche movimento ondulatorio con tutto il corpo a destra e a sinistra. Quindi siedi immobile.” (4)
Essa è così descritta dal M° Dogen (1227): “La posizione è con le gambe incrociate o in modo completo o in modo incompleto.. Posa il dorso della mano destra sul piede sinistro e il dorso della mano sinistra nel palmo della mano destra. Le punte dei pollici devono toccarsi leggermente.. la lingua riposa contro il palato.. tieni sempre gli occhi aperti. Respira tranquillamente attraverso il naso.. fa qualche movimento ondulatorio con tutto il corpo a destra e a sinistra. Quindi siedi immobile.” (4)
La postura di zazen |
Questo breve estratto fa parte di un testo fondamentale per lo Zen, il “Fukanzazengi”, che viene costantemente recitato nei templi Zen. Il titolo, “Fukanzazengi”, si può tradurre con: la forma, il modello (gi) dello zazen come raccomandazione, invito (kan) rivolto a tutti, universale (fu). La forma dello zazen che è invito universale (il che bene evidenzia la caratteristica di universalità dell’insegnamento del Buddha).
“Lo zazen – scrive ancora Dogen – non consiste nell’apprendere a meditare. Semplicemente è la porta reale della pace e della gioia, è la pratica avverata che arriva alla pienezza del risveglio” (5).
Non è una postura che si assume per poi fare qualcosa (mi inginocchio per pulire il pavimento, mi sdraio per rilassarmi, mi siedo per meditare..).
Molti sutra (= discorsi) del Buddha iniziano proprio con una descrizione della postura: “egli parla da quella posizione, una posizione fisica cui corrisponde un determinato posizionamento mentale, un tutt’uno ove né corpo né mente interferiscono col libero movimento della ruota darmica” (6). Infatti, “nella cultura buddista corpo e mente sono non-due” (7). Nelle parole del M° Roland Yuno Rech, uno dei successori del M° Deshimaru, lo zazen “di per sé non è una mera pratica del corpo, ma una combinazione di tre elementi: postura, respirazione e coscienza.. totalmente interdipendenti” (8). In zazen, dice ancora R. Rech, “si pensa con il corpo intero, e non solo con la corteccia cerebrale.. con questo corpo limitato siamo una cosa sola con l’universo, come la goccia di rugiada riflette il chiaro di luna” (9).
Ogni particolare della postura esprime allora un profondo significato, affatto concreto, e non solo simbolico – lo Zen non lavora sui simboli. La base della postura del Risveglio è il triangolo costituito dalle ginocchia e dal bacino. E’ una posizione che fa sì che il corpo sia tonico pur facendo nulla, come pure la mente. Se il corpo non è comodamente stabile e immobile, neppure la mente – instabile per sua natura – può trovare il suo riferimento. Il tronco è un ponte tra il cielo, su cui preme la testa, e la terra, su cui premono le ginocchia. La colonna vertebrale è un arco che scocca al cielo la freccia dello spirito. L’estensione della colonna vertebrale consente il rilassamento del diaframma e un conseguente rovesciamento dell’atteggiamento respiratorio a favore dell’esalazione (mentre l’attività quotidiana, sovente inconsapevole ed automatica, è orientata a privilegiare l’inspirazione). Quindi, “la coscienza della propria respirazione impedisce di perdersi nei pensieri e rimette in contatto con la realtà presente” (10). Gli occhi, né aperti né chiusi, non fissano alcun punto, senza peraltro seguire le immagini che ci circondano, e “lo sguardo diventa vasto, come lo spirito che non ristagna su nessun pensiero” (11): non c’è separazione dal mondo, anzi tutta la realtà è accolta al di là delle nostre opinioni e pregiudizi, al di là del “mi piace – non mi piace”. Il mento è rientrato, poiché non vi è nulla da afferrare, o a cui aggrapparsi (si pensi a quante “mascelle volitive” hanno segnato la storia, e la cronaca..).La lingua riposa toccando la base degli incisivi: in zazen non c’è bisogno di parole, ed anche il chiacchiericcio della mente discorsiva si affievolisce, i pensieri rallentano il loro incessante concatenamento. Ugualmente, le mani non afferrano nulla e nulla rifiutano: tenendole in grembo nella pozione di hokkai join, il mudra (= gesto) della realtà assoluta, “ci asteniamo dall’esprimere attraverso il corpo desideri, pensieri e atteggiamenti caratteriali” (12).
“Lo zazen – scrive ancora Dogen – non consiste nell’apprendere a meditare. Semplicemente è la porta reale della pace e della gioia, è la pratica avverata che arriva alla pienezza del risveglio” (5).
Non è una postura che si assume per poi fare qualcosa (mi inginocchio per pulire il pavimento, mi sdraio per rilassarmi, mi siedo per meditare..).
Molti sutra (= discorsi) del Buddha iniziano proprio con una descrizione della postura: “egli parla da quella posizione, una posizione fisica cui corrisponde un determinato posizionamento mentale, un tutt’uno ove né corpo né mente interferiscono col libero movimento della ruota darmica” (6). Infatti, “nella cultura buddista corpo e mente sono non-due” (7). Nelle parole del M° Roland Yuno Rech, uno dei successori del M° Deshimaru, lo zazen “di per sé non è una mera pratica del corpo, ma una combinazione di tre elementi: postura, respirazione e coscienza.. totalmente interdipendenti” (8). In zazen, dice ancora R. Rech, “si pensa con il corpo intero, e non solo con la corteccia cerebrale.. con questo corpo limitato siamo una cosa sola con l’universo, come la goccia di rugiada riflette il chiaro di luna” (9).
Ogni particolare della postura esprime allora un profondo significato, affatto concreto, e non solo simbolico – lo Zen non lavora sui simboli. La base della postura del Risveglio è il triangolo costituito dalle ginocchia e dal bacino. E’ una posizione che fa sì che il corpo sia tonico pur facendo nulla, come pure la mente. Se il corpo non è comodamente stabile e immobile, neppure la mente – instabile per sua natura – può trovare il suo riferimento. Il tronco è un ponte tra il cielo, su cui preme la testa, e la terra, su cui premono le ginocchia. La colonna vertebrale è un arco che scocca al cielo la freccia dello spirito. L’estensione della colonna vertebrale consente il rilassamento del diaframma e un conseguente rovesciamento dell’atteggiamento respiratorio a favore dell’esalazione (mentre l’attività quotidiana, sovente inconsapevole ed automatica, è orientata a privilegiare l’inspirazione). Quindi, “la coscienza della propria respirazione impedisce di perdersi nei pensieri e rimette in contatto con la realtà presente” (10). Gli occhi, né aperti né chiusi, non fissano alcun punto, senza peraltro seguire le immagini che ci circondano, e “lo sguardo diventa vasto, come lo spirito che non ristagna su nessun pensiero” (11): non c’è separazione dal mondo, anzi tutta la realtà è accolta al di là delle nostre opinioni e pregiudizi, al di là del “mi piace – non mi piace”. Il mento è rientrato, poiché non vi è nulla da afferrare, o a cui aggrapparsi (si pensi a quante “mascelle volitive” hanno segnato la storia, e la cronaca..).La lingua riposa toccando la base degli incisivi: in zazen non c’è bisogno di parole, ed anche il chiacchiericcio della mente discorsiva si affievolisce, i pensieri rallentano il loro incessante concatenamento. Ugualmente, le mani non afferrano nulla e nulla rifiutano: tenendole in grembo nella pozione di hokkai join, il mudra (= gesto) della realtà assoluta, “ci asteniamo dall’esprimere attraverso il corpo desideri, pensieri e atteggiamenti caratteriali” (12).
Il M° Fausto Taiten Guareschi |
Scrive il M° Fausto Taiten Guareschi, abate del monastero di Fudenji (Fidenza): ogni particolare della postura “non ne ostruisce nessun altro, ma nella sua singolarità include ogni altro particolare” (13). L’esperienza del corpo in zazen è esperienza dell’interdipendenza di tutti i fenomeni.
In sintesi, lo zazen, afferma il M° Rech, è “un modo di pensare con il proprio corpo e con la propria respirazione senza attaccarsi ai pensieri”, i quali passano senza ristagnare su nulla, in totale disponibilità per ogni nuovo istante (14).
Attraverso lo zazen, che non a caso è spesso definito come uno specchio, impariamo a divenire intimi con noi stessi, non attraverso le opinioni nostre o altrui su noi stessi, non sostituendo tali immagini su noi stessi con altre immagini o modelli, bensì abbandonando tali immagini ed opinioni: “vivere con il corpo e non solo con la testa” dice R. Rech. Per questo è stato detto che il Buddhismo è una religione del corpo: perché il corpo non è né un ostacolo né un oggetto di culto, ma un frammento dell’energia cosmica. In zazen, “questo corpo non è questo mio corpo, queste mani, queste gambe non sono mie.. Tutto diviene in unità” (15).
Attraverso il corpo – l’unità di corpo e spirito nel qui ed ora – possiamo spogliarci dell’attaccamento al corpo stesso e liberarci da tutte le paure che lo accompagnano.
E finalmente, conoscere se stessi ci “porta ad abbandonare l’attaccamento al nostro ego limitato e a realizzare l’unità con l’intero universo” (16), consentendo alla nostra compassione verso tutti gli esseri senzienti di manifestarsi compiutamente.
Note
In sintesi, lo zazen, afferma il M° Rech, è “un modo di pensare con il proprio corpo e con la propria respirazione senza attaccarsi ai pensieri”, i quali passano senza ristagnare su nulla, in totale disponibilità per ogni nuovo istante (14).
Attraverso lo zazen, che non a caso è spesso definito come uno specchio, impariamo a divenire intimi con noi stessi, non attraverso le opinioni nostre o altrui su noi stessi, non sostituendo tali immagini su noi stessi con altre immagini o modelli, bensì abbandonando tali immagini ed opinioni: “vivere con il corpo e non solo con la testa” dice R. Rech. Per questo è stato detto che il Buddhismo è una religione del corpo: perché il corpo non è né un ostacolo né un oggetto di culto, ma un frammento dell’energia cosmica. In zazen, “questo corpo non è questo mio corpo, queste mani, queste gambe non sono mie.. Tutto diviene in unità” (15).
Attraverso il corpo – l’unità di corpo e spirito nel qui ed ora – possiamo spogliarci dell’attaccamento al corpo stesso e liberarci da tutte le paure che lo accompagnano.
E finalmente, conoscere se stessi ci “porta ad abbandonare l’attaccamento al nostro ego limitato e a realizzare l’unità con l’intero universo” (16), consentendo alla nostra compassione verso tutti gli esseri senzienti di manifestarsi compiutamente.
Note
1) Dogen, “Shobogenzo”, Ed. Pisani
2) idem
3) Asvaghosa, “Le gesta del Buddha”, Ed. Adelphi
4) Dogen, “Fukanzazengi”, in “Sedersi in pace”, Ed. La Stella del Mattino
5) idem
6) P. Sacchi, in “Sedersi in pace”
7) idem
8) Roland Rech, “Monaco zen in occidente”, Ed. Promolibri
9) R. Rech, “Zen, il risveglio al quotidiano”, Ed. Le Lettere
10) idem
11) idem
12) R. Kengaku Pinciara, “La vita della forma”, in “Sedersi in pace”
13) F. Guareschi, “Mondo piccolo. Roba dell’altro mondo”, Ed. Il Cerchio
14) R. Rech, “Zen”
15) F. Guareschi, “Mondo piccolo”
16) R. Rech, “Zen”.
m. Mauro Ton Ko, ottobre 2006
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