lunedì 8 ottobre 2012

UNISABAZIA 2006/07 - Tiziano Terzani

Scheda biografica
Tiziano Terzani, una delle più grandi firme del giornalismo italiano, nasce a Firenze nel 1938. Laureatosi in giurisprudenza, nel 1965 si reca in Giappone, alle dipendenze dell’Olivetti. Dopo aver studiato il cinese negli USA, nel 1969 torna in Asia come corrispondente del settimanale tedesco Der Spiegel, e lo sarà per 30 anni. Nel 1971 nasce la figlia Saskia, mentre nel 1969 ha già avuto un maschio, Folco, dalla moglie Angela Staude.
Nel 1975 è a Saigon, con pochissimi altri giornalisti, e assiste alla caduta della città e alla presa del potere da parte dei Vietcong. E’ poi a Hong Kong, e dal 1979 a Pechino, da cui viene espulso nel 1984 per “attività controrivoluzionaria”. Intanto, nel 1981, aveva rischiato la fucilazione in Cambogia, da parte dei Khmer Rossi. Successivamente si trasferisce a Tokio, poi a Bangkok e a Mosca, durante il golpe contro Gorbacev. Intanto, collabora con il Corriere della Sera, Repubblica, L’Espresso, e pubblica diversi libri: “Giai Phong!”, “La Porta proibita”, “Buonanotte Signor Lenin”. Nel ’94 si trasferisce con la famiglia in India. Nel 1995 esce un libro che diviene famoso: “Un indovino mi disse”, dove narra un intero anno vissuto come corrispondente in Asia senza mai salire su un aereo, a seguito della profezia di un indovino. Il 1997 è l’anno dei primi sintomi del male che lo porterà alla morte, un cancro. Una storia raccontata nel volume del 2004 “Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo”. Un libro sull’Oriente e sull’Occidente, sulla malattia e sul dolore, sulla medicina e sulla spiritualità. Ma prima, nel 2001, dopo l’11/9 e l’attacco americano in Afghanistan, aveva scritto le “Lettere contro la guerra”, anche in aperta polemica con le prese di posizione anti-islamiche di Oriana Fallaci. Dopo di allora si moltiplicano le iniziative di pace a cui prende parte. Nel maggio 2004 rilascia una lunga intervista filmata. Infine, il 28 luglio 2004, T.T., che durante la sua esperienza in India aveva preso il nome di Anam (il senza-nome), “lascia il corpo”, nella sua casa all’Orsigna, piccolo borgo appenninico.

Anam, il Senza-nome

La sofferenza, la morte, la guarigione
Per quanto provvisorio possa essere il concetto di buddhismo, categoria del pensiero sconosciuta in Oriente in quanto inventata dall’Occidente (come tutti gli –ismi), non è comunque possibile inscatolarvi la figura di T.T., il senza-nome. Egli stesso rifiuterebbe ogni inutile etichetta religiosa o ideologica. Scrive infatti di sé: “Sono un fiorentino che ha cercato qualcos’altro, che ha piluccato di qua e di là, che ha fatto tante esperienze”.
E questa ricerca lo porta anche, ormai malato da tempo, negli ashram indiani, sulle montagne dell’Himalaya. E lì, come si dice nelle tradizioni indiane, “quando il discepolo è pronto, il maestro appare”. Senza che abbia nessuna importanza a quale religione appartenga il maestro, o se le pratiche che T.T. applicherà per diversi anni sulle montagne dell’India e poi nel suo ritiro dell’Orsigna, fino alla fine, siano da definirsi buddiste, induiste o altro.
Racconta al figlio Folco, poche settimane prima di morire: “Ero pronto.. I primi mesi sono stati magici.. Nevicava spessissimo, eravamo bloccati. Io stavo in una casetta fredda, mi alzavo la notte, alle tre o le quattro, a meditare come faceva lui (il maestro, il Vecchio, come lo chiama T.T.)”.
“Una mattina, su quel crinale mi ha colpito un maggiolino.. L’ho seguito, camminava avanti e indietro e poi è arrivato in cima al filo d’erba e ha aperto le sue piccole ali vellutate ed è schizzato via.. Ed ecco, lì davvero.. ho sentito che la mia vita era parte di questo. E poi fai un piccolo salto e senti che tu sei il vento, che tu sei il maggiolino.. Niente diventa più terribile. Non mi interessava più, questo cancro.. Non sono un intellettuale.. non sono un profeta, sono uno che alla fine della vita ha goduto anche della sua fisicità. E attraverso di quella, stranamente.. sono arrivato al di là della materialità. Ho potuto sentire un senso più grande, che era legato al tutto e che è la mia grande consolazione di ora. Perché non mi si toglie. Non mi si toglie”.
Attraverso la malattia, il corpo malato, passa per Anam la Via della guarigione, al di qua, al di là, della morte.
“Paura della morte? Perché? Perché si sa di dover abbandonare tutto quello che conosciamo. Niente è più tuo, non le tue case, non i tuoi figli, non il tuo nome.. Ma se ti ci avvicini prima, se impari a rinunciare ai desideri, a distaccarti da tutto, non perdi nulla.. La sofferenza viene dall’essere attaccato alle cose. Buddha lo dice così bene: se hai una cosa, hai paura di perderla; se non ce l’hai, la vuoi avere”.
“Questa è la cultura della morte. Noi l’abbiamo persa”. Questa è la cultura, l’imago mortis perduta dall’Occidente, secondo T.T.: “Si muore dal momento che si nasce.. Se uno imparasse.. che la morte è parte della vita, che tu puoi integrare la morte nella vita, allora la tua vita sarebbe più bella, perché conterrebbe questo contrasto e questa dimensione”. E ancora, osservando il fiume, i boschi dell’Appennino: “Pensa, in questo momento quanti uccellini muoiono, quante formiche vengono pestate, quanti uomini muoiono di malattia, di vecchiaia, di violenza.. Lo dice bene il dio Krishna, tutto quello che nasce muore e tutto quello che muore nasce. Anch’io la fine la sento come un inizio. L’inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio.”
Non è poesia, non è filosofia. Sono le cose che T.T. ha imparato attraverso la pratica: “che mi sono entrate dentro vivendo da solo nella baita sull’Himalaya.. la rinuncia ai desideri, che è la vera, ultima, grande forma di libertà.. Non desidero più niente. Non desidero certo più la longevità, ormai. Ma non desidero nemmeno l’immortalità.. no, non è questo che sento.. sento questa mia vita che sfugge, ma che non sfugge, perché è parte della stessa vita di quegli alberi. Una cosa bellissima, il disfarsi nella vita del cosmo ed essere parte di tutto.. Allora, questa è la fine ma anche l’inizio ”.
E quando il figlio gli domanda cosa egli veda quando guarda il mondo, risponde: “Prima, anch’io vedevo il mondo diviso, diviso! Vedevo me separato da quello che vedevo.. Poi è successo qualcosa ed è successo che lo vedo unito. Non vedo più la separazione. Prima vedevo il mondo a fette.. poi è successo qualcosa di molto strano, perché allora non vedevo più separato. Vedevo me parte di tutto.. E’ il risultato dell’Himalaya, quando ho cominciato a buttare via i desideri. E allora era tutt’uno.. Per cui è come abbracciare prima il minerale e abbracciare l’animale e abbracciare l’umanità, perché non c’è differenza”. E da quel punto di vista, dal punto di vista di un T.T. altro, la morte è “la paura di perdere il pezzetto di casa che hai comprato al mare”.
 “E l’immagine che mi viene in mente quasi ogni giorno del mio abbandonare il mio corpo è quella di un monaco zen che si siede nel silenzio della sua cella, prende un bel pennello, lo intinge nel mortaio dove ha sparso la china e poi si raccoglie davanti al pezzo di carta di riso e con grande concentrazione fa un cerchio che si chiude. Ma un cerchio, non fatto con il compasso, un cerchio fatto con l’ultimo gesto della mano su questa terra. La vita si conclude”.

Sofferenza e liberazione dalla sofferenza nel primo sermone del Buddha

“In passato come adesso ho spiegato solo questo: la sofferenza e la fine della sofferenza”. Queste parole del Buddha chiariscono quale sia l’ambito della sua esperienza e del suo insegnamento: il dolore, la conoscenza delle sue cause e la fine del dolore per gli esseri senzienti.
Il termine sanscrito che viene di norma tradotto con “sofferenza” o “dolore” è duhkha. Il significato etimologico può essere d’aiuto per la comprensione degli insegnamenti del Buddha: il prefisso DU(S) indica un “cattivo funzionamento” (diverrà in greco dys e in italiano dis, ad es. disattenzione). KHA si riferisce invece alla cavità centrale di una ruota. Quindi, si ha l’immagine di una ruota che gira in modo anomalo sul proprio asse.
Duhkha è quindi più del dolore comunemente inteso, non è solo una assenza più o meno momentanea di gioia. E’ frustrazione, disagio, imperfezione, insoddisfazione. E’ dolore anche la stessa felicità, in quanto fondata sull’impermanenza dei fenomeni. “Tutto ciò che è impermanente è duhkha”, ha detto il Buddha.
Ma la Via del Buddha non è la Via del pessimismo o della rassegnazione come spesso si dice: è invece permeata dalla compassione e dalla superiore gioia della liberazione. “In ambito cristiano – ha scritto il monaco zen Giampietro Sono Fazion – sarebbe come considerare la crocifissione senza la risurrezione”.
Lo dimostra il Sutra (= filo di una collana, ma qui significa discorso) al quale si farà ora riferimento per meglio comprendere il senso della definizione della Via del Buddha come Via di liberazione dalla sofferenza.
E’ il Dharmachakrapravartanasutra, il Discorso della messa in moto della Ruota del Dharma (*), che riporta il primo sermone tenuto dal Buddha, 49 giorni dopo il Risveglio, nel Parco dei Daini di Sarnath (nei pressi dell’attuale Varanasi, già Benares), ai 5 asceti con cui aveva praticato nella foresta prima della notte del Risveglio. Il Sutra è anche conosciuto come il Discorso delle Quattro Nobili Verità, laddove per Verità si intendono delle conoscenze di ordine superiore che, solo se praticate e non accettate dogmaticamente, possono portare l’uomo alla liberazione.
Dopo aver chiarito ai 5 asceti che “coloro che hanno abbandonato la vita mondana non devono indulgere ai due estremi”, cioè “dedicarsi al godimento dei piaceri sensuali” oppure “dedicarsi alla mortificazione di se stessi”, il Buddha inizia ad esporre le Quattro Nobili Verità.
Il Parco delle Gazzelle a Sarnath

La Prima Nobile Verità è la Verità della Sofferenza: “la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non si ama è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati dell’attaccamento [che costituiscono la persona e danno origine alla falsa idea del sé] sono dolore”.
Duhkha può essere visto sotto tre aspetti:
a) la comune sofferenza (detta sofferenza della sofferenza), che percepiamo nel corso della nostra esistenza, i dolori del corpo e della mente
b) la sofferenza del cambiamento: sono le esperienze mondane gioiose, piacevoli; apparentemente è felicità, ma in realtà è sofferenza, in quanto la loro reiterazione le trasforma in dolore. E’ un continuo alternarsi di gioia e sofferenza
c) la sofferenza onnipervasiva, legata ai 5 aggregati.
Quest’ultimo punto corrisponde alla natura profondamente insoddisfacente dell’esistenza condizionata (samsara, il ciclo di nascita – morte - rinascita). Per capirlo, è necessario ricordare che nel buddhismo l’io, l’individuo (come tutti i fenomeni composti nell’universo) non ha una esistenza propria, autonoma, permanente. Esso è solo una combinazione temporanea e mutevole, un flusso, di energie fisiche e mentali, appunto i “cinque aggregati dell’attaccamento”, che sono:
1) la forma (il corpo e i fenomeni di ordine fisico)
2) le sensazioni (esperienze sensibili)
3) le percezioni (riconoscimento delle cose di cui si fa esperienza)
4) le formazioni della volizione (automatismi di pensiero, abitudini, che condizionano il presente e il futuro)
5) la coscienza (riunisce le informazioni degli altri aggregati).
In quanto fenomeno composto, l’io è soggetto a nascita e distruzione, e l’attaccamento all’idea di un io autonomo e permanente è causa di sofferenza.

La Seconda Nobile Verità è l’Origine della Sofferenza. Essa “è questa sete che produce la rinascita, che è legata al godimento delle passioni, che cerca sempre nuovi piaceri ovunque, ossia la sete dei piaceri dei sensi, quella dell’esistenza e quella della non-esistenza”. Le sofferenze hanno quindi origine nel desiderio insaziabile, ma non solo, anche nelle passioni, nate dall’ignoranza, nel desiderio di rinascite superiori o di auto-annullamento. Il Buddha paragonò tutto questo ad un fuoco: “O monaci, vi sono questi tre fuochi: il fuoco della brama, il fuoco dell’avversione, il fuoco dell’ignoranza”. Sono i Tre Veleni, attraverso cui accumuliamo il karma che ci proietta nel ciclo del samsara.

Come un medico attraverso l’osservazione dei sintomi (Prima Verità) cerca l’origine della malattia (Seconda Verità) per trovare la cura, così il Buddha espone la Terza Nobile Verità, la Cessazione della Sofferenza: “La cessazione del dolore è l’estinzione, il completo svanimento l’abbandono, il rifiuto di questa brama, la liberazione e il distacco da essa”.
Il Buddha a Sarnath
E’ il nirvana, l’estinzione della fiamma. Non un “paradiso” cui accedere, bensì una realtà etica e psicologica, una condizione radicalmente trasformata di pacificazione, di gioia, di consapevolezza, di compassione. Non una entità distinta ed autonoma, bensì nirvana e samsara come due facce di una unica medaglia. Non si “lascia” il samsara per “entrare” nel nirvana. Scrisse il grande Maestro indiano Nagarjuna: “Non vi è la minima differenza tra samsara e nirvana”. E pochi decenni dopo, dai deserti dell’Egitto, gli faceva eco il monaco cristiano Antonio Abate: “La morte, per chi sa comprenderla, è immortalità”.

Infine, nella Quarta Nobile Verità, la Verità del Sentiero, il Buddha espone la cura per sradicare la sofferenza. “Questa, o monaci, è la Nobile Verità che conduce alla cessazione del dolore: esso è il Nobile Ottuplice Sentiero, ovvero retta visione, retto pensare, retta parola, retta azione, retto mezzo di sussistenza, retto sforzo, retta attenzione e retta concentrazione”.

Gli otto fattori del Nobile Ottuplice Sentiero sono chiamati “retti” in quanto propongono una via mediana (la “Via del Mezzo”) tra soddisfazioni materiali e totale austerità. Possono essere letti attraverso il loro raggruppamento nei cosiddetti “Tre Addestramenti”, ovvero:

sila, la disciplina morale
-retta parola: non mentire, non parlare duramente o futilmente, non calunniare..
-retta azione: non uccidere, non rubare, avere una corretta sessualità, non intossicarsi…
-retti mezzi di sussistenza: non trarre guadagno da attività nocive..

samadhi, il raccoglimento meditativo
-retto sforzo: sbarazzarsi di abitudini negative, generare stati mentali benefici
-retta attenzione: al corpo, alle sensazioni, ai pensieri, ai concetti…
-retta concentrazione: ad es. usando il respiro come supporto per la concentrazione
prajna, la conoscenza superiore, la saggezza
-retto pensiero: rinunzia, assenza di egoismo, non-violenza (ahimsa), amore per tutti gli esseri…
-retta comprensione: conoscenza delle Quattro Nobili Verità e comprensione delle cose così come esse realmente sono.

Ciò che importa osservare è che gli otto fattori del Sentiero sono strettamente e mobilmente correlati tra loro. Colui che pratica la Via è chiamato ad applicarli tutti insieme, e per sempre. Non sono stadi o tappe intermedie da raggiungere e superare. E’ una disciplina (del corpo, della parola e della mente) che ha carattere universale, che può essere praticata da chiunque, al di là di qualsiasi appartenenza.

Infine, alcune parole di Claude Anshin Thomas, eroe di guerra del Vietnam, reduce alcolizzato e tossicodipendente, ed oggi Maestro Zen: “Quando proviamo queste sofferenze [si riferisce al lutto, alla paura, alla solitudine..] e sappiamo che sono nostre, allora finalmente c’è la possibilità per la guarigione e la trasformazione.. Sentirsi semplicemente tristi, questo è il Dharma.. Il Buddha ha insegnato l’impermanenza e la mancanza di un sé in tutte le cose. La mia natura è di invecchiare, di ammalarmi, di commettere errori, di essere confuso. La mia natura è di illuminarmi, di vivere la gioia. La sofferenza sta nel fatto che non siamo capaci di vivere questa natura.. Restare aperti a tutte le gioie e i dolori dell’universo, non aspettarsi che niente al di fuori di noi ci procuri stabilità e felicità.. Risvegliandomi a ciò che mi tiene intrappolato in questa sofferenza vuol dire che smetto di fare le cose che mi tengono intrappolato nel ciclo della sofferenza”.

(*) - La parola Dharma (Buddhadharma, il Dharma del Buddha) si usava e si usa tuttora per indicare l’insegnamento del Buddha, ciò che in Occidente si dice “buddhismo”. Dharma deriva dalla radice dhar = mantenere, sostenere. Non è traducibile in italiano o in altre lingue occidentali con un unico termine, e richiede sempre lunghe precisazioni, a partire dal contesto in cui è inserita.
In sanscrito (l’antica lingua dotta dell’India tradizionale) il termine dharma riveste molteplici significati:
- dottrina, insegnamento, specialmente di tipo spirituale, religioso
- legge, giustizia, retto comportamento, dovere, Legge Cosmica
- i fenomeni
- la Realtà Ultima (la Verità intesa come la Realtà così come essa è)


Nota: tutte le citazioni di Tiziano Terzani sono tratte dal volume “La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita”, Ed. Longanesi, 2006.

Molto interessante può essere visitare il sito Internet
www.tizianoterzani.com
m. Mauro Ton Ko, ottobre 2006

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