In questi tempi oscuri, all’alba del Kali Yuga, può essere una buona pratica
leggere (o rileggere) e meditare un importante testo che tocca i temi del
rapporto tra fede e ragione, tra religioni diverse, tra Oriente ed Occidente.
Si tratta della "lectio magistralis" tenuta da Benedetto XVI, attuale Papa
Emerito, nell'Aula Magna dell'Università di Regensburg il 12 settembre 2006,
durante un viaggio apostolico in Germania. Il testo ha per titolo "Fede,
ragione e università. Ricordi e riflessioni", e può essere
reperito in forma integrale con le relative note sul sito Internet della Santa
Sede:
Questo testo era stato addirittura
definito come la “gaffe di Ratisbona”.
Probabilmente per il fatto che sebbene il discorso sia stato citato infinite
volte dai media, molto meno è stato letto nella sua completezza ed ancor meno è
stato compreso. E se è stato compreso, è stato spesso utilizzato in perfetta
malafede, come occasione di critica preconcetta nei confronti di un grande Pontefice
che, a differenza di altri che lo hanno preceduto e seguito, non ha mai goduto,
per fortuna vien da dire, di un grande appeal
mediatico. Non a caso, la parte del discorso che ha dato origine alle
“critiche” si trova poco dopo l’inizio, al terzo capoverso, e talvolta la
pigrizia mentale di alcuni opinionisti di professione (e la malafede di altri…)
spinge ad emettere sentenze senza minimamente approfondire la conoscenza di ciò
di cui si parla, come se si valutasse un quadro dopo aver dato un’occhiata
veloce alla sola cornice…
Non per nulla, in una nota al discorso
pubblicata nel sito della Santa Sede, è detto: “Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come
espressione della mia posizione personale, suscitando così una
comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire
immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di
fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di
una grande religione. Citando il testo dell'imperatore Manuele II intendevo
unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo
punto sono d'accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica”.
Ecco il testo della “lectio”:
Benedetto XVI a Ratisbona |
Eminenze,
Magnificenze, Eccellenze,
Illustri
Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi
ancora una volta nell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I
miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel
periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di
insegnante accademico all'università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo
della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non
esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto
molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si
incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli
storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà
teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto
dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti
agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile un’esperienza di
universitas – una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa
– l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni,
che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e
lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così
insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione –
questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera
anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi
sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa
parte del tutto dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano
condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano
i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne
disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi
aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si
occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno
scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio
per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione
della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione
indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando
recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del
dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i
quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su
cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l’imperatore
stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402,
questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in
modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il
dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella
Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo,
ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le – come si
diceva – tre Leggi o tre ordini di vita: Antico Testamento – Nuovo Testamento –
Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo
un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo – che,
nel contesto del tema fede e ragione, mi ha affascinato e che mi servirà come
punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις –
controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād,
della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si
legge: Nessuna costrizione nelle cose di fede. È una delle sure del periodo
iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e
minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni,
sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza
soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono
il Libro e gli increduli, egli, in modo sorprendentemente brusco che ci
stupisce, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale
sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: Mostrami pure ciò che
Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e
disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che
egli predicava. L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante,
spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante
la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di
Dio e la natura dell’anima. Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non
agire secondo ragione, “σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è
frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede
ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non
invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non
è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di
qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte….
L’affermazione decisiva in questa
argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo
ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta:
per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione
è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente
trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie,
fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera
del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge
fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e
che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo
dovrebbe praticare anche l’idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione
di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che
oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione
sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale
sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda
concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul
fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi,
il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo
del suo Vangelo con le parole: In principio era il λόγος. È questa proprio la
stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce “σὺν λόγω”, con logos. Logos
significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di
comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola
conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso
faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la
loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista.
L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice
caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia
e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: Passa in Macedonia e
aiutaci! (cfr. At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una
condensazione della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede
biblica e l’interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era
avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che
distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando
soltanto il suo Io sono, il suo essere, è, nei confronti del mito, una
contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di
vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto
raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio,
dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il
Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che
prolunga la parola del roveto: Io sono. Con questa nuova conoscenza di Dio va
di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella
derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr.
Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani
ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di
vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca
ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero
greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente
nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca
dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la Settanta –, è più di una
semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del
testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico
importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato
questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua
divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro
tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente
dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del
pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire con il
logos è contrario alla natura di Dio.
Per
onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono
sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco
e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo
agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la
quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi
di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe
la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche
il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle
posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e
potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato
neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono
accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso
del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità
abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue
decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre
attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore
e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui – come dice il
Concilio Lateranense IV nel 1215 –certo le dissomiglianze sono infinitamente
più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia
e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo
lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente
divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce
pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo,
"sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del
semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos,
per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, “λογικη λατρεία” – un
culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento
interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano
filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal
punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia
universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro,
non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche
suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta
storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo
incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha
creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare
Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco,
criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si
oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta
che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica.
Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della
deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro
motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.
La deellenizzazione emerge dapprima in
connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la
tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una
sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte
cioè ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di
pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente
parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema
filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della
fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica
appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la
fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione
di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito
in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori.
Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole
l’accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX
secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa
rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi,
come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era
fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era
utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di
Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di
affrontare questo argomento e non intendo riprendere qui tutto il discorso.
Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che
caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima.
Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e
al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e,
appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice
che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù
avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli
viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di
Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione
moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e
teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di
Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua
visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia,
per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente
scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire,
espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme
dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione,
espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo
però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo
concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra
platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato.
Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per
così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla
nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento
platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della
utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la
possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la
certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze,
stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente
positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti
fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza
derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di
scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo
criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia,
la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo
canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è
ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo
apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci
troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è
doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il
momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa
prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina
"scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento.
Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo,
allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli
interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del
"verso dove", gli interrogativi della religione e dell’ethos, non
possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla
"scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito
del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli
appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva
diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la
religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito
della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità:
lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione –
patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta
a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano
più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole
dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente
insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle
quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla
terza onda della deellenizzazione che si diffonde attualmente. In
considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi
che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata
una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste
dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva
quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento
ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è
semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo
Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il
contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo
precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo
formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le
culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della
fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte
della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo
tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo
interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare
indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna.
Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto
senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha
aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos
della scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore –
volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che
fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non
critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del
nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di
fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da
queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo
solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la
limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento,
e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la
teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia
vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il
suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un
vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un
così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che
soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano
universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in
questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle
loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e
respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi
nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze
naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato
di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità
metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale
della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture
razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo
percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve
essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare –
alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la
teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni
religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce
una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione
inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una
parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte
opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben
comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per
il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo
denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un
grande danno". L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa
avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così
potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della
ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una
teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa
del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario
alla natura di Dio" ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine
cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa
vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri
interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.
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