È stato detto che “nella cultura inglese influenzata dal buddhismo si riflettono le due
tendenze contrapposte dell’orientalismo occidentale: la strumentalizzazione di
tipo colonialistico, e di per sé mistificatoria, e il desiderio di conoscenza,
frutto di empatia e curiosità intellettuale”[1].
Un esempio di quest’ultimo tipo di atteggiamento verso il buddhismo lo si trova
nella figura di Sir Edwin Arnold.
Egli non è un autore di rilievo nella storia della letteratura inglese, anzi
non lo si può considerare un poeta “di professione”.
Nato nel 1832, dopo la laurea conseguita
ad Oxford e dopo aver insegnato a Birmingham si recò in India e lì diresse il
Sanskrit College di Poona. Nel 1861 tornò in Inghilterra e si dedicò al giornalismo,
divenendo la firma più importante del Daily
Telegraph, dove lavorò per 40 anni. Morì a Londra nel 1904. Fu traduttore
di diversi testi filosofici e letterari indiani, ma è noto soprattutto per un
suo poema pubblicato nel 1879, La Luce dell’Asia, ovvero La Grande Rinuncia,
un testo che ebbe all’epoca un grande successo in patria e negli Stati Uniti,
anche se oggi è conosciuto solo nella cerchia degli studiosi del buddhismo.
Sir Edwin Arnold |
Nell’opera, un poema in 8 libri, l’A. ha
cercato “di dipingere la vita ed il
carattere e d’indagare la filosofia di quel nobile eroe e riformatore che fu
Gautama, Principe d’India, il fondatore del Buddhismo”[2].
Suo intendimento è quello di presentare la
vita del Buddha e il suo insegnamento liberandoli dalle “corruzioni, [dalle] invenzioni e [dalle] false interpretazioni”[3]
che inquinano i testi buddhisti. Secondo Arnold “le stravaganze che sfigurano la memoria e la pratica del Buddhismo sono
da imputarsi a quella inevitabile degradazione che il clero spesso infligge
alle grandi idee affidate al suo ministerio. Il potere e la sublimità della
dottrina originale di Gautama devono essere considerati alla stregua della loro
influenza, e non da quello che ne dicono gli interpreti, non da quella
innocente, ma pigra, cerimoniosa Chiesa che è sorta sulle rovine delle
fondamenta della fratellanza buddhistica o Sangha”[4].
Per fare questo utilizza un piccolo
stratagemma letterario, ovvero fa parlare un devoto buddhista: “ho messo il mio poema in bocca a un
buddhista, perché per apprezzare lo spirito del pensiero asiatico esso deve
essere considerato dal punto di vista orientale”[5].
L’opera di Sir Arnold – della quale Gandhi
disse che una volta iniziata non aveva più potuto smettere di leggerla – si
inserisce a pieno titolo nell’atteggiamento, tipico degli intellettuali
dell’età vittoriana (1837-1901), di una “autentica
fascinazione per la figura del Buddha, che sottopongono a un trattamento
epicizzante, in conformità con un’idea della storia come biografia di
personalità illustri”[6],
in antitesi quindi “con l’immagine di
un’India incolta, moralmente degenerata, socialmente immobile e dunque
bisognosa della rinascita culturale promossa dall’impero britannico”[7].
Già nella
Prefazione l’A. sembra proporre l’idea che l’India non sia un paese privo di
cultura non tanto grazie alla sua tradizione millenaria, bensì solo per
l’influenza del buddhismo, sebbene questo fosse ormai sparito dal suo luogo
d’origine: “L’India per se stessa
potrebbe bene includersi nel magnifico impero di fede, perché sebbene non
faccia professione di Buddhismo nella sua terra d’origine, l’impronta dei
sublimi insegnamenti di Gautama è profonda nel moderno Brahmanesimo e le più
caratteristiche abitudini e considerazioni degli Hindù sono chiaramente dovute
alla benefica influenza dei precetti di Buddha”[8].
La forma del poema ricalca taluni elementi
tipici del Romanticismo: il protagonista, come espressamente affermato dall’A.,
è un eroe all’interno di un dramma. Ama la bellezza, non disdegna affatto i
piaceri della vita, ma è un inquieto, un essere insoddisfatto nonostante le (e
a causa delle) protezioni erette dal padre per impedire al giovane principe di
conoscere il mondo con le sue sofferenze.
A tale proposito si leggano questi passi
del poema di Arnold: “Ogni cosa [nella
campagna in primavera] parlava di pace e d'abbondanza e il principe ne godeva.
Ma, guardando profondamente, egli vide le spine che crescono sulle rose della
vita: vide l'abbronzato lavoratore sudare per la sua mercede e lottare
penosamente per amore alla vita, vide come patiscono i buoi, dai grandi occhi,
all'ardore del sole che ne brucia i fianchi vellutati. Osservò come la
lucertola si nutre della formica, il serpente di quella, per essere ambedue
divorati dall'avvoltoio. Vide il nibbio che ruba la preda all'airone, il cacciatore
che uccide gli usignuoli e questi che divorano le variopinte farfalle. Notò,
infine, come ognuno uccide un uccisore ed a sua volta viene ucciso, poiché la
vita vive della morte, e così il bello apparente cela una vasta, selvaggia,
crudele opera di cospirazione e di mutuo assassinio, dal verme fino all'uomo
che uccide i suoi simili. […]
È
questo, egli disse, con profondo angoscioso sospiro, è questo dunque il mondo
felice che mi si promette? Ahi! con quanto sudore è acquistato il pane del
contadino! Come è duro il servaggio dei buoi! Nei boschi quale guerra feroce
fra deboli e forti! Nell'aria quale battaglia furiosa! Nell'acqua stessa non
v'è pace! Lasciatemi solo per meditare su quanto mi avete mostrato”[9].
Il tema della rinascita poi, così come proposto da Arnold, “enfatizza il motivo del rovescio di fortuna profondamente radicato
nella sensibilità protestante”[10]
(si rammenti anche come Marco Polo, nel Milione,
avesse parlato dello stesso tema con un simile approccio: il legame tra storia
sociale della persona e rinascite).
D’altra parte, già verso la metà del 1800
la figura del Buddha era stata messa a confronto con quella di Lutero: il
buddhismo sarebbe stato per l’hinduismo ciò che il protestantesimo era stato
per il cattolicesimo; il Buddha come “riformatore” del brahmanesimo. Ma in
realtà tale raffronto è stato spesso criticato dagli studiosi, in quanto il
buddhismo aveva rivolto nei confronti della tradizione hinduista una critica
ben più radicale di quella luterana verso il cattolicesimo, ad esempio
rifiutando, e non solo da un punto di vista teorico, la fondamentale dottrina dell’atman. Ed è proprio su questo punto che
il poema di Arnold dimostra la sua maggiore debolezza: gli insegnamenti del
Buddha sul non-sé (l’an-atman, la
vacuità dei fenomeni, shunyata)
vengono lasciati nel vago, in quanto la nozione di un sé privo di esistenza
intrinseca sarebbe stata in netto contrasto con la tradizione cristiana
(cattolica e protestante) e occidentale in genere, nella quale l’individuo come
tale, l’ego, non è messo in
discussione nella sua sostanzialità, né dal punto di vista filosofico o
teologico, né da quello politico ed economico, dove è anzi sempre più centrale
con l’affermarsi della figura del produttore-consumatore di merci (che proprio
in quel secolo trova la sua origine).
In definitiva, con Arnold si assiste
nuovamente – anche se in forme completamente diverse –ad una cristianizzazione del Buddha, come già
avvenuto col romando di Barlaam e Joasaf. La sua lettura del buddhismo è
essenzialmente di carattere etico, l’insegnamento del Buddha si riduce ad una
critica dell’egocentrismo umano, dei comportamenti egoistici; una critica “che non tocca la dimensione filosofica e
metafisica”[11],
che non arriva cioè al cuore dell’approccio buddhista al problema della
sofferenza, della sue vere cause e della liberazione da essa.
Nel poema, il Buddha diviene così “un ideale gentlemen vittoriano
caratterizzato da integrità [e] comprensione umana”[12].
La conferma di quanto detto si trova nel
libro VIII del poema, dedicato ad una necessariamente sintetica esposizione
dell’insegnamento buddhista. Dopo aver esortato gli ascoltatori allo studio
della dottrina del karma, il Buddha afferma: “Non
dite ‘io sono’, ‘io ero’, ‘io sarò’. Non crediate di passare di dimora in
dimora corporea, come viandante che ricorda o dimentica se fu bene o male
alloggiato. Il compendio, l’essenza della recente ultima vita ritorna
nuovamente nell’Universo, nel Tutto. Si forma di nuovo la sua abitazione, come
il baco da seta, e vi dimora”[13].
Ma nessuno spazio viene poi dato al tema della non-sostanzialità dell’io, e il
discorso prosegue sulla scia di una esposizione del karma da un punto di vista esclusivamente moralistico, fondato sul
binomio – di impronta cristiana – di colpa e merito.
Lo stesso accade poco oltre,
nell’esposizione della seconda Nobile Verità: “Vedete un Io falso, nel centro, e conformate ad esso il mondo”[14],
ma il discorso si ferma ancora qui, senza dire altro su quella falsa visione
dell’io.
Ugualmente, l’ignoranza, che è fondamentalmente ignoranza della vera natura dei
fenomeni, acquista una valenza quasi esclusivamente etica, perdendo il suo
senso metafisico: “Che cosa vi trattiene,
o fratelli [dal
seguire la legge dell’amore]? Le tenebre che
nascono dall’ignoranza. Guidati da esse, voi prendete per vero l’inganno:
anelate al possesso, e ottenendo, vi aggrappate al piacere che poi genera
dolore”[15].
Infine, ancora dal punto di vista della
forma letteraria, è interessante la lettura, che qui si propone per intero, di
un passo del libro V, nel quale sono descritte nel dettaglio le pratiche
ascetiche di taluni yogi indiani, con
i quali Siddhartha inizia a praticare dopo aver abbandonato il Palazzo.
È particolarmente interessante il fatto
che vengono qui ripresi i temi e i toni della letteratura gotica (Frankenstein di Mary Shelley del 1818, Il vampiro di John William Polidori del
1819, e poi Edgar Allan Poe e Louis Stevenson, fino a Conan Doyle):
“Nel
mezzo del tranquillo boschetto di Ratnagiri, al di là della città giù nelle
caverne, dimoravano quelli che ritenevano il corpo qual nemico dell'anima, la
carne quale bestia pericolosa che si deve tenere in ceppi e domare col dolore,
finché sia annientato il senso del soffrire, fin quando i nervi fiaccati non
risentano più le torture!
Jogis
e Brahmacharie, Bhikshus erano i capi di una sparuta e lugubre genia di eremiti
penitenti. Taluni restavano con le braccia levate in alto finché, prive di
sangue e consunte, le articolazioni si disfacevano e quelle braccia
scheletrite sporgevano dalle spalle magre come un morto ramo biforcuto da un
tronco della foresta. Altri tenevano serrate strettamente le mani, con tanta
forza e così lungamente che le unghie crescevano come chiodi attraversando le
palme delle mani marcite. Ve n'erano di quelli che camminavano coi sandali
riempiti di spine. Taluni, con ciottoli acuminati, si pestavano e tagliuzzavano
fronte e petto e anche, e poi bruciavano al fuoco le ferite, bucavano con spine
le loro carni, o con un ferro a punta s'imbrattavano con fango e cenere, e
avviluppando le loro ossa in stomachevoli cenci di cadaveri, strisciavano al
suolo. Se ne vedevano altri fermarsi dove fumavano i roghi e poi
s'accoccolavano nel fango, presso cadaveri circondati da avvoltoi che
stridevano intorno per divorarli. Altri invocavano cinquecento volte al giorno
il nome di Shiva, avviticchiandosi al collo bruciato dal sole e ai magri lombi
nidiate di vipere velenose e sibilanti. E negli spasmi convulsi essi torcevano
il piede e lo stiravano in su fino alle cosce.
Cosi
erano riuniti in lugubre compagnia! Dall'ardore del sole il loro cranio era
ricoperto di bolle, la vista indebolita, i tendini e i muscoli raggrinziti, i
visi cerei scarni e deformati, come di uomini morti da cinque giorni. Qui
strisciava a fatica nella polvere uno che, da mezzodì a mezzodì, contava mille
granelli di miglio e mangiava granello a granello, con pazienza da morirne di
fame, e così s'adusava alla morte. Ve n'erano anche di quelli che mescolavano
foglie amare nel cibo, per tormentare il palato. Vedevasi perfino un santo che
si era mutilato, gemebondo, cieco, muto e privo di sesso. Lo spirito, essi
pensavano, distruggeva la carne per gloriarsi di tanto martirio e della
felicità che si deve conquistare, secondo i libri santi, con tormenti da fare
onta agli stessi Dei che ci fanno soffrire. Felicità che rende gli uomini pari
agli Dei perché li fa più forti nel dolore che non sia l'inferno nel martoriare”[16].
[1] G. Orofino e F.
Sferra (a cura di), Introduzione a Ponti magici. Buddhismo e letteratura
occidentale, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 2009, pag.
12. L’opera è consultabile e scaricabile gratuitamente qui:
http://www.unior.it/userfiles/workarea_233/Ponti%20Magici%281%29.pdf
[2] E. Arnold, Prefazione
a Buddha.
La Luce dell’Asia, Giulio Perrone Editore, pag. 7
[3] Ibid.
[4] Id. pag 9
[5] Ibid.
[6] E. Spandri, The
Light of Britain. Orientalismo e illuminazione nella letteratura britannica,
1769-2004, in Orofino – Sferra, Ponti magici, cit., pag. 41
[7] Ibid.
[8] Arnold, Prefazione,
cit., pag. 7
[9] Arnold, Buddha.
La Luce dell’Asia, cit., pag. 20-21
[10] Spandri, The
Light of Britain, cit., pag. 43
[11] Id., pag. 44
[12] Id., pag. 44-45
[13] Arnold, Buddha.
La Luce dell’Asia, cit. pag. 135
[14] Id., pag. 137
[15] Id., pag. 136
[16] Id., pag. 75-76
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