Nel 1891 la Revue de
l’histoire des religions (Paris, Ernest Leroux éditeur, tome XXIII)
pubblicò un articolo di Sylvain Lévi
(1863-1935), importante storico delle religioni, orientalista e filologo,
docente al Collège de France e all’Ecole pratique des hautes études.
Oggetto dello studio è il rapporto storico tra il buddhismo
e il mondo greco. Il testo, nonostante sia probabilmente superato in alcune
parti, è di grande interesse per il praticante o il semplice “curioso”
occidentale.
La traduzione dal francese è opera dello scrivente, che è
pertanto responsabile di ogni inesattezza ed errore. Per non appesantire il
post, sono state omesse le note dell’A., che sono comunque reperibili, insieme
con l’articolo originale, sul sito Internet:
Il
Buddhismo e i Greci - di
Sylvain Lévi
Sylvain Lévi |
Malgrado le ininterrotte relazioni del
mondo ellenico con l’India a partire dalla spedizione di Alessandro fino agli
ultimi tempi dell’impero romano, la letteratura greca ha quasi ignorato
l’esistenza del buddhismo o quantomeno l’ha conosciuto ben poco. La definizione
dei Sarmanes in Megastene e negli
scrittori che lo copiano è talmente vaga ed incolore che presso gli indianisti
ha provocato interpretazioni del tutto contraddittorie. Von Bohien e Schwanbeck
riconoscono in essi i monaci buddhisti designati in sanscrito con il nome di shramana; Childers conferma la loro
opinione a causa del valore strettamente buddhista della parola samano in lingua pāli; Cunningham la corrobora con argomentazioni tratte da una
fonetica inverosimile. Colebrooke, Lassen e Beal sono invece d’accordo nel
respingere tale metodo e considerano i sarmanes
come dei brahmani ortodossi. I samanaioi
menzionati da Alessandro Poliistore (80-60 a.C.) come preti della Battriana
sono incontestabilmente monaci buddhisti; il loro nome, derivato dalla forma
volgare di samana, si ritrova nella
stessa regione nel corso dei secoli successivi, leggermente alterato in shaman. Clemente Alessandrino alla fine
del II secolo e Cirillo nella seconda metà del IV copiano con servile fedeltà
le informazioni di Alessandro Poliistore. Bardesane intorno alla metà del II
secolo aggiunge alle scarne informazioni dei suoi predecessori alcuni precisi
dettagli sperduti in un buon numero di fantasie. Origene nel II secolo e san
Girolamo alla fine del IV distinguono, in base alla testimonianza di Bardesane,
i brahmani e i samanaioi senza
peraltro conoscere le differenze fondamentali tra le loro dottrine. Il nome di
Buddha compare per la prima volta in Clemente Alessandrino: “Ci sono degli Indiani – scrive – che credono agli insegnamenti di Butta; e lo
adorano come un dio a causa della sua straordinaria maestà”. Due secoli dopo San Girolamo ricorda la sua
nascita meravigliosa: “La costante
tradizione dei Gimnosofisti pretende che Budda, il capo della loro religione,
sia uscito dal fianco di una vergine”. Consacrato dai Padri della Chiesa,
il nome immortale del riformatore indiano penetra perfino nelle nebbie del Medio
Evo. Un contemporaneo di Ludovico il Pio, Ratramno, contrappone alla natività
di Cristo le favole “dei bragmani sulla
nascita di Budda, fondatore della loro setta”.
Si spegne allora in Occidente l’ultima eco
dell’incomparabile rivoluzione religiosa che le rive del Gange avevano generato
tredici secoli prima. Mentre il buddhismo diffondeva i suoi insegnamenti di
dolcezza e di amore in India, in Iran e in Asia centrale, in Tibet, in Cina, in
Giappone, nella penisola indocinese e nell’arcipelago indiano, il mondo greco,
a giudicare dalla sua letteratura, rimaneva ostinatamente chiuso ai ferventi
missionari della Buona Legge; mentre milioni di voci umane invocavano ogni
giorno, in Oriente, l’inesauribile bontà e la misericordia infinita del Buddha,
l’Occidente sentiva appena proclamare tre volte il suo nome nell’arco di mille
anni. Una inspiegabile fatalità chiudeva la metà del mondo alla benefica
dottrina che senza l’aiuto delle armi convertiva le più diverse razze, le
nazioni civilizzate e le tribù barbare. Le testimonianze dell’India così spesso
e così ingiustamente disdegnate dissolvono l’illusione, rovesciano un
pregiudizio fondato sui documenti di origine greco-romana e vi sostituiscono
una visione più corretta e più verosimile.
L’attiva propaganda del buddhismo scalfisce
il mondo greco a partire dalla sua prima espansione ufficiale. Quando il nipote
di quel re Candragupta che aveva assistito alle vittorie di Alessandro adottò
gli insegnamenti del Tathagata, il
suo zelo religioso, unito alle sue ambizioni politiche, lo impegnò a diffondere
e a proteggere la buona religione anche al di fuori dei suoi confini. Il
tredicesimo editto di Piyadasi, inciso intorno al 258 a.C., proclamò le sue
conquiste religiose. “è in queste conquiste della religione
che il re caro ai Deva trova il suo piacere, sia nel suo impero sia su tutte le
sue frontiere, per una estensione di molte centinaia di yojana. Tra questi
vicini vi sono Amtiyoko re degli Yavana, e a nord di Amtiyoko quattro re:
Turamaya, Amtikini, Maka, Alikasudara… presso gli Yavana e i Kāmboja… ovunque
ci si conforma alle prescrizioni religiose del re caro ai Deva. Laddove sono
stati inviati i messi del re caro ai Deva, anche là, dopo aver ascoltato, da
parte del re caro ai Deva, i doveri della religione, ci si conforma ora e ci si
conformerà alle prescrizioni religiose, alla religione… è in questo modo che la conquista si è estesa in ogni luogo”. Il nome degli Yavana citato due volte in questa iscrizione indica esplicitamente
i popoli ellenici; i re menzionati sono stati riconosciuti senza difficoltà già
dalle prime decifrazioni. Piyadasi si vanta di aver portato le conquiste della
religione presso Antioco re di Siria, Tolomeo re dell’Egitto, Antigone re di
Macedonia, Magas di Cirene e Alessandro d’Epiro. Alessandro d’Epiro, di cui
Ashoka incideva il nome sulle pietre dell’India, era il figlio di quel Pirro
che per primo mostrò ai Romani la sapiente tattica della Grecia e i temibili
elefanti dell’Oriente. Quindi, volendo credere ad Ashoka, il buddhismo avrebbe
toccato fin dal suo primo sviluppo l’estremo limite del mondo ellenico. Ma
l’epigrafia ha una sua ottica particolare e bisogna stare attenti a non farsene
ingannare. Le relazioni del re Maurya con la Siria sono confermate dalla
storia; la dinastia dei Tolomei intratteneva anche con l’India dei rapporti
diplomatici. Filadelfo, contemporaneo di Piyadasi, aveva inviato al suo
predecessore un ambasciatore chiamato Dionisio; forse gli altri nomi presi a
prestito dai protocolli di cancelleria si sono aggiunti ai primi; forsanche nel
suo fervore un po’ ingenuo Piyadasi aveva inviato verso quelle lontane regioni
dei missionari che probabilmente non raggiunsero mai la loro meta. Il numero
dei missionari mandati all’estero doveva essere considerevole: l’editto di
Sahasarām menziona “duecentocinquantasei
partenze di missionari”. Il quinto editto che stabilisce le attribuzioni
dei funzionari chiamati Sorveglianti
della religione mette i Greci ai posti di loro competenza: “Essi si occupano degli aderenti di tutte le
sette, in vista dell’instaurazione della religione, del progresso della religione,
delle necessità e della felicità dei fedeli della religione; essi si occupano
presso gli Yavana, i Kamboja, i Gandhāra… e gli altri popoli di frontiera, dei
guerrieri, dei brahmani, e dei ricchi, dei poveri, dei vecchi, in vista dei
loro bisogni e della loro felicità, per togliere tutti gli ostacoli davanti ai
fedeli della religione; essi si occupano di dare conforto a chi è in catene, di
eliminare per lui gli ostacoli, di liberarlo perché ha famiglia, perché è stato
vittima di qualche astuzia, perché è anziano”. Antioco e i Greci sono nuovamente
nominati nel secondo editto: “Ovunque,
nel territorio del re Piyadasi caro ai Deva ed anche dei popoli che sono alle
sue frontiere… nel territorio di Amtiyoko re degli Yavana ed anche dei re che
lo hanno come vicino, ovunque il re Piyadasi caro ai Deva ha diffuso due tipi
di rimedi, rimedi per gli uomini, rimedi per gli animali”. La compassione
attiva di Ashoka estendeva così in diverse maniere la sua azione nei paesi
greci; vi inviava dei missionari incaricati di diffondere la Buona Parola; vi
insediava dei consoli per difendere gli interessi e la libertà dei fedeli
contro l’invidia e la persecuzione; vi fondava opere di carità, ospizi,
ricoveri, insegnava al di fuori dell’India attraverso il suo stesso esempio il
rispetto per la vita e la compassione verso tutti gli esseri. La cronaca
cingalese, attraverso l’autorità di una antica tradizione, conferma la
testimonianza positiva dell’epigrafia. Il Mahāvamso,
il Dīpavamso e il Sutta-vibhanga di Buddhaghosa riportano
quasi con le stesse parole la conversione degli Yavana sotto i re Devanampiyotisso e Dhammāsoko. “In quel tempo il thero Moggaliputto… rifletté
sul futuro. Vide che era arrivato il momento di insediare la religione nei
paesi vicini, e nel mese kattiko [novembre] inviò il thero Majjhantiko in Kashmir e nel Gandhāra… e il thero Mahārakkhito
nel mondo Yavana… Il santo Mahārakkhito recandosi nel dominio degli Yavana
predicò in mezzo alla folla il sutta Kālakārāma. Centosettantamila (o
centotrentasettemila) persone si convertirono; diecimila entrarono negli ordini”.
Il paese Yavana, che aveva appena
conosciuto la nuova religione, gli diede già degli apostoli. Tra i missionari
scelti da Moggaliputto si trovava un uomo del paese greco. “Egli inviò il thero Yavana Dhammarakkhito
nel paese di Aparantaka (contrade dell’estremo Occidente)… Il thero Yavana
Dhammarakkhito, essendosi recato nel paese di Aparantaka, predicò in mezzo alla
gente il sutta Aggikhandopama; là dispensò il nettare della legge a settantamila
anime. Un migliaio di uomini, un numero ancora più grande di donne, nati in famiglie
ksatriya, entrarono allora negli ordini”.
Dopo la morte di Ashoka inizia la
decadenza della dinastia Maurya. Lungo i confini del reame di Siria e
dell’India si erge uno stato indipendente che in un primo tempo copre la
Battriana, si estende nella valle di Kabul, invade l’India, porta le sue armi
vittoriose fino alle foci della Narmadā verso Sud, e verso Est fino alla
capitale dei Maurya, Pātaliputra (Patna). Talvolta spezzettato, talvolta
riunito da una mano potente, rimane per due secoli sottomesso a dinastie
elleniche. I principi greco-battriani e i principi indo-greci continuano senza
interruzione a portare nomi puramente greci; incidono sulle loro monete
caratteri greci, motivi greci, divinità greche; anche quando giustappongono la
lingua greca e la lingua locale, mantengono intatta con orgoglio la purezza del
loro nome: Lysias, Apollodotos, Nicias, Demetrios si accompagnano bene o male
al titolo di maharaja. Zeus, Pallade,
Poseidon, Apollo, Heracle testimoniano sulle monete la fedeltà di questi figli
perduti ai culti della patria.
Tuttavia alcuni indizi tradiscono più di
una concessione alla religione locale. Uno dei primi e forse dei più potenti
eredi di Diodoto, Agatocle Dikaios (il Giusto), che conia delle stupende monete
con l’effigie di Alessandro Magno e dei suoi immediati predecessori, che
sceglie come simbolo personale uno Zeus in piedi, appoggiato su uno scettro e
con una Ecate nella mano, ha lasciato in aggiunta uno strano pezzo, che si
distacca nettamente per tutte le sue caratteristiche dal resto della sua
monetazione. Ne esistono diversi esemplari, a Londra, a Oxford e nella
collezione Cunningham. Il pezzo è in bronzo; non è quadrato o rotondo come
tutte le altre monete della serie indo-greca, bensì triangolare, con un lato
leggermente arrotondato, e forma una specie di quarto di cerchio mal disegnato;
secondo Sallet, la cui competenza è fuori discussione, è direttamente tagliata
dal lingotto. La stranezza della forma corrisponde alla stranezza
dell’iscrizione e delle immagini. Unica, reca una legenda in caratteri
indo-ariani, mentre le altre presentato solo legende greche, oppure, se vi
associano la lingua indigena, quantomeno la scrivono in caratteri indiani. Sul
diritto è inciso uno stūpa buddhista,
formato da tre piani di piramide con gli angoli smussati; sulla cima della
costruzione brilla una stella; sul rovescio un albero circondato da una
recinzione di tavole incrociate, conforme alla tradizionale rappresentazione
del bodhi-druma, l’albero ai piedi
del quale il Buddha vide la verità suprema.
Ai piedi dello stūpa, il nome: Akathukreyasa,
genitivo indiano del nome di Agatocle appena modificato dalla trascrizione;
sotto l’albero del bodhi si leggono
queste lettere: hidujasame.
L’utilizzo del nome regale senza
l’accompagnamento di un titolo enfatico è contrario alle costanti usanze della
monetazione indo-greca; lo stesso Agatocle si denomina in qualsiasi altro caso:
basileuon, basileus e raja. Anche
von Sallet, con l’istinto del numismatico e senza consultare la linguistica,
traduceva coraggiosamente hidujasame
con Re degli Indiani. L’analisi è
impotente, bisogna ammetterlo, nel riconoscere nella parola gli elementi di
tale interpretazione. M. Bendall, nel catalogo di Percy Gardner, spiega hidujasame più o meno come un equivalente del greco dikaios: “Just to those born on the Indus”, giusto per coloro che sono nati
sull’Indo; e aggiunge in nota: same è
il sanscrito samah (nominativo).
Senza discutere la possibilità del nominativo in -e, ci accontenteremo di osservare la stranezza di una sintassi che
costruisce un epiteto al nominativo con un nome al genitivo. Noi pensiamo che
un’altra divisione delle lettere ci dia una spiegazione più corretta e più
accettabile. Separiamo hidujasa e me, che sono entrambi genitivi come Akathukreyasa e traduciamo: Di me, Agatocle, Indiano per nascita. Le
iscrizioni degli Achemenidi da una parte, quelle di Piyadasi dall’altra, ci
hanno familiarizzato che questo frasario di cancelleria che fa parlare direttamente
il sovrano. In epigrafia il genitivo richiama l’idea di donazione. Proponiamo
quindi di interpretare questo pezzo come una sorta di medaglia commemorativa.
Agatocle, sia per convinzione, sia per politica, avrebbe innalzato uno stupa e
avrebbe rivendicato in tale occasione il suo essere Indiano, il che poteva
renderlo popolare tra i suoi sudditi. Quale che sia d’altronde il valore della
nostra opinione, la caratteristica buddhista del pezzo non è tuttavia al riparo
da ogni contestazione.
Circa cinquant’anni dopo Agatocle, il
simbolismo buddhista appare su una moneta del re Menandro. Menandro Soter, māharaja trādata, regna nel Punjab e conia soltanto monete bilingui. Pallade
è la sua divinità preferita; talvolta la sostituisce con una testa di bufalo
oppure di elefante, un leone, un treppiede, una palma; ciò non toglie che Atena
resti senza rivali. Ma una moneta quadrata in bronzo reca un simbolo che la
Grecia non saprebbe spiegare. La legenda: basileos
soteros Menandrou, in lettere greche, incornicia una ruota con otto raggi;
il retro riporta una clava con la legenda: māhārajasa
trādatasa Menadrasa. La ruota è uno dei simboli preferiti del buddhismo, in
quanto è il Buddha che ha fatto girare la ruota della legge; la si ritrova su
tutti i monumenti, a Barhut, a Sanchi, a Buddha Gayā ecc. La casualità della
classificazione ha affiancato a questa moneta, nel catalogo di Percy Gardner,
un’altra che sembra completarne le indicazioni: Menandro dimentica qui il suo
costante titolo di Soter, in indiano trādata, a favore dell’epiteto dikaiou, in indiano dhramikasa. La parola greca sembra essere qui la traduzione più
letterale che esatta del termine indiano; dhramika,
variante di dharmika, indica presso i
Buddhisti un fedele della Buona Legge, Sad-Dharma,
un ortodosso.
D’altra parte il buddhismo del re Menandro
non è soltanto una congettura; è attestato e celebrato dalla tradizione
buddhista. Un’opera del canone pāli,
il cui originale presso i buddhisti del Nord è andato perduto, ha per oggetto:
le domande di Menandro, Milinda-panho.
Il re degli Yavana, Milinda, che regna a Sagala (presso Lahore), ama passare il
suo tempo, degno erede in questo dei dialettici e dei sofisti, in dispute
religiose. Sconfigge uno dopo l’altro i più famosi maestri, ma un giorno il
santo Nāgasena giunge nella capitale, spiega al re la metafisica del buddhismo,
dissipa i suoi dubbi, distrugge le sue obiezioni e Milinda, conquistato, si
converte di buon grado. La Grecia stessa aveva percepito come una debole eco la
gloriosa santità del re Menandro. Plutarco racconta che dopo la morte di questo
sovrano le città si contesero il possesso del suo corpo, se ne divisero
piamente le reliquie e le adorarono.
Moneta di Kaniska |
Agatocle e Menandro confermano la loro
fede per mezzo di simboli; la loro ortodossia sembra rifiutare di trasportare
nel buddhismo il gusto antropomorfico dei culti greci. È sulle monete degli
Indo-sciti, inaspettati eredi della dominazione e della cultura greca, che si
vede apparire per la prima volta l’immagine del Buddha. Se certo non è un
artista greco che l’ha incisa, è per lo meno l’arte greca che la ispira. Su una
delle monete di Kaniska, che sembra fondere in un eclettismo spensierato tutti
i culti, tutti i dogmi e tutti gli dei, è rappresentato un personaggio in
piedi, visto di fronte, con l’aureola, vestito con il chitone e l’himation, con la mano destra in avanti;
la legenda scritta in caratteri greci alla sua destra riporta: Boddo. La convenzione non ha ancora
fissato i tratti e l’atteggiamento di Shakyamuni; la figura non ha alcun
rapporto con la tipologia classica. Un’altra moneta di Kanuka mostra invece
quella tipologia. Il Buddha è seduto, visto di fronte, con le gambe incrociate,
una mano posata sulle ginocchia, l’altra sollevata in alto; la legenda
incompleta riporta: ...go Boudo.
I re greci non erano i soli ad abbracciare
la nuova religione dell’India; singoli individui, abitanti in colonie
disseminate sulla costa dalla foce dell’Indo al delta del Gange, la adottavano
e la osservavano con lo stesso fervore. I meravigliosi templi ipogei di Karli,
di Kanheri, di Junnar, di Nāsik, nei dintorni di Bombay, provano tuttora con le
loro iscrizioni la compassione abile o sincera dei Greci insediati nella
regione. Un Greco, Irila, aveva fatto scavare a sue spese due cisterne ad uso
dei religiosi a Junnar; un altro, Cita, aveva fatto costruire un refettorio per
la comunità. A Nāsik il Greco Idāgidata, figlio di Dhammadeva, nativo del
territorio del nord, abitante a Damtāmiti, fa scavare una cripta nel monte
Tiramnhu e fa innalzare all’interno un reliquiario (caitya-gŗha); inoltre fa scavare tre cisterne in onore di suo padre
e di sua madre; insieme con suo figlio Dhammarakhito offre alla comunità una
cripta, scavata in onore di tutti i Buddha. A Karli un Greco, Dheṇukākaṭā,
Greco secondo la legge, dona al tempio una colonna con un capitello adorno di
leoni. Lo stesso nome lo si ritrova a Kanheri associato al ricordo di altri
atti di generosità.
Le predicazioni dei missionari
continuavano tuttavia a diffondere il buddhismo al di fuori dell’India. Sotto
il regno di Dutthagamani, re di Ceylon verso la metà del II secolo a.C.,
l’inaugurazione del Grande stūpa (Mahāthupo) attirò i monaci da ogni
paese; ne arrivarono da Benares guidati dal thero
Dhammaseno, da Shravasti guidati dal thero
Piyadassi, e da Vaishali, da Kaushāmbi, da Pātaliputra e dal Kashmir; e dal
paese dei Pallava (Pahlavas, Parti) giunse il grande saggio Mahādevo con
quattrocentosessantamila monaci; e da Alasando, la città degli Yona (Greci) il thero Yona (Greco) Mahādhammarakkhito
portò trentamila bhikkhu. Alasando è
senza alcun dubbio Alessandria, sia che si tratti di Alessandria del Caucaso,
oppure di Alessandria d’Egitto; l’astronomia indiana riserva esclusivamente a
quest’ultima città il titolo di: città degli Yavana, e il Milinda-panho la cita tra i grandi porti commerciali.
Il re Menandro - Milinda |
Una curiosa storia mostra la Grecia stessa
affiancata all’India nella sua opera di proselitismo. Lo storico armeno Zenob
di Klag racconta che all’epoca del re Valarsace due indiani, chiamati Gisané e
Démètr, arrivarono da lui per chiedergli asilo; essi erano scappati davanti
alla collera del loro sovrano Tinaskeh. Valarsace assegnò loro in usufrutto il
paese di Daron, dove fondarono la città di Vishap. Poco tempo dopo si recarono
nelle vicina città di Achtichtat e vi innalzarono degli idoli adorati in India.
I loro figli innalzarono sul monte Karké due idoli in rame, uno alto dodici
cubiti, l’altro quindici. La colonia indiana si sviluppò in modo straordinario
e restò fedele alle sue divinità; secondo la testimonianza di Zenob il
cristianesimo conquistatore nel IV secolo dovette impegnarli in dure battaglie
per vincere la loro resistenza. Da lungo tempo Lassen ha riconosciuto in Gisané
una trascrizione volgare di Krsņa (in pracrito kaņho, kasiņo), ma,
fuorviato da un pregiudizio ingiustificato, voleva contro ogni evidenza
riportare Démètr ad un termine sanscrito. L’accostamento di un nome greco e di
un nome indiano in un’attività di propaganda in quell’epoca è conforme alla
verosimiglianza e conferisce inoltre autorità al racconto di Zenob.
La pace romana, sviluppando il commercio e
facilitando i viaggi, avvicinò ancora l’India e le sue credenze all’Occidente.
Poco tempo prima della nascita di Cristo, Atene assistette allo strano
spettacolo di un sarmana che, sazio
delle gioie dell’esistenza, nudo e cosparso di profumi salì su una pira come un
tempo aveva fatto Kalanos davanti all’armata di Alessandro. Le sue ceneri
vennero deposte sotto un monumento che rimase famoso per molto tempo; il
popolo, all’epoca di Plutarco, lo chiamava ancora comunemente: la tomba
dell’Indiano. Esso recava un’iscrizione che Strabone e Plutarco lessero e
copiarono entrambi: Ζαρμανοκηγας Ινδος απο Βαργοδης κατα πατρια Ινδων εθη
εαντον απαθανιδας κειται; Zarmanochegas, Indiano di Bargose, avendo messo fine
alla sua vita secondo gli usi della sua patria, giace qui. Lassen, che segue
Wilson, spiega la parola zarmanochegas
con çramanācārya, che difficilmente
vi si ricollega. Forse la seconda parte della parola deve essere intesa come çākyo, e il nome va tradotto: monaco di çākya,
monaco buddhista. Zarmanochegas faceva parte di una ambasciata più o meno
autentica inviata ad Augusto da un principe indiano. È proprio da ambasciatori
indiani inviati presso uno degli Antonini che Bardesane ricevette delle nuove
informazioni sui buddhisti nel corso del II secolo.
Anche i grandi mandatari di Alessandria
dovettero ricevere più di una volta la visita di monaci avventurosi, spinti
fuori dalla loro patria dalla curiosità e dalla vocazione per la predicazione.
Dione Crisostomo segnala la presenza, in Alessandria, di Battriani, Sciti,
Persiani e anche di Indiani. Verso la fine del V secolo, quando il commercio di
Alessandria con l’India era ormai da tempo entrato in crisi, un Romano che era
stato console di Roma (nel 470) e che in seguito si era stabilito ad
Alessandria, Severo, offriva ospitalità nella sua ricca casa a del brahmani che
trattava con onore e che vivevano presso di lui secondo le proprie regole. Non
mancava loro nulla per seguire le loro regole, ma evitavano con cura tutto ciò
che era ad esse contrario. Se si pensa alle severe leggi che proibivano al
brahmano ortodosso di lasciare il territorio dell’India sotto pena di
decadenza, non si può dubitare che gli ospiti di Severo fossero dei buddhisti.
Si spiega così, con una lenta
infiltrazione attraverso il mondo occidentale, la forza improvvisa della
corrente buddhista che si manifesta nei primi secoli del cristianesimo. Le
sorprendenti somiglianze tra il cristianesimo e il buddhismo sono state
segnalate da molto tempo; l’analogia delle situazioni e delle idee non basta a
spiegarle tutte; ce ne sono certe che esigono l’ipotesi di una influenza diretta.
L’eresia dei Manichei è completamente impregnata di buddhismo; essa si sostiene
con le sue radici su un terreno buddhista. Il maestro di Mani, Terebinto,
assume il soprannome di Budda e
asserisce di essere nato da una vergine; il maestro di Terebinto è Scitiano, il
cui nome sembra una traduzione greca dell’indiano çākya (çāka
= Scita); uno dei discepoli di Mani si chiama ugualmente Budda; infine la
formula di abiura imposta ai Manichei dal cristianesimo maledice e aborre Zarade [Zoroastro], Bodda e Scitiano. La
leggenda del Buddha finisce addirittura con il prender posto tra le vite dei
santi (Barlaam e Josafat). La diffusione del buddhismo avveniva all’estero al
tempo stesso attraverso le opere pie che ispiravano rispetto e simpatia, con le
predicazioni dei missionari che non arretravano di fronte ai viaggi più
pericolosi, e infine con l’azione dei cittadini ellenici stabilitisi in India e
che dopo la conversione ritornavano nel loro paese d’origine.
Ma come spiegare il silenzio o l’ignoranza
della letteratura, se il buddhismo è realmente penetrato tra le popolazioni
elleniche? L’attitudine mentale generale del periodo greco-romano è essa sola
responsabile di questa stranezza. Carichi delle conoscenze che i secoli
precedenti avevano accumulato, oberati dalle produzioni dei loro predecessori,
i letterati si dedicano a compilare piuttosto che a scoprire, a copiare invece
di osservare. I sapienti compagni di Alessandro in India avevano raccolto una
enorme scorta di annotazioni sul paese, il popolo, i costumi, la fauna e la
flora che occupò tutto il resto dell’antichità. La conoscenza dell’India si
fermò quasi subito dopo la sua scoperta; sei secoli di relazioni costanti
aggiungono solo dei nomi e dei dettagli secondari alle informazioni di
Aristobulo, di Nearco, di Tolomeo e di Megastene. Se la spedizione di
Alessandro aveva trovato in India il buddhismo florido, le generazioni
successive avrebbero forse aperto gli occhi sul suo sviluppo; ignorato fin dal principio,
restò per così dire eternamente estraneo alla letteratura. Inoltre la
propaganda buddhista si indirizzava senza dubbio alle classi inferiori
dell’ellenismo, rivolte verso l’Oriente a causa della loro disposizione e dei
loro gusti e travagliate da aspirazioni messianiche che solo il cristianesimo
poté soddisfare. Isolate dalle profonde trasformazioni della società ellenica,
disprezzate e messe in disparte, non trovavano tra i letterati degli interpreti
o degli osservatori ben disposti. Il buddhismo, così poco favorevole alla
letteratura in India, non era capace di provocare all’esterno un rinnovamento
letterario; i missionari e i catecumeni sarebbero stati molto imbarazzati, per
le manchevolezze nella loro predisposizione o nella loro educazione, nel dare
un’espressione letteraria alle loro credenze e alle loro leggende. D’altra
parte i principi metafisici del buddhismo non erano di natura tale da
ostacolare il proselitismo; le masse che offrono alle religioni la loro forza e
il loro punto d’appoggio più solido non si interessano molto ai problemi di
alta filosofia; i Tartari e i Calmucchi adottando il buddhismo non ne hanno
affatto criticato scrupolosamente i principi fondamentali. Il buddhismo portava
all’oriente come all’occidente la commovente leggenda del suo fondatore, i suoi
racconti edificanti semplici e toccanti e le sue massime universali d’amore e
di carità. Era abbastanza per conquistare anche le anime greche. Se pure non
arrivò affatto a trionfare, se scomparve dalla scena senza lasciarvi alcun
ricordo, la politica e la geografia sono le sole responsabili del suo
insuccesso. La frontiera terrestre era chiusa ad occidente dall’impero dei
Parti, così spesso agitato dalle guerre e dalle discordie, ostile nei confronti
dell’India e delle sue credenze. La via del mare era lunga e pericolosa; le
navi compivano tra l’Egitto e l’India un solo viaggio all’anno. Nel momento in
cui la scoperta di Hippalos aprì tra i due paesi delle relazioni più facili,
era troppo tardi per il buddhismo; il cristianesimo aveva cominciato la sua
opera di apostolato.
Da leggere:
Dialoghi del Re Milinda (Milinda-panha)
qui in una vecchia versione in italiano pubblicata in 3 volumi da Phoenix Ed. (Genova, 1980)
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