Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia nel 1646,
due anni prima della stipulazione dei trattati di Vestfalia con i quali si
chiuse una delle guerre più sanguinose della storia, la Guerra dei Trent’anni. Il conflitto, iniziato nel 1618 nei
territori del Sacro Romano Impero, aveva tratto origine dalla rottura
dell’unità cristiana ad opera della Riforma e dal conseguente atteggiamento
antiprotestante della Chiesa Cattolica, dalla crisi degli equilibri tra le
potenze europee, dalla posizione centrale della Germania, dalla formazione di
alleanze contrapposte dal punto di vista religioso.
Esso si
sviluppò prevalentemente in Germania e Italia settentrionale[1],
ma quasi tutti i paesi europei furono coinvolti. Le conseguenze per le
popolazioni e la loro economia furono disastrose. La sola Germania vide ridursi
la sua popolazione del 15-20%, ma secondo alcuni storici le perdite umane vanno calcolate fino a 12
milioni di morti (nella II Guerra Mondiale le perdite complessive della
Germania ammontarono a circa 7,5 milioni).
I trattati
di Vestfalia del 1648 chiusero sì il conflitto, ma la pace e il clima di
tolleranza religiosa che ne scaturirono erano piuttosto, come scrisse poi lo
stesso Leibniz, “una specie di tregua
sopraggiunta per la stanchezza comune; ciò che fa temere che il fuoco coperto
sotto le ceneri riprenda un giorno tutta la sua forza”[2].
La città
natale di Leibniz fu comunque una della meno coinvolte nella guerra. Questo
fatto e il livello sociale e culturale della sua famiglia, di religione
protestante (padre e nonno erano docenti di diritto), gli permisero da subito
di dedicarsi agli studi, anche se inizialmente “senza direzione”, in maniera poco organizzata: studiò il latino e il
greco, i classici, la storia, la poesia. A 13 anni lesse Platone, Aristotele e
Plotino, e a 14 si iscrisse all’Università di Lipsia, dove si dedicò alla
filosofia, e poi a Jena, per giurisprudenza e matematica. Nel 1663 pubblicò i
suoi primi scritti e si immerse nello studio dei filosofi moderni, tra cui
Galilei, Cartesio, Hobbes. Nel 1666 dovette scegliere tra la carriera
universitaria e quella politica, e optò per quest’ultima. Presso la Corte di Magonza
collaborò alla riforma del codice civile, scrisse saggi di argomento filosofico
e politico e proseguì i suoi studi filosofici. Compì dei viaggi a Parigi, e qui
lesse Pascal e approfondì le sue conoscenze matematiche. Si recò in diverse
località dell’Europa, dove svolse una intensa ma ben poco fruttuosa azione
diplomatica anche in campo religioso, lavorando per la riunificazione tra Luterani
e Calvinisti e tra Cattolici e Protestanti. Si dedicò alla storia dei casati
nobiliari, del diritto, delle attività missionarie cristiane in Cina e della
stessa civiltà cinese. Intorno al 1684 giunse a maturazione il suo pensiero
scientifico, e perfezionò il calcolo infinitesimale, giungendo alle stesse
conclusioni cui era pervenuto per altre vie il suo contemporaneo Sir Isaac
Newton (1642-1727), da cui fu diviso da un’aspra polemica. Negli ultimi anni di
vita Leibniz perse sempre più il favore dei suoi protettori e gli venne
addirittura impedito di muoversi da Hannover, dove infine morì nel 1716, ormai dimenticato da tutti,
lasciando una grande quantità di scritti filosofici, privi però di organicità e
sistematicità.
La
filosofia di Leibniz si fondò sulla critica
dei limiti delle concezioni meccaniciste allora dominanti, in particolare
del pensiero di Cartesio. I principi matematici su cui si reggeva il
meccanicismo non erano sufficienti a spiegare la realtà fisica, per cui secondo
Leibniz era necessario rivolgersi nuovamente alla metafisica. Egli stesso
scrisse nel 1714: “quando cercai le
ragioni ultime del meccanicismo e delle stesse leggi del movimento fui sorpreso
nel vedere che era impossibile trovarle nelle matematiche e che bisognava
tornare alla metafisica”[3].
Dopo aver operato la distinzione tra sostanza spirituale e sostanza materiale
(entrambe create), Cartesio aveva affermato che l’attribuito principale della prima
era il pensiero, della seconda l’estensione: lunghezza, larghezza e profondità
costituiscono quindi la natura essenziale della sostanza corporea. Gli aspetti
qualitativi esistono solo in chi li percepisce. Proprio queste conclusioni
parvero inaccettabili a Leibniz, il quale scrisse infatti che “per rendere ragione delle leggi di natura
che l’esperienza ci fa conoscere mi accorsi che non basta conoscere unicamente
una massa estesa, ma occorre impiegare anche il concetto della forza, che è
intellegibilissimo, benché appartenga al dominio della metafisica”[4].
L’estensione era per lui solo un aggregato di parti, divisibili all’infinito,
ma che presuppone delle unità non estese, senza le quali negli aggregati non
esisterebbe nulla di reale e di sostanziale. Doveva esistere, al di là del
mondo fisico dei fenomeni, una realtà meta-fisica,
nella quale trovare le ragioni ultime dei fenomeni naturali.
Da queste
riflessioni nacque la dottrina delle monadi, per la quale Leibniz è
tuttora noto nella storia della filosofia. Le monadi, termine greco (da μονάς,
monas, ciò che è semplice, indivisibile) che indica l’unità, sono sostanze
semplici, ovvero senza parti, che formano i composti. Sinonimi di monade sono gli
spiriti, le anime, le vite, nelle quali non c’è estensione né divisibilità.
Sono quindi “assai differenti dagli atomi
della filosofia atomistica, i quali, pur essendo fisicamente indivisibili, sono
pur sempre estesi e quindi divisibili almeno in linea di principio”[5].
Le monadi, non essendo composte di parti, non possono né cominciare né finire
naturalmente, ma solo iniziare per creazione e finire per annientamento.
Ugualmente non possono vicendevolmente modificarsi, cosa che richiederebbe un
passaggio di parti dall’una all’altra. Tutto ciò che avviene in esse avviene
secondo quanto stabilito da Dio.
Le monadi
sono però diverse l’una dall’altra, il che spiega le differenze tra i fenomeni
composti, e sono capaci di percezione e di appetizione: ognuna di esse si
rappresenta l’intero universo (percezione), e tende ad una rappresentazione
sempre più perfetta di esso (appetizione). Sono pertanto capaci di azione, anzi
di un agire finalistico.
Tra le
monadi esiste anche una sorta di “gerarchia”, a seconda del grado di
“consapevolezza” e di acutezza delle loro percezioni; nasce di qui la
differenza tra gli esseri inorganici, il mondo organico vegetale, quello
animale e quello umano.
Tutto
questo costituisce il vero fondamento dell’universo, dei fenomeni fisici.
Ma se tra le
monadi non esiste un vero influsso reciproco, che relazione intercorre tra di
loro?
Leibniz trovò
la risposta nell’opera creatrice di Dio, il quale ha fatto sì che esse
interagiscano come gli ingranaggi di un orologio perfettamente regolato. Il
mondo è quindi il frutto di una armonia
prestabilita tra le parti, come avviene ad esempio nel rapporto tra il
corpo e l’anima.
A partire
dalla teoria delle monadi, Leibniz costruì una visione ottimistica del creato,
giungendo a dare risposte per lui soddisfacenti ai problemi della libertà
dell’uomo, della presenza del male nel mondo e della giustizia di Dio (teodicea).
Nell’atto
della creazione di ogni singola monade, Dio, Monade suprema che ha in se stessa
la ragione della sua esistenza, ha agito tenendo conto di tutte le altre
monadi, prestabilendo la loro reciproca armonia. In Dio si trovano tutte le
possibilità, ovvero “il dominio infinito
di tutto ciò che, essendo possibile, passerà all’esistenza effettiva come di
tutto ciò che, pur essendo possibile, non passerà mai all’esistenza effettiva”[6].
Tutti i mondi possibili si pongono davanti a Dio secondo diversi gradi di
perfezione, e alla sommità c’è il migliore di tutti. Dio è determinato dalla
sua natura (che è bontà e saggezza) a scegliere il meglio, e pertanto il mondo
da lui creato è il migliore dei mondi
possibili (quindi, non il migliore in
assoluto)[7].
Dio è libero nella scelta, ma libertà non significa assoluta assenza di
determinazioni, significa invece che ciò che determina è il bene percepito
dall’intelletto. Ciò vale anche per l’uomo, che è libero in modo analogo a Dio, ma che non sempre agisce
in base alla ragione, e sbaglia nel giudicare ciò che è buono o meno. Agire
liberamente significa quindi agire non come si vuole, arbitrariamente, bensì
agire realizzando la propria natura.
Quanto
alla presenza del male nel mondo,
Leibniz operò una distinzione tra male metafisico, morale e fisico. Dio non è
causa del male metafisico, il quale è
la “limitazione originaria che la natura
non ha potuto fare a meno di ricevere con il cominciamento del suo primo
esistere…Dio infatti non poteva darle tutto senza farne un Dio”[8].
Il male metafisico è quindi una assenza,
una privazione, non una realtà
positiva creata da Dio.
Il male morale (il peccato) è originato dalla
limitazione propria di ogni creatura, che è soggetta ad errore, a valutazioni
sbagliate.
Il male fisico consegue infine dai precedenti: è
conseguenza etica del peccato e conseguenza materiale dei limiti delle
creature.
Quanto
precede non risolve ovviamente il problema della teodicea, se si pensa ad un
Dio buono, giusto e onnipotente. E Leibniz escogitò una ulteriore soluzione
ipotizzando che Dio vuole il meglio e per questo ha creato il male morale quale
condizione senza la quale non si
potrebbe ottenere il meglio. In tal modo, oggetto della volontà divina continua
ad essere il migliore dei mondi, e non il male. L’alternativa sarebbe necessariamente
un mondo peggiore…
Leibniz e l’Oriente
In un
famoso libro del 1975, Il Tao della
fisica, Fritjof Capra, fisico americano e studioso delle interrelazioni tra
scienza moderna e filosofie orientali, scrisse che la teoria della monade quale
sostanza fondamentale del cosmo e specchio dell’universo avrebbe portato
Leibniz “ad una concezione della materia
che presenta analogie con quella del buddhismo Mahayana”[9].
Ipotizzò quindi un reale influsso del Buddhismo sul filosofo tedesco, basandosi
sul fatto che Leibniz aveva conosciuto il pensiero cinese – e quindi anche il Buddhismo
di quel paese – attraverso le relazioni e le traduzioni di testi ad opera dei
missionari gesuiti in Cina. Le somiglianze tra la teoria delle monadi e la
parabola della rete di Indra
costituirebbe una prova di tale influenza: si tratta di una metafora che è
contenuta nell’Avatamsaka Sutra, un
antico testo buddhista, che “concepisce
l’universo come un’enorme rete che si estende all’infinito in ogni direzione,
proteggendo e accudendo la vita nella sua interezza, senza escludere nulla. Al
punto di intersezione di ciascun nodo della rete c’è una lucente gemma,
sfaccettata e riflettente. Grazie alle sue molte facce, ciascuna gemma riflette
ogni altra, generando una vasta rete di sostegno di tutta l’esistenza”[10].
Secondo Capra le gemme della rete sarebbero quindi paragonabili alle monadi.
Ma in
realtà le due concezioni sono molto diverse tra loro, sono anzi antitetiche: la
monade è un elemento reale, a sé stante, indipendente, creato, e costituisce il
fondamento dei fenomeni. Ma il Buddhismo esclude esplicitamente ogni idea di
sostanza fondamentale, e vede i fenomeni come vuoti, cioè privi di esistenza intrinseca. Le monadi sono poi “prive di finestre”, secondo
l’espressione dello stesso Leibniz, non interagiscono tra loro, mentre i
fenomeni, nell’ottica buddhista, sono tra loro interdipendenti, proprio perché vuoti. Per non parlare poi dell’idea di
un dio creatore, di una causa prima
che non è effetto di una precedente causa, rifiutata da tutte le scuole
buddhiste. È quindi da escludere l’ipotesi di una influenza diretta del Buddhismo
sul pensiero di Leibniz, ed anche le eventuali analogie, per quanto suggestive,
nascono da una lettura superficiale sia della sua teoria sia degli insegnamenti
buddhisti[11].
Ancor più radicalmente si esprime l’orientalista Icilio Vecchiotti, secondo cui
in Leibniz “non c’è [..] nulla di cinese”[12].
È invece assodato
che Leibniz studiò la cultura cinese, ed effettivamente lo fece attraverso le
traduzioni dei testi classici e le relazioni inviate in Occidente dai
missionari gesuiti. I Gesuiti erano giunti in Cina già dal 1582, partendo dalla
colonia portoghese di Goa, sul Mare Arabico. Non si limitarono a fare opera di
proselitismo, bensì contribuirono a far conoscere in Europa la cultura cinese,
dando origine ad un periodo di veri scambi culturali. Il primo ad ottenere il
permesso di entrare in Cina fu Matteo Ricci, che nel 1601 si stabilì nella
capitale e studiò la lingua e la cultura cinese. Col tempo, i Gesuiti
acquisirono un grande prestigio, grazie alle loro competenze anche di tipo
scientifico e alla loro abilità diplomatica, al punto che l’Editto di
Tolleranza del 1692 autorizzò le conversioni al Cristianesimo, le predicazioni
e la costruzione di chiese. Dai primi decenni del XVIII secolo l’interesse dei
Cinesi per il Cristianesimo e per i missionari iniziò però a declinare, ed essi
furono anche oggetto di persecuzioni. Nel frattempo, i Gesuiti iniziarono ad
essere malvisti anche in Occidente soprattutto per il potere che detenevano, ma
anche perché considerati “lassisti” dai Domenicani e dai Francescani per il
loro atteggiamento tollerante nei confronti delle usanze cinesi (il culto del
Cielo e degli Antenati, l’uso di nomi ed abiti locali…)[13].
Fino a che nel 1773 il Papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù, che fu
ricostituita solo nel 1814.
Come già
detto, gli scritti dei Gesuiti in Cina ebbero grande risonanza in Europa, e ne
influenzarono la cultura e l’arte: nascerà di qui la moda delle chinoiseries, caratterizzata
dall’utilizzo di immagini ed elementi decorativi ispirati ad una Cina più immaginata
che realmente conosciuta. Anche lo stile Rococò,
tarda evoluzione del Barocco, trasse in parte le sue origini da ciò che i
Gesuiti trasmettevano dall’Oriente ad una Europa assetata di novità. Leibniz
non restò immune dal fascino della Cina, anche se come si è visto la sua
filosofia delle monadi e la sua teodicea non devono nulla alla filosofia
cinese.
Ma non fu
così per quanto concerne i suoi interessi per la matematica, un campo in cui il contributo di Leibniz fu ben più
rilevante rispetto alla metafisica. Si è già detto dei suoi studi sul calcolo
infinitesimale, ma già nel 1673 aveva presentato alla Royal Society di Londra
il progetto della prima calcolatrice meccanica in grado di eseguire
moltiplicazioni e divisioni.
In un suo breve
manoscritto del 1679 si trova lo schema della rappresentazione dei primi cento
numeri in base 2, insieme col metodo per passare dal sistema decimale a quello
binario e viceversa e per effettuare operazioni con quest’ultimo. Fu così in
grado di progettare una calcolatrice basata sul sistema binario, con valori 1 e
0, introdotto anche da Juan Caramuel, matematico spagnolo del 1600. Un’idea che
verrà sviluppata appieno solo con la nascita dei calcolatori.
Gli
interessi di Leibniz per la matematica vennero poi in parte accantonati, ma mai
abbandonati. In una sua lettera del 1697, con cui proponeva la coniazione di
una medaglia per celebrare le sue stesse scoperte, paragonò l’armonia del
sistema binario a quella della creazione divina dell’universo:
“Perché uno dei punti principali della Fede
Cristiana [..] è la creazione di tutte le cose dal nulla attraverso
l’onnipotenza di Dio; bisogna dire che non c’è una migliore analogia, o anche
una dimostrazione di tale creazione, dell’origine dei numeri come qui è
rappresentata, usando solo l’unità e lo zero, o il nulla. E sarebbe difficile
trovare una migliore illustrazione di questo segreto nella natura o nella
filosofia [..].
Non è meno degno di nota che vi compare non
solo che Dio creò tutto dal niente, ma anche che il tutto che Egli fece era
buono; come possiamo vedere qui, con i nostri occhi, in questa immagine della
creazione. Perché invece di non apparire alcun ordine o struttura, come nella
comune rappresentazione dei numeri, qui al contrario sono manifesti un ordine e
un’armonia meravigliosi, che non possono essere superati. Dato che la regola
dell’alternanza fornisce quella della continuazione, così che si può scrivere
quanto si vuole senza calcolo o con l’aiuto della memoria, se si alterna
all’ultimo posto 0, 1, 0 ,1, 0, 1, ecc., mettendoli uno sotto l’altro; e poi
mettendo uno sotto l’altro al secondo posto (da destra) 0, 0, 1, 1, 0 ,0, 1, 1,
ecc.; nel terzo 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 0 ,0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, ecc.; nel
quarto 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0, 0,
1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, 1, e così via. Il periodo o ciclo di cambiamento aumenta
così per ogni nuovo posto”[14].
Scrisse
inoltre: “Sto corrispondendo con il
Gesuita Padre Grimaldi, che si trova attualmente in Cina, ed è anche colà
presidente del Tribunale Matematico [..]. Siccome mi aveva detto che il monarca
di questo potente impero era un amante dell’aritmetica e che ha imparato a far
di calcolo nella maniera europea dal Padre Verbiest, il predecessore di
Grimaldi, ho giudicato appropriato comunicargli queste rappresentazioni
numeriche, nella speranza che questa immagine del segreto della creazione
potesse servire a mostrargli ancor di più l’eccellenza della fede cristiana”[15].
Infatti
nel 1689 durante un viaggio a Roma Leibniz aveva stretto amicizia con il
missionario Padre Grimaldi. Da quella amicizia nacque il suo interesse per la
Cina, che lo portò poi a scrivere il libro Novissima
sinica (Le ultime novità della Cina,
del 1697); ma soprattutto grazie al Gesuita conobbe una delle opere
fondamentali di quella cultura, l’I-Ching, il Libro dei Mutamenti, opera
del mitico imperatore Fu Xi, che sarebbe vissuto tra il 2952 e il 2836 a.C.
Sono date
attribuibili più al mito che alla storia, ma si tratta comunque del testo più
antico nella storia della filosofia cinese e non solo, nel quale sono espressi i
principi cosmologici che sottostanno al Diagramma
del Fondamento Supremo, il T’ai Chi T’u, ormai universalmente
conosciuto, e spesso semplicemente chiamato “il Tao”, o “Yin e Yang”:
L’I-Ching (traslitterato anche con I-King) era in origine un testo
oracolare, una raccolta di segni utilizzati come oracoli dagli uomini di Stato,
che risale certamente ad oltre 3000 anni or sono (già nel 1143 a.C.
l’imperatore Wen ne scrisse un commento). Nel tempo acquisì sempre maggiore
importanza anche e soprattutto dal punto di vista filosofico-religioso, e
divenne oggetto di studi e di commentari da parte dei più grandi maestri di
tutte le scuole di pensiero, taoiste e confuciane, a partire da Lao-tzu e
Confucio stessi.
Fino ad essere studiato e commentato in
tempi recenti (1948) da Carl Gustav Jung, che scrisse la prefazione
all’edizione inglese dell’opera[16].
In verità, nell’I-Ching non compare il diagramma del T’ai Chi T’u, ma in una appendice, aggiunta al più antico testo
base, è detto:
“Per
questo vi è nei mutamenti il grande inizio primordiale [il T’ai Chi]. Questi genera le due forze fondamentali. Le due forze fondamentali
generano le quattro immagini. Le quattro immagini generano gli otto segni”[17].
Si tratta del processo, descritto nel Tao te ching, per cui il T’ai Chi genera le due polarità, che
saranno poi chiamate yang e yin e che nell’I-Ching sono rappresentate da due
linee, una intera e una spezzata.
Per raddoppiamento ne nascono le Quattro
Immagini (associate alle stagioni) e, con l’aggiunta di una terza linea, gli
Otto Segni (trigrammi), associati ad otto “elementi”. Questi non sono concepiti
come “cose” definite, ma come “stati” transitori di ciò che accade in cielo e
in terra: così, l’interazione tra le energie rappresentate dagli otto trigrammi
dà luogo all’intero mondo fenomenico, le Diecimila
Cose: gli otto segni si ampliano nei 64 esagrammi (2 x 4 x 8), che nell’I-Ching vengono raccolti e affiancati da
altrettante “sentenze”, da “immagini” e da dettagliati commentari che
interpretano ogni esagramma ed ogni singola linea che lo compone, in base alla
loro reciproca relazione, alla posizione all’interno del segno, alle loro
qualità ecc.

Mentre i trigrammi rappresentano concetti,
condizioni, cose, gli esagrammi introducono “il rapporto e l’interazione tra questi stessi concetti, condizioni e
cose, nonché le loro mutue e reciproche reazioni, simboleggiando l’interazione
dell’intero mondo manifesto nei suoi poteri di attrazione e repulsione”[18].
Come si vede, l’idea fondamentale che
sottostà all’I-Ching è quella del mutamento, della trasformazione
vicendevole delle due forze fondamentali, yin
e yang, l’una nell’altra. Il titolo
stesso dell’opera rende esplicita tale visione: I (o yi), come aggettivo,
indica ciò che è facile, agevole; come nome, esprime il processo del mutamento:
“non v’è niente di più facile del
mutamento, in quanto esso è inscritto nell’ordine naturale delle cose: un
essere vivente non è mai definito o definitivo, ma contiene già in sé il
principio della propria trasformazione”[19].
Infatti, anche gli esagrammi non sono
entità statiche, definitive. Ognuno di essi, attraverso la trasformazione di
una linea in quella opposta, può (si badi: può,
non deve) mutarsi in un altro, ma in
maniera né casuale né deterministica, bensì in base al valore numerico delle
linee.
Ad esempio, l’esagramma Kkunn, il Ricettivo, la Terra, il tardo
autunno, attraverso il mutamento della linea inferiore, si trasforma
nell’esagramma Fu, il Ritorno, il
tuono, il moto che inizia nella terra dopo il solstizio invernale, il ritorno
della luce:
Nonostante
tutto, Leibniz non mise subito in relazione il suo sistema binario con la
logica combinatoria dell’I-Ching,
basata come si è visto su due simboli, una linea retta ed una spezzata. Ma
grazie a padre Grimaldi conobbe altri missionari gesuiti, fino a che uno di
loro,
il francese Joachim Bouvet (1656-1730), con una
lettera del 1701 (ricevuta nel 1703) gli inviò una riproduzione quadrata e
circolare degli esagrammi:
Osservando
l’immagine, Leibniz intuì finalmente il possibile rapporto tra il sistema
binario e l’I-Ching, e scrisse subito
una dissertazione intitolata Explication
de l’arithmétique binaire, qui se sert des seuls caractères 0 et 1, avec des
remarques sur son utilité, et sur qu’elle donne le sens des anciennes figures
chinoises de Fohy (Fu Xi).
Vi
si legge: “Ciò che vi è di sorprendente
in questo calcolo, è che questa Aritmetica per 0 e 1 si trova a contenere il
mistero delle linee d’un antico Re e Filosofo chiamato Fohy, che si crede sia
vissuto più di quattromila anni fa, e che i Cinesi considerano come il
Fondatore del loro Impero e delle loro scienze. Ci sono diversi figure lineari
che gli si attribuiscono. Tutte si trovano in questa aritmetica, ma è
sufficiente mostrare qui le Figure degli Otto Cova [kua, i trigrammi], come sono
chiamati, che sono considerati fondamentali, e di aggiunger loro la spiegazione
che è manifesta una volta che si noti in primo luogo che una linea intera ──
significa l’unità o 1, e poi che una
linea spezzata ─ ─ significa lo zero o 0”.
Nel
suo testo “Leibniz accosta gli otto
trigrammi fondamentali ai primi otto numeri binari (da 0 a 7), sostituendo la
linea spezzata Yin con lo 0 e la linea continua Yang con l’1 e leggendo i
trigrammi dal basso verso l’alto. Combinando questi 8 trigrammi, si ottengono i
64 esagrammi che costituiscono il sistema completo dell’I-Ching”:
Tuttavia
secondo il filosofo tedesco “i Cinesi
hanno perduto il significato dei Cova o linee di Fohy, forse da più di un
millennio, e hanno scritto dei commentari su di essi, dove hanno cercato non so
quali significati reconditi. C’è voluto che la vera spiegazione ora venisse
loro dagli Europei”[20].
Leibniz
non era affatto interessato, come si nota, ad una interpretazione divinatoria o
mistica degli esagrammi. Anzi secondo lui dovrà essere la lettura che ne fa la
cultura europea a spiegare ai Cinesi il loro autentico significato! Il suo
sogno è invece quello di poter integrare i simboli matematici, gli esagrammi
dell’I-Ching, gli ideogrammi della
lingua cinese, gli elementi delle antiche lingue egizie ed ebraiche, in un
unico sistema non solo matematico ma filosofico, per risolvere uno dei problemi
che più assillavano molti pensatori dell’epoca: il problema del linguaggio, inteso
non solo come mezzo di comunicazione, ma soprattutto per “il ruolo che esso svolge nel processo conoscitivo e nel ragionamento”[21],
in quanto strumento che ci permette di memorizzare e ordinare le conoscenze,
nonché di parlare di qualcosa senza ri-definirla ogni volta. È il progetto,
perseguito invano da Leibniz per tutta la vita, di costruire una lingua
generale, un instrumentum rationis
costituito da elementi primi indivisibili, cui assegnare dei segni da usare
secondo valide regole combinatorie, capaci di dimostrare ogni verità e di
scoprirne delle nuove. È il sogno del ritorno a ciò che la Torre di Babele
aveva fatto perdere all’uomo, il ritorno alla lingua di Adamo, una lingua unica che esprimeva una conoscenza
perfetta delle cose: “Il Signore Iddio
formò dalla terra tutti gli animali e tutti gli uccelli del cielo e li condusse
ad Adamo per vedere con quale nome li avrebbe chiamati, poiché il nome che egli
avrebbe loro imposto sarebbe stato il loro nome”[22].
[1] Nella Guerra dei
Trent’anni si innestò anche la guerra di successione di Mantova e del
Monferrato, detta anche guerra del Monferrato (1628-1631), che costò all’Italia
un milione di morti, e che fece da sfondo alle vicende de I Promessi Sposi di Manzoni
[2] Cit. da L.
Perissinotto, Leibniz, in: E. Severino (a cura di), Filosofia, Ed. Curcio,
pag. 837
[7] “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era
cosa molto buona”. Genesi, 1,31
[8] Cit. in Leibniz,
pag. 832
[9] F. Capra, Il
Tao della fisica, Ed. Adelphi, pag. 345
[10] D. Eshin Rizzetto,
Svegliati
a ciò che fai, Ed. Ubaldini, pag. 32
[11] Di queste
difficoltà lo stesso F. Capra è ben consapevole. Cfr. pag. 346
[12] I. Vecchiotti, Che
cosa è la filosofia cinese, Ed. Ubaldini, pag. 9
[13] La cosiddetta querelle dei riti
[14] Citazione tratta
dal blog: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[16] V. l’edizione
italiana basata sulla versione tedesca del 1923 di R. Wilhelm, in: B. Veneziani
e A.G. Ferrara (a cura di), I-King, Ed. Astrolabio.
[18] J.C. Cooper, Yin e
Yang. L’armonia taoista degli opposti, Ed. Ubaldini, pag. 57
[19] A. Cheng, Storia
del pensiero cinese, Ed. Einaudi, vol. I, pag. 277
[20] Tutte le citazioni
sono tratte da: http://keespopinga.blogspot.it/2014/03/leibniz-il-sistema-binario-e-la-cina.html
[21] L. Perissinotto,
pag. 833