Il Dizionario etimologico di Giacomo Devoto
alla voce filosofia recita: “dal
greco φιλοσοφια (philosophìa),
composto di φιλο-, tema verbale indicante ‘amore’ e σοφια ‘sapienza’, astratto
di σοφοσ (sophòs) saggio”[1].
Il ben noto Vocabolario greco-italiano di Lorenzo Rocci ci permette di entrare
più nel dettaglio, traducendo σοφια (sophìa) con: a) abilità, destrezza,
pratica; b) conoscenza, sapere, scienza; c) sapienza, senno, saggezza,
prudenza. E φιλια (filìa) con: amicizia, relazioni amichevoli, amore,
affezione, brama, desiderio. Da cui φιλοσ (filòs): caro, diletto, amato, gradito,
piacevole, amico…[2]
Genericamente, quindi, filosofia come amore per la saggezza.
Se l’etimologia del termine è
sufficientemente chiara, entrare nel suo significato preciso, soprattutto
tenendo conto delle variazioni da esso subite nel corso dei secoli e nelle opere
dei filosofi delle diverse scuole, aprirebbe un ventaglio di possibilità che
qui non è dato di esaminare. Si può consultare, a solo titolo di esempio, la
voce filosofia nel Vocabolario on-line Treccani, in: http://www.treccani.it/vocabolario/filosofia/.
Oppure leggere ciò che riporta il sito
dell’Enciclopedia Treccani, in
maniera ben più estesa e dettagliata (http://www.treccani.it/enciclopedia/filosofia/).
O ancora, leggere le pagine introduttive
di qualsiasi storia della filosofia occidentale…
Invece, proviamo a domandarci: che cosa concretamente
“fa” un filosofo?
Una risposta possibile è quella data dalla
servetta di Talete di Mileto,
filosofo greco del VII-VI sec. a.C., riportata da Platone nel Teeteto
(173c-174b):
“Mentre
stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, [Talete] cadde in un pozzo; e allora una sua
servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose
del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e tra i
piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può ben applicare egualmente a
tutti coloro che fanno professione di filosofia. Perché il filosofo in verità
non solo non si avvede di chi gli è presso, né del vicino di casa che cosa
faccia, ma nemmeno, si può dire, se è uomo o altro animale; ma se si tratti
invece di ritrovare che cosa l’uomo è, e che cosa alla natura dell’uomo, a
differenza dagli altri esseri, conviene fare e patire, egli adopra in codesto
ogni suo studio”[3].
Un’immagine leggera ed ironica della
figura del filosofo, quindi, che nella storia della filosofia occidentale è
stata più volte ripresa, attribuendole significati diversi, spesso contrastanti
tra loro: la contrapposizione tra mondo del divenire e mondo dell’essere; una
critica dell’astrologia; un simbolo dell’audacia di chi vuole isolarsi per
meglio osservare la realtà; o più semplicemente la derisione di una persona
perennemente distratta, che è forse l’immagine del filosofo più diffusa tra le
persone comuni.
La storiella della servetta (o meglio, uno
dei suoi possibili significati) è forsanche leggibile in filigrana, a ben altro
livello invero, in una famosa citazione di Karl Marx, l’XI delle Tesi su Feuerbach, un breve scritto del
1845: “I filosofi hanno soltanto diversamente
interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo”[4].
Le parole di Marx ci portano subito al di
là dell’immagine stereotipata del filosofo a testa in su, perso nelle nuvole
dell’astrazione, che non si accorge che “la
vita sociale è essenzialmente pratica
[e che] tutti i misteri che sviano la teoria verso il
misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e
nella comprensione di questa attività pratica”[5].
Ma la posizione marxiana non è la sola alternativa
possibile all’immagine del filosofo della servetta barbara: una visione
quantomeno insufficiente, come dimostra il fatto che ormai da qualche migliaio
d’anni l’uomo continua a fare in qualche modo filosofia, spinto a ciò da una
necessità interiore non diversa dal bisogno di nutrirsi, scaldarsi, ripararsi,
riprodursi.
Si può invece proporre – necessariamente,
si può dire, dopo aver visto ciò che il marxismo ha contribuito a provocare
nella storia recente dell’umanità – un’altra visione, che supera sia quella del
filosofo impegnato a trasformare la società e a creare l’uomo nuovo, sia quella
del saggio che contempla il proprio ombelico.
La troviamo espressa molto sinteticamente in
una citazione del sociologo francese Georges
Friedmann (1902-1977):
“Fare
il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché
sia intenso. Ogni giorno un ‘esercizio spirituale’, da solo o in compagnia di
una persona che vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Uscire dalla
durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del
desiderio di rumore intorno al proprio nome [..]. Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l'odio. Amare tutti gli
uomini liberi. Eternarsi superandosi.
Questo
sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta. Numerosi sono quelli che si immergono interamente nella politica
militante, nella preparazione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi
quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni”[6].
L’espressione-chiave è esercizio
spirituale, un concetto inusuale, per molti inaccettabile (dal punto di
vista marxista, poi!), che in apparenza appartiene ad epoche lontane o all’ambito
religioso o al misticismo orientaleggiante.
Il termine spirituale (che non è
affatto sinonimo di religioso) può
oggi risultare ostico, astratto, quasi impronunciabile per chi è uso a ben
altri linguaggi, ma è il solo che possa effettivamente coprire tutti gli
aspetti di ciò di cui si va a parlare, cosa che aggettivi come mentale, morale, intellettuale, psichico… non possono fare, come ha
spiegato molto bene lo studioso francese Pierre
Hadot nel suo saggio Esercizi
spirituali, sul quale si fondano
queste considerazioni[7].
E se parlare di esercizi spirituali dovesse, fastidiosamente per alcuni, richiamare
alla mente gli Exercitia spiritualia
di Ignazio di Loyola (1491-1556), basterà riflettere sul fatto che questi
ultimi non sono che “una versione
cristiana di una tradizione greco-romana”[8]
ben più antica, la quale da sola è sufficiente a dimostrare la rozzezza delle
immagini della filosofia come di un astratto lavorio intellettuale, di un mero
rimando da un testo ad un altro, di uno sterile ruminare del pensiero,
contrapposto al pensiero “concreto”
dello scienziato, del materialista dialettico…o della servetta di Talete.
L’espressione latina esercitium spirituale corrisponde al greco ασκησις (àskesis), che non va tradotto e concepito soltanto come ascetismo, bensì soprattutto come pratica costante di veri e propri esercizi, ben radicata nella tradizione
filosofica classica. Ricordare tale diffusione e radicamento significa
comprendere l’autentica natura della filosofia e cosa significasse fare filosofia, prima che la filosofia
stessa divenisse un momento particolare della vita spirituale separato dagli
altri (la religione, la teologia, la scienza, la politica…).
Tale attitudine è assolutamente centrale
nelle scuole stoiche (da στοα, stoà,
il portico sotto cui si tenevano le lezioni – 300 a.C.), per le quali la
filosofia è esercizio: essa “non consiste nell’insegnamento di una teoria
astratta”[9]
o in interminabili commentari di testi o in una interpretazione del mondo tra
le tante, come direbbe Marx, bensì “in
un’arte di vivere, in un atteggiamento concreto, in uno stile di vita
determinato, che impegna tutta l’esistenza. L’atto filosofico non si situa solo
nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del ‘Sé’ e dell’essere: è un
progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una
conversione che sconvolge la vita intera, che cambia l’essere di colui che la
compie. Lo fa passare dallo stato di una vita inautentica, oscurata
dall’incoscienza [..] allo stato di
una vita autentica, dove l’uomo raggiunge la coscienza di sé, la visione esatta
del mondo, la pace e la libertà interiori”[10],
che costituiscono – osiamo aggiungere – il reale fondamento della pace e della
libertà anche nella società.
Tipica incarnazione del filo/sofo era Socrate, che secondo Platone si identificava con Eros, figlio di Poros (la via, l’espediente, la risorsa, l’acquisizione) e di Penìa (la mancanza, la povertà): egli era
cioè privo di sophìa, la saggezza, ma
sapeva conseguirla. In lui, come in tutta la tradizione filosofica classica,
filosofia era “esercizio del pensiero,
della volontà, di tutto l’essere, per cercare di pervenire ad uno stato, la
sapienza, che d’altronde era quasi inaccessibile all’uomo”[11].
Filosofia, quindi, come via e come mèta.
Per quasi tutte le scuole filosofiche
antiche la sofferenza umana trova origine nell’in/coscienza (in sanscrito è a-vidya,
non-vedere), nelle passioni, nel
cercare di ottenere stati e oggetti che non possono essere afferrati o
trattenuti, nello sforzarsi di evitare mali inevitabili. La soluzione consiste
nella pratica della filosofia come di una vera e propria terapia delle passioni, che permette la trasformazione interiore
del modo di essere dell’uomo: non cercare “di
conseguire che il bene che [si] può
ottenere, e [non cercare] di evitare
che il male che [si] può evitare”[12].
Ossia ciò che dipende dalla libertà umana, il bene morale e il male morale.
Ciò che invece sfugge alla nostra libertà e dipende dalla naturale catena di
causa-effetto, ovvero il dominio esclusivo della natura, ci deve essere in-differente (ovvero non devono essere
introdotte differenze) e va accettato[13].
Purtroppo “non possediamo nessun trattato sistematico che codifichi un
insegnamento e una tecnica degli esercizi spirituali”[14],
anche perché essi facevano parte di insegnamenti orali, come in tutte le tradizioni spirituali, ed erano comunque
molto diffusi. In due liste, leggibili in Filone
di Alessandria (20 a.C.-45 d.C.), vengono elencati diversi tipi di
esercizi: la ricerca, l’esame approfondito, (σκεψις, skèpsis, da cui scettico, termine che col tempo ha
perduto il suo significato originario), la lettura, l’ascolto, l’attenzione, il
dominio di sé, l’indifferenza alle cose indifferenti; e ancora: le meditazioni,
i ricordi di ciò che è bene, il compimento dei doveri, le terapie delle
passioni. Interessante il termine greco tradotto con meditazione: è μελετη (melète), che significa meditazione, studio,
pratica, ma anche cura; così come il
latino meditatio e l’italiano meditazione nascono dalla radice med-, la stessa di medicina, medico[15].
Analogamente, l’insegnamento del Buddha si presenta come percorso di guarigione: diagnosi, prognosi, terapia, liberazione
dalla sofferenza.
Inoltre, come in moltissime tradizioni
dell’Oriente (lo Yoga, il buddhismo
tibetano, il Taiji…), è accertato che
Gaio Musonio Rufo (Musonio
l’Etrusco – I sec. d.C.) raccomandasse, oltre gli esercizi spirituali
propriamente detti, anche esercizi fisici
ad essi legati, quali l’abituarsi alla fame e alla sete e adattarsi alle
intemperie.
Lo sviluppo
dell’attenzione attraverso gli
esercizi di meditazione e di memorizzazione è fondamentale per gli stoici.
Attenzione significa per loro “una
vigilanza e una presenza di spirito continue, una coscienza di sé sempre desta,
una costante tensione dello spirito”[16],
sapere in ogni istante ciò che si fa e ciò che si vuole. È, come si dice nel
buddhismo Zen, unità di corpo e mente
nel qui ed ora. Molto importante è esercitarsi dapprima nelle cose più facili,
per acquisire e mantenere abitudini e stili di vita sempre più evoluti. Molti
titoli di trattati di Plutarco (46-125 d.C.) fanno riferimento
all’oggetto degli esercizi stessi: L’amore
fraterno, L’amore per i figli, La curiosità, La brama delle ricchezze… Lo stesso è per il romano Seneca (4
a.C.-65 d.C.): L’ira, L’ozio, La tranquillità dell’animo …
Per la scuola di
Epicuro (342-270 a.C.), il fine della filosofia è sempre quello di
portare l’uomo alla guarigione, ma per far questo lo spirito deve essere
esercitato alla distensione. Portando
alla mente il ricordo dei piaceri del passato e distaccandosi dalla memoria
delle sofferenze. Lo scopo è la tranquillità
dello spirito (αταραξια, ataraxìa). Non più la meditazione stoica come
vigilanza costante, bensì come scelta di distensione, di gratitudine verso la
vita e la natura. Quindi, Epicuro non è il filosofo del piacere, come
banalmente viene presentato[17],
ma è il fondatore di una scuola che al pari delle altre propone la filosofia
come terapia. Ma per tutti, questo è il nodo fondamentale, la guarigione non è
il frutto – impossibile da raggiungere, in questo modo – di una adesione
intellettuale ad una qualche teoria, bensì il risultato di una didattica,
dell’applicazione metodica di precise tecniche pratiche in tutti gli aspetti
della propria vita.
Quale
provvisoria conclusione di questa breve disamina della filosofia greco-romana
nel suo aspetto di pratica della
filosofia, si deve osservare che “probabilmente la pratica degli esercizi
spirituali si radica in tradizioni che risalgono a tempi immemorabili”[18],
che precedono i secoli d’oro della civiltà classica e rimandano a tradizioni
magico-religiose di tipo sciamanico,
alle stesse pratiche corporee, respiratorie e mentali che, molto più ad
Oriente, hanno dato origine alle diverse tecniche note con il nome generico di yoga e poi a tutte le tradizioni della
spiritualità indiana ed estremo-orientale, che hanno dell’uomo una visione
olistica e non dualista.
Tradizioni che risalgono
alla cosiddetta preistoria (qui le
distinzioni Oriente/Occidente e storia/preistoria non valgono più di tanto…),
il cui studio da questo punto di vista aprirebbe orizzonti nuovi ed
estremamente attuali.
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Se guardare alla
filosofia come concreto esercizio
spirituale e non come mera attività intellettuale può essere considerato un
punto di vista inconsueto per l’Occidente, per quanto concerne l’Oriente si
tratta invece di una osservazione quasi scontata.
Se solo ci si
sofferma sulle filosofie dell’India, vediamo innanzitutto che filosofia e
religione non sono mai state separate, anche se “le discussioni filosofiche non sono state intralciate dalle forme della
religione”[19].
La vita in India è dominata da motivi spirituali, e la filosofia possiede lo
stesso carattere: “la filosofia incentra
tutto il suo interesse nelle dimore degli uomini, e non in solitudini
sopralunari. Trae le sue origini dalla vita, e ritorna alla vita, dopo esser
passata attraverso le scuole”[20].
Grazie a questo, la religione dell’India non è dogmatica, ma si adatta
costantemente ai diversi livelli di evoluzione spirituale dell’uomo e al mutare
delle concrete condizioni di vita.
I diversi
sistemi filosofici indiani, i darśana
(dalla radice sanscrita drś- vedere,
quindi: punti di vista, ma non nel banale senso di “opinioni”)[21]
costituiscono forme di autocoscienza e di critica che vagliano liberamente ogni
cosa, senza alcun limite che non risulti dalla logica, e che non si pongono in
conflitto l’una nei confronti dell’altra.
L’interesse
centrale della filosofia indiana è il Sé
dell’uomo. Il motto che riassume tale ricerca, fondamentalmente rivolta verso
l’interiorità umana, è atmanam viddhi,
ovvero conosci te stesso, il medesimo γνωθι σεαυτον
(gnòthi seautòn) inscritto nel tempio di Apollo a Delfi.
Per condurre
tale ricerca, finalizzata alla realizzazione delle più profonde aspirazioni
umane, il pensiero dell’India tradizionale ha preso in esame non solo la realtà
mentale umana nello stato di veglia, ma in tutti i suoi aspetti: la veglia, il
sonno con sogni, il sonno senza sogni: “se
consideriamo la coscienza desta come il tutto, allora otteniamo concezioni
metafisiche realistiche, dualistiche e pluralistiche. Se invece studiamo
esclusivamente la coscienza onirica, giungiamo a dottrine soggettivistiche. Lo
stato di sonno senza sogni ci conduce poi a teorie astratte e mistiche. Ma la
verità integrale deve prendere in considerazione tutti i modi di coscienza”[22].
Per giungere infine al “Quarto”, turiya o caturtha, con
cui si indica uno stato di coscienza pura, al di là dei tre
precedenti, l'esperienza della verità ultima, lo stato di liberazione.
Il miglior
esempio del carattere eminentemente pratico della filosofia indiana è fornito
da uno dei sei darśana, sicuramente
il più nominato in Occidente – anche se sovente conosciuto solo parzialmente e
in maniera distorta. Si tratta dello Yoga,
termine che deriva dalla radice yuj-,
da cui il latino yugum, giogo,
quindi: aggiogare, unire.
![]() |
Il secondo sutra di Patanjali |
Nel suo
sviluppo, che risale – come già detto anche per gli esercizi spirituali
occidentali – alle origini della storia umana, lo yoga si servì di diversi mezzi pratici per raggiungere lo scopo di
aggiogare mente e corpo, per “ottenere
una perfetta unità, operante ai più profondi livelli dell’inconscio, al di là
dei limiti di pensiero e linguaggio, e libera nel suo flusso fra le correnti di
energia che pervadono spazio e tempo”[23].
Se i primi strumenti furono le tecniche sciamaniche e forse l’uso di sostanze
psicoattive, si giunse poi – secondo alcuni già nel II sec. a.C. – alla
redazione del fondamentale testo del filosofo Patanjali, gli Yogasutra, che fecero dello Yoga un vero e proprio “sistema”
filosofico[24].
Esso “è il risultato di un enorme sforzo
inteso non solo a passare in rassegna e a classificare una serie di pratiche
ascetiche e di norme contemplative che l’India conosceva da tempo immemorabile,
ma anche a valorizzarle da un punto di vista teorico, fondandole,
giustificandole e integrandole in una filosofia”[25]
che riprende a grandi linee i caratteri fondamentali del sistema Sāṃkhya.
Come negli esercizi spirituali dell’ellenismo, nel
sistema Yoga vengono presi in esame
tutti gli aspetti dell’uomo come unità di corpo e mente e come relazione col
cosmo: l’etica e i rapporti interpersonali; la conoscenza e il lavoro sul corpo
(esercizi psico-fisici, alimentazione, stile di vita, prevenzione e terapia…) e
sulla respirazione fino ai suoi aspetti più sottili; l’attività mentale in
tutte le fasi e in tutti gli stati: sensazioni, percezioni, volizioni, intellezione;
per giungere poi alle tecniche di meditazione e concentrazione, la fase superiore
del sistema elaborato da Patanjali che conduce alla liberazione suprema, il samadhi.
Come si vede, lo
Yoga – termine che sta altresì ad
indicare l’aspetto pratico, esperienziale, di tutte le tradizioni spirituali
indiane, ma non solo: yoga buddhista,
yoga jaina ecc. – è tutt’altro che
una filosofia astratta ed intellettualistica, così come non lo sono lo
stoicismo, l’epicureismo ecc.; così come, in definitiva, non lo è la filosofia tout court, a meno che come tale non la
si voglia vedere e proporre, per ignoranza o per specifici interessi…
[1] G. Devoto, Dizionario
etimologico, Ed. CDE su lic. Le Monnier, pag.169
[2] L. Rocci, Vocabolario
greco-italiano, Soc. Ed. Dante Alighieri, pag. 1688 e pag. 1959
[3]
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/testiantichi.pdf
[4]
http://www.homolaicus.com/teorici/marx/tesi_feuerbach2.htm
[5] Marx, VIII
Tesi su Feuerbach, in:
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/3/tesi-f.htm
[6] Cit. in P. Hadot, Esercizi
spirituali e filosofia antica, Ed. Filosofica Einaudi, pag. 29
[7] In: P. Hadot cit.,
pag. 30. Si noti che in francese esprit
significa spirito, ma soprattutto mente. In alternativa, ma più di rado,
viene usato come sostantivo l’aggettivo mental
(il mentale). Cfr. R. Boch, Dizionario “Il Boch”, Ed. Zanichelli
[8] Hadot, “Esercizi
spirituali...”, pag. 30
[9] Id., pag. 31
[10] Id., pag. 32
[11] Id., pag. 156
[12] Id., pag. 32
[13] Ancora una volta è
molto significativa una notazione etimologica: il termine θεραπεια (therapèia, terapia) indica in greco la cura del corpo e
dello spirito, ma anche l’azione sacra, il culto. Cfr. Rocci, pag. 878
[14] Hadot, pag. 34
[15] Si veda:
http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/09/unisabazia-200506-3-linsegnamento-la.html
[16] Id.
[17] Curiosamente,
Epicuro era il pensatore classico prediletto da Marx, che però lo vedeva
soltanto come filosofo ateo e materialista
[18] Id., pag. 43 e
nota 1
[19] S. Radhakrishnan, La
filosofia indiana, Vol. I, Ed. Einaudi, pag. 8
[20] Id., pag. 7
[21] I darśana
tradizionali sono sei: Mīmāṃsā, Vedānta, Nyāya, Vaiśeṣika, Yoga e Sāṃkhya
[22] Radhakrishnan,
pag. 11
[23] M. e J. Stutley, Dizionario
dell’induismo, Ed. Ubaldini, pag. 508
[24] Tradotti in lingua
italiana con un ottimo commentario in: I.K. Taimni, La scienza dello Yoga,
Ed. Ubaldini 1970
[25] M. Eliade, Lo
Yoga - immortalità e libertà, Ed. Sansoni, pag. 22