Una doverosa precisazione introduttiva: il
consueto termine occidentale Confucianesimo
non ha un preciso corrispettivo in lingua cinese. La parola usata in epoca Zhou
(1045-256 a.C.) è rujia, che indicava
quegli intellettuali (ru) che erano
esperti (jia) nei rituali.
Se proprio si volesse esprimere invece il
concetto di Confucianesimo quale religione
– con tutte le consuete cautele del caso… – si potrebbe usare il termine rujiao, dove jiao non è però traducibile immediatamente con religione quanto piuttosto con dottrina,
insegnamenti. Ciò che invece si
avvicina maggiormente alla nozione occidentale di religione è il termine zongjiao, ovvero gli insegnamenti degli antenati [1].
Quanto al nome Confucio, esso è la latinizzazione – operata dai missionari Gesuiti
nel XVI secolo – del nome cinese Kongfuzi,
ovvero Maestro Kong. Secondo quanto tradizionalmente riportato, Confucio nacque
nel 551 a.C. nella regione di Lu (oggi nella provincia dello Shandong) in una
famiglia modesta anche se di origini aristocratiche. Si impegnò ben presto
nella vita politica del principato di Lu, ricoprendo incarichi amministrativi
fino a divenire ministro della giustizia. Intorno ai cinquant’anni abbandonò il
paese e la carriera politica, non approvando le scelte di sovrani che avevano
perduto il senso del mandato del cielo (tianming).
Il mandato del Cielo
Il
mandato celeste è una nozione di
sovranità utilizzata per legittimare e sostenere la dinastia Zhou dopo il
rovesciamento della dinastia Shang (XVIII – XVI sec. a.C.): i sovrani Shang si
erano attribuiti l’appellativo di di,
termine che indicava la divinità suprema che impone il suo volere (da cui shangdi, il Sovrano dall’alto), per cui il sovrano era la controparte del dio
(visto come istanza ordinatrice più che creatrice) nell’ordine umano. Non vi era
quindi alcun legame di parentela tra lignaggio regale e divinità: il Cielo (tian) è la fonte e il garante dell’armonia
cosmica e quindi umana: in Cina ordinamento dell’universo e ordinamento della
spazio umano si fondono. Ne consegue che un imperatore legittimo non
necessariamente doveva appartenere a famiglie nobili.
Secondo
Anne Cheng, “l’idea che il dio unico
abbia la sua controparte nel sovrano universale in seno all’ordine umano [..]
sarebbe rimasta alla base della prassi come del pensiero politico in Cina fino
all’alba del XX secolo” [2].
Il
Cielo poteva altresì revocare il
mandato: carestie, epidemie, alluvioni, cataclismi, apparizioni mostruose,
potevano essere interpretati come segni della revoca del mandato celeste. È il
concetto di mutamento del mandato (geming), che si tradurrà, nel XIX
secolo, nella nozione di rivoluzione.
È
ciò che accadde agli ultimi sovrani Shang, che si erano dimostrati indegni di regnare:
il Cielo aveva tolto loro il mandato e aveva inviato gli Zhou per sostituirli,
senza alcun problema di successione ereditaria.
Proprio sulla base della nozione di
mandato celeste, Confucio perseguì la sua ricerca della Via, peregrinando per
dodici anni da un reame all’altro. A sessant’anni fece ritorno a Lu, e lì
rimase insegnando ai suoi discepoli e riordinando i testi che tuttora
compongono il canone confuciano.
Egli stesso scrisse di sé nei Dialoghi: “A quindici anni decisi di apprendere, a trenta ero saldo sulla Via. A
quaranta non avevo più dubbi. A cinquanta compresi il decreto del Cielo. A
sessanta il mio orecchio era perfettamente intonato. A settanta agivo seguendo
il mio cuore, senza per questo trasgredire alcuna norma” [3].
Tre sono i punti cardinali
dell’insegnamento di Confucio: l’apprendimento,
la qualità umana, il rito.
Confucio fu essenzialmente un maestro:
l’apprendimento è il cuore del suo
pensiero, poiché per lui l’uomo è un essere perfettibile, tutti gli uomini sono
in grado di imparare, di evolversi all’infinito. I suoi Dialoghi iniziano così: “Studiare
e mettere costantemente in pratica non è una soddisfazione? Che un amico venga
da luoghi lontani non è una gioia? Non esser conosciuti dagli uomini e non
crucciarsene non è da Saggi?” [4].
Non si tratta tanto di dottrina, di uso dell’intelletto, quanto piuttosto di
esperienza di vita: lo studio è ciò che impegna l’uomo nella sua totalità. Non
è solo un’educazione dai libri, è un sapere come
più che un sapere cosa. Il fine è la
formazione di un uomo in grado di essere al servizio della comunità in tutti i
suoi aspetti: etica e politica si identificano, il servizio reso al sovrano è
come il servizio reso al padre: “In casa
il giovane osservi la pietà filiale, fuori casa la sottomissione fraterna” [5]. E ancora: “E’ raro che un uomo filiale verso i genitori e sottomesso ai fratelli
maggiori ami ribellarsi ai superiori” [6].
L’uomo colto secondo Confucio deve
svolgere un ruolo “politico”, in senso ampio: non tenersi in disparte, bensì
adempiere al compito di impegnarsi nel processo di armonizzazione della
comunità umana.
è
L’essere un uomo nobile, non per nascita, bensì divenire un uomo completo, un uomo di qualità, un uomo di valore, junzi, in contrapposizione all’uomo
piccolo, l’uomo dappoco. Ecco il secondo punto cardinale della visione
confuciana, la qualità umana.
Apprendere è attualizzare l’umanità
della persona, che non è un dato, ma una potenzialità da sviluppare, insita in
chiunque.
È la nozione di ren, che Confucio riprende dal passato. Il carattere ren è composto dal radicale uomo (che si pronuncia ugualmente ren) e dal segno due (èr): ovvero, l’uomo
diventa umano solo nella sua relazione con gli altri. L’io non è concepibile
come una entità isolata, ma solo come punto di convergenza di relazioni
interpersonali. Ren è così importante
per Confucio “da non riconoscerlo praticamente
a nessuno (e soprattutto non a se stesso) se non alle mitiche figure dei santi
dell’antichità. Al tempo stesso, peraltro, egli lo dichiara assai prossimo: Ren
è davvero inaccessibile? Desideralo con fervore ed eccolo in te” [7].
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Ren |
Coerentemente con lo stile del suo
insegnamento, Confucio non fornisce una definizione esplicita di ren, per non limitarne la potenzialità,
nemmeno da un punto di vista lessicale e pedagogico.
Una volta disse comunque che ren è amare gli altri. E nei Dialoghi è scritto che ren è collegato alla mansuetudine: “Mansuetudine è forse la parola chiave? Ciò che non vuoi sia fatto a te
non farlo agli altri [..]. Per praticare ren occorre cominciare da se stessi:
desiderare la sicurezza altrui quanto la propria, auspicare il successo altrui
quanto il proprio. Attingi in te l’idea di ciò che puoi fare per gli altri –
questo ti porrà sulla via di ren!” [8].
Anche la grafia del termine shu, mansuetudine,
ne chiarisce il senso profondo: sotto è xin,
il cuore; al di sopra, l’elemento che stabilisce una equivalenza tra i due
termini: ovvero una relazione tra i cuori, tra sé e l’altro.
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Shu, la mansuetudine |
Come dissero molti filosofi della Grecia classica:
“Non
fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fatto da lui” (Pittaco)
“Evita
di fare quello che rimprovereresti agli altri di fare” (Talete)
“Non
fare agli altri ciò che ti riempirebbe di ira se fatto a te dagli altri”
(Isocrate)
“Ciò
che tu eviteresti di sopportare per te, cerca di non imporlo agli altri”
(Epitteto)
O ciò che si legge nel Levitico, 19,18: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.
Oppure ciò che disse il rabbino Hillel (60
a.C. – 7 d.C.): “Non fare agli
altri ciò che non vorresti fosse fatto a te: questa è tutta la Torah. Il resto
è commento”.
E, naturalmente, ciò che è costantemente
ripetuto nei Vangeli, dai quali non sarebbe qui possibile riportare tutte le
citazioni:
Matteo, 7,12: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a
loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti”.
Luca, 6, 31: “Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.
Luca, 10,27: “Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”.
Giovanni, 15,12: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io
vi ho amati”.
Quindi attraverso il lavoro su se stessi, con
l’apprendimento, l’uomo sviluppa la propria umanità nella relazione con gli
altri, che si esplica nella mansuetudine e nel rispetto, mantenendo integri
comunque i rapporti gerarchici esistenti: una armonica relazione tra persone
gerarchicamente distinte non comporta la scomparsa della gerarchia, non fa sì
che la relazione divenga un rapporto egualitario.
La natura di tale relazione è percepita da Confucio, coerentemente con la
cultura cinese più antica, come rituale.
Comportarsi umanamente equivale a comportarsi ritualmente. Come egli disse, il ren consiste nel “vincere il
proprio io per rivolgersi ai riti”. È dunque indispensabile “un’ascesi volta a disciplinare la tendenza
all’egocentrismo e ad interiorizzare ritualmente l’umanità delle proprie
relazioni con gli altri” [9].
Il termine che indica il rito in lingua
cinese è li. Esso è composto da un elemento che rappresenta ciò che è sacro
a cui si aggiungono le rappresentazioni di una minestra di cereali e di una
coppa che la contiene. Nel complesso indica un vaso sacrificale, e per
estensione il rituale del sacrificio. Ciò che interessa a Confucio “non è l’aspetto propriamente religioso del
sacrificio alla divinità, ma l’atteggiamento rituale di colui che vi partecipa”
[10]. È un atteggiamento soprattutto
interiore, ma che si manifesta anche esteriormente e si traduce in un
comportamento formalmente controllato. Non si tratta dunque di una forma
repressiva di autocontrollo e nemmeno di bellezza formale e di raffinatezza dei
gesti, in quanto vi è alla base l’armonia complessiva della persona nella
propria individualità e nelle sue relazioni con il mondo esterno. Forma
esteriore e sincerità dell’intenzione sono in perfetto accordo, quindi non vi è
qui spazio per la vacuità di molti cerimoniali dell’epoca di Confucio – e
dell’attuale.
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Li, il rito |
Li, il rito, è ciò
che contraddistingue l’umanità sia dell’individuo sia del gruppo cui egli
appartiene: rappresenta la linea di demarcazione tra l’uomo e l’animale, nonché
tra l’uomo civilizzato e il “barbaro” – che non è quindi riconducibile a
fattori esclusivamente etnici.
Con il Maestro Kong la lettera è
nuovamente animata dallo spirito. La sacralità del rito non è annullata, ma
mantenuta e integrata con l’ambito propriamente umano. Il sacro non si
identifica per lui con il culto reso alla divinità, ma con la coscienza morale
individuale: in questo consiste essere fedeli alla Via, il Tao. Aderire al Tao ha il
valore di decreto del Cielo, tianming,
lo stesso decreto che conferiva il mandato dell’imperatore. Più volte Confucio
fu minacciato di morte, ma sempre dichiarò di non avere alcun timore, poiché
egli costantemente si appellava a quel mandato celeste che aveva conosciuto a
cinquant’anni.
Quanto la Via confuciana si ricolleghi
alla Via di cui parlava Laozi – e quanto entrambe non costituissero affatto una
novità nella Cina del V secolo a.C. – è riaffermato con forza dalle parole
dello stesso Confucio: “Trasmetto
l’insegnamento degli antichi senza creare nulla di nuovo poiché mi sembra degno
di fede e di adesione”, ed anche: “Buon
maestro è colui che pur ripetendo l’antico è capace di trovarvi del nuovo” [11]. Confucio (come Laozi, e come il
Buddha, Gesù, Vyāsa, Dogen…) non si era dato il compito di creare qualcosa ex novo e nemmeno di modificare i
principi della tradizione, bensì di trasmetterli interiorizzandoli. In questo
consiste la grandezza sua e degli altri maestri della Tradizione, la quale non
viene sclerotizzata in una vuota riproposizione di un modello né trasformata secondo
personali reinterpretazioni, bensì costantemente rivitalizzata in base alle
trasformazioni della realtà storica. In tal senso ogni Via è autenticamente universale.
Proprio su questo punto si accentrò
l’attenzione del maggiore studioso occidentale della Tradizione, il francese René Guénon (1886-1951). A prima vista
potrebbe parere che la Via di Laozi non abbia alcun punto di contatto con la
Via del maestro Kong. Anzi, il saggio taoista sembra contrapporsi nettamente al
saggio confuciano. In realtà dette Vie hanno una base comune nell’antica
tradizione cinese, in particolare negli insegnamenti esposti nel Libro dei Mutamenti, il plurimillenario Yijing, che l’Occidente continua spesso
a considerare come un mero testo oracolare.
Come mostra un antico aneddoto lo stesso
Confucio era consapevole della reale natura del legame esistente tra le due
dottrine: un giorno i due Maestri si incontrarono, e Laozi chiese a Confucio se
avesse scoperto il Tao. “L’ho cercato a ventisette anni – rispose
il Maestro Kong – e non l’ho trovato”.
Allora Laozi gli diede questi insegnamenti: “Il saggio ama l’oscurità, non si apre al primo venuto, studia i tempi e
le circostanze. Se il momento è propizio parla, se no, tace. Colui che possiede
un tesoro non lo mostra a tutti: così chi è veramente saggio non svela la sua
saggezza a tutti”. Al suo ritorno Confucio affermò: “Ho visto Laozi: egli assomiglia al drago. Quanto al drago io ignoro
come esso possa essere portato dai venti e dalle nubi ed elevarsi fino al cielo”
[12].
Secondo Guénon quindi non è corretto,
relativamente a Taoismo e Confucianesimo, parlare di due dottrine in
opposizione tra loro. Si tratta invece di due branche della stessa dottrina, in
cui ormai stava dividendosi la tradizione estremo orientale: l’una, il Taoismo,
comportante essenzialmente la metafisica pura, con una portata speculativa,
conoscitiva. L’altra confinata nel dominio pratico, nella sfera delle
applicazioni sociali e politiche [13].
Non a caso, nell’aneddoto citato, Confucio confermava di non aver penetrato
l’aspetto più profondo della Via, la conoscenza metafisica. Quindi la sua opera
doveva rimanere confinata al dominio di sua competenza, quello del particolare,
del contingente. Nessuna rivalità, dunque, ma ruoli distinti e separati: in un
certo senso si può dire che il punto di arrivo del Saggio confuciano coincide
con il punto di partenza, nella Via evolutiva, del Saggio taoista. Non a caso
in Cina “il Taoismo non ha mai avuto una
diffusione molto larga e non ha mai mirato ad averla, essendosi sempre astenuto
da ogni propaganda” [14]. Era infatti,
necessariamente, una dottrina chiusa, iniziatica, destinata ad una élite, non proponibile a chiunque né da
chiunque realizzabile. Una Via interiore, a differenza della esteriorità del
Confucianesimo, che costituisce una sorta di “applicazione” pratica, nella
sfera del contingente e della vita ordinaria, dei principi taoisti, ai quali è
necessariamente subordinata. Una distinzione questa, osserva Guénon, che non si
trova invece nella tradizione indiana, nella quale “non vi è che un unico corpo di dottrina, il Brahmanesimo, comportante
ad un tempo il principio e tutte le sue applicazioni” [15], senza alcuna soluzione di continuità. Come probabilmente era
avvenuto in Cina fino all’epoca di Laozi e Confucio.
Quale provvisoria conclusione si può
cercare di gettare un fugace sguardo sulla Cina di oggi attraverso l’immagine
di Confucio, o sulla dottrina di Confucio attraverso la Cina di oggi…
Anche a causa di storici fallimenti
politici quali la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria degli anni ’60, gli
attuali leader cinesi guardano oggi nuovamente ai principi di governo che in
passato hanno consentito all’impero di rimanere sostanzialmente unito per
millenni. “L’ideologia dominante
all’interno del PCC si rifà sempre più a dottrine e ideali propri di sistemi di
pensiero – primo fra tutti il confucianesimo – fino a poco tempo fa messi al
bando perché ritenuti contrari all’edificazione di una moderna società
socialista” [16]. Un
rivolgimento ideologico vero e proprio rispetto ai primi decenni del regime
comunista, che esprime la volontà di riappropriarsi di un sistema
etico-politico ritenuto nuovamente funzionale alla politica cinese, soprattutto
alla politica interna. È il tentativo di innestare le “dottrine promosse da Confucio nel corpo del liberalismo economico
introdotto da Deng Xiaoping e del pensiero di ispirazione marxista-leninista di
Mao Zedong, a cui non s’intende in alcun modo rinunciare e di cui Xi Jinping si
erge a massimo interprete e difensore” [17].
Dopo la Rivoluzione Culturale lo studio
delle radici culturali tradizionali si è intensificato, a partire da piccoli
gruppi di intellettuali per poi diffondersi nella scuole di ogni grado,
elementari comprese. Nelle università si sono tenute conferenze e convegni su
Confucio, sono nati centri di studio e associazioni per diffonderne il
pensiero, utilizzando anche i nuovi strumenti di comunicazione informatici.
Sono stati dedicati luoghi di culto al Maestro Kong e ai maggiori discepoli, ai
quali i fedeli dedicano riti e preghiere. Pare così tramontato, anche dal punto
di vista “religioso”, il periodo culminato nei primi anni ’70 con milioni di
cinesi che scandivano lo slogan pi Lin pi
Kong, “critichiamo Lin [Biao],
critichiamo Confucio” [18], e
indicavano nelle due figure coloro che volevano portare indietro le lancette
della storia, contrastando Mao il primo e restaurando gli Zhou il secondo.
Lo stesso Xi Jinping, Segretario del PCC
dal 2012, è un esempio di tale tendenza: da subito si distinse infatti per aver
introdotto citazioni dai classici confuciani nei suoi discorsi ufficiali.
Citazioni sempre più frequenti (più di 30 in un solo discorso, nel 2014), non a
caso raccolte in un volume dal Quotidiano del Popolo, Renmin ribao, l’organo del PCC. Xi dimostra quindi, nonostante sia
cresciuto in un’epoca in cui i classici erano messi al bando, una padronanza
approfondita delle opere di Confucio e Mencio, ma anche di Laozi, Mozi e altri
pensatori. Ma soprattutto egli sembra volersi ispirare alla figura del junzi confuciano, l’uomo esemplare per
virtù e nobiltà d’animo. Colto, raffinato, retto, capace di agire in armonia
con il mondo in cui vive e di trarre insegnamenti dai maestri del passato. Come
diceva Confucio nei suoi Dialoghi, “chi
governa tramite l’eccellenza morale può essere paragonato alla stella polare,
fissa al suo posto mentre tutte le stelle attorno le rendono omaggio” [19]. Questa è l’immagine che Xi
Jinping pare voler dare di sé, all’interno e all’estero.
Una rinascita della Tradizione, o Kungfuzi
2.0, un nuovo brand del made in China?
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Xi Jinping |
NOTE
1)
Cfr. M. Scarpari, Ritorno a Confucio, Ed. Il Mulino, p. 104 nota 1. Nell’attuale
Costituzione cinese sono riconosciute cinque religioni: Taoismo, Buddhismo,
Islam, Cattolicesimo, Protestantesimo. Non il Confucianesimo, in quanto è
ritenuto un sistema filosofico-sociale, senza connotazioni di tipo
trascendente. Cfr. id., pag. 101.
2)
A. Cheng, Storia del pensiero cinese, Ed. Einaudi, vol. I, pag. 37.
3)
Cit. in Cheng, pag. 48.
4)
Confucio, I Dialoghi, I,1, Ed. BUR, pag. 59.
5)
id., I,6, pag. 60.
6)
id., I,2, pag. 59.
7)
A. Cheng, pag. 53.
8)
XV, 23 e VI, 28, cit. in Cheng, pag. 54.
9)
Cheng, pag. 58.
10)
id., pag. 59.
11)
id., pag. 70.
12)
Riportato in R. Guénon, Taoismo e Confucianesimo, in: La
metafisica orientale, Ed. Studi Esoterici, pag. 59-60. Si rammenti
Matteo 7,6: “Non date le cose sante ai
cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino
con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.
13)
Cfr. Guénon, pag. 60.
14)
id. pag. 71.
15)
id., pag. 72.
16)
Scarpari, pag. 97.
17)
id. pag. 98.
18)
cfr. id., pag. 102.
19)
cit. in Scarpari, pag. 114.