martedì 10 febbraio 2015

Il Buddhismo e i Greci - di Sylvain Lévi

Nel 1891 la Revue de l’histoire des religions (Paris, Ernest Leroux éditeur, tome XXIII) pubblicò un articolo di Sylvain Lévi (1863-1935), importante storico delle religioni, orientalista e filologo, docente al Collège de France e all’Ecole pratique des hautes études.
Oggetto dello studio è il rapporto storico tra il buddhismo e il mondo greco. Il testo, nonostante sia probabilmente superato in alcune parti, è di grande interesse per il praticante o il semplice “curioso” occidentale.
La traduzione dal francese è opera dello scrivente, che è pertanto responsabile di ogni inesattezza ed errore. Per non appesantire il post, sono state omesse le note dell’A., che sono comunque reperibili, insieme con l’articolo originale, sul sito Internet:


Il Buddhismo e i Greci - di Sylvain Lévi

Sylvain Lévi

 Malgrado le ininterrotte relazioni del mondo ellenico con l’India a partire dalla spedizione di Alessandro fino agli ultimi tempi dell’impero romano, la letteratura greca ha quasi ignorato l’esistenza del buddhismo o quantomeno l’ha conosciuto ben poco. La definizione dei Sarmanes in Megastene e negli scrittori che lo copiano è talmente vaga ed incolore che presso gli indianisti ha provocato interpretazioni del tutto contraddittorie. Von Bohien e Schwanbeck riconoscono in essi i monaci buddhisti designati in sanscrito con il nome di shramana; Childers conferma la loro opinione a causa del valore strettamente buddhista della parola samano in lingua pāli; Cunningham la corrobora con argomentazioni tratte da una fonetica inverosimile. Colebrooke, Lassen e Beal sono invece d’accordo nel respingere tale metodo e considerano i sarmanes come dei brahmani ortodossi. I samanaioi menzionati da Alessandro Poliistore (80-60 a.C.) come preti della Battriana sono incontestabilmente monaci buddhisti; il loro nome, derivato dalla forma volgare di samana, si ritrova nella stessa regione nel corso dei secoli successivi, leggermente alterato in shaman. Clemente Alessandrino alla fine del II secolo e Cirillo nella seconda metà del IV copiano con servile fedeltà le informazioni di Alessandro Poliistore. Bardesane intorno alla metà del II secolo aggiunge alle scarne informazioni dei suoi predecessori alcuni precisi dettagli sperduti in un buon numero di fantasie. Origene nel II secolo e san Girolamo alla fine del IV distinguono, in base alla testimonianza di Bardesane, i brahmani e i samanaioi senza peraltro conoscere le differenze fondamentali tra le loro dottrine. Il nome di Buddha compare per la prima volta in Clemente Alessandrino: “Ci sono degli Indiani – scrive – che credono agli insegnamenti di Butta; e lo adorano come un dio a causa della sua straordinaria maestà”.  Due secoli dopo San Girolamo ricorda la sua nascita meravigliosa: “La costante tradizione dei Gimnosofisti pretende che Budda, il capo della loro religione, sia uscito dal fianco di una vergine”. Consacrato dai Padri della Chiesa, il nome immortale del riformatore indiano penetra perfino nelle nebbie del Medio Evo. Un contemporaneo di Ludovico il Pio, Ratramno, contrappone alla natività di Cristo le favole “dei bragmani sulla nascita di Budda, fondatore della loro setta”.

Si spegne allora in Occidente l’ultima eco dell’incomparabile rivoluzione religiosa che le rive del Gange avevano generato tredici secoli prima. Mentre il buddhismo diffondeva i suoi insegnamenti di dolcezza e di amore in India, in Iran e in Asia centrale, in Tibet, in Cina, in Giappone, nella penisola indocinese e nell’arcipelago indiano, il mondo greco, a giudicare dalla sua letteratura, rimaneva ostinatamente chiuso ai ferventi missionari della Buona Legge; mentre milioni di voci umane invocavano ogni giorno, in Oriente, l’inesauribile bontà e la misericordia infinita del Buddha, l’Occidente sentiva appena proclamare tre volte il suo nome nell’arco di mille anni. Una inspiegabile fatalità chiudeva la metà del mondo alla benefica dottrina che senza l’aiuto delle armi convertiva le più diverse razze, le nazioni civilizzate e le tribù barbare. Le testimonianze dell’India così spesso e così ingiustamente disdegnate dissolvono l’illusione, rovesciano un pregiudizio fondato sui documenti di origine greco-romana e vi sostituiscono una visione più corretta e più verosimile.

L’attiva propaganda del buddhismo scalfisce il mondo greco a partire dalla sua prima espansione ufficiale. Quando il nipote di quel re Candragupta che aveva assistito alle vittorie di Alessandro adottò gli insegnamenti del Tathagata, il suo zelo religioso, unito alle sue ambizioni politiche, lo impegnò a diffondere e a proteggere la buona religione anche al di fuori dei suoi confini. Il tredicesimo editto di Piyadasi, inciso intorno al 258 a.C., proclamò le sue conquiste religiose. “è in queste conquiste della religione che il re caro ai Deva trova il suo piacere, sia nel suo impero sia su tutte le sue frontiere, per una estensione di molte centinaia di yojana. Tra questi vicini vi sono Amtiyoko re degli Yavana, e a nord di Amtiyoko quattro re: Turamaya, Amtikini, Maka, Alikasudara… presso gli Yavana e i Kāmboja… ovunque ci si conforma alle prescrizioni religiose del re caro ai Deva. Laddove sono stati inviati i messi del re caro ai Deva, anche là, dopo aver ascoltato, da parte del re caro ai Deva, i doveri della religione, ci si conforma ora e ci si conformerà alle prescrizioni religiose, alla religione… è in questo modo che la conquista si è estesa in ogni luogo.  Il nome degli Yavana citato due volte in questa iscrizione indica esplicitamente i popoli ellenici; i re menzionati sono stati riconosciuti senza difficoltà già dalle prime decifrazioni. Piyadasi si vanta di aver portato le conquiste della religione presso Antioco re di Siria, Tolomeo re dell’Egitto, Antigone re di Macedonia, Magas di Cirene e Alessandro d’Epiro. Alessandro d’Epiro, di cui Ashoka incideva il nome sulle pietre dell’India, era il figlio di quel Pirro che per primo mostrò ai Romani la sapiente tattica della Grecia e i temibili elefanti dell’Oriente. Quindi, volendo credere ad Ashoka, il buddhismo avrebbe toccato fin dal suo primo sviluppo l’estremo limite del mondo ellenico. Ma l’epigrafia ha una sua ottica particolare e bisogna stare attenti a non farsene ingannare. Le relazioni del re Maurya con la Siria sono confermate dalla storia; la dinastia dei Tolomei intratteneva anche con l’India dei rapporti diplomatici. Filadelfo, contemporaneo di Piyadasi, aveva inviato al suo predecessore un ambasciatore chiamato Dionisio; forse gli altri nomi presi a prestito dai protocolli di cancelleria si sono aggiunti ai primi; forsanche nel suo fervore un po’ ingenuo Piyadasi aveva inviato verso quelle lontane regioni dei missionari che probabilmente non raggiunsero mai la loro meta. Il numero dei missionari mandati all’estero doveva essere considerevole: l’editto di Sahasarām menziona “duecentocinquantasei partenze di missionari”. Il quinto editto che stabilisce le attribuzioni dei funzionari chiamati Sorveglianti della religione mette i Greci ai posti di loro competenza: “Essi si occupano degli aderenti di tutte le sette, in vista dell’instaurazione della religione, del progresso della religione, delle necessità e della felicità dei fedeli della religione; essi si occupano presso gli Yavana, i Kamboja, i Gandhāra… e gli altri popoli di frontiera, dei guerrieri, dei brahmani, e dei ricchi, dei poveri, dei vecchi, in vista dei loro bisogni e della loro felicità, per togliere tutti gli ostacoli davanti ai fedeli della religione; essi si occupano di dare conforto a chi è in catene, di eliminare per lui gli ostacoli, di liberarlo perché ha famiglia, perché è stato vittima di qualche astuzia, perché è anziano”. Antioco e i Greci sono nuovamente nominati nel secondo editto: “Ovunque, nel territorio del re Piyadasi caro ai Deva ed anche dei popoli che sono alle sue frontiere… nel territorio di Amtiyoko re degli Yavana ed anche dei re che lo hanno come vicino, ovunque il re Piyadasi caro ai Deva ha diffuso due tipi di rimedi, rimedi per gli uomini, rimedi per gli animali”. La compassione attiva di Ashoka estendeva così in diverse maniere la sua azione nei paesi greci; vi inviava dei missionari incaricati di diffondere la Buona Parola; vi insediava dei consoli per difendere gli interessi e la libertà dei fedeli contro l’invidia e la persecuzione; vi fondava opere di carità, ospizi, ricoveri, insegnava al di fuori dell’India attraverso il suo stesso esempio il rispetto per la vita e la compassione verso tutti gli esseri. La cronaca cingalese, attraverso l’autorità di una antica tradizione, conferma la testimonianza positiva dell’epigrafia. Il Mahāvamso, il Dīpavamso e il Sutta-vibhanga di Buddhaghosa riportano quasi con le stesse parole la conversione degli Yavana sotto i re Devanampiyotisso e Dhammāsoko. “In quel tempo il thero Moggaliputto… rifletté sul futuro. Vide che era arrivato il momento di insediare la religione nei paesi vicini, e nel mese kattiko [novembre] inviò il thero Majjhantiko in Kashmir e nel Gandhāra… e il thero Mahārakkhito nel mondo Yavana… Il santo Mahārakkhito recandosi nel dominio degli Yavana predicò in mezzo alla folla il sutta Kālakārāma. Centosettantamila (o centotrentasettemila) persone si convertirono; diecimila entrarono negli ordini”. Il paese Yavana, che aveva appena conosciuto la nuova religione, gli diede già degli apostoli. Tra i missionari scelti da Moggaliputto si trovava un uomo del paese greco. “Egli inviò il thero Yavana Dhammarakkhito nel paese di Aparantaka (contrade dell’estremo Occidente)… Il thero Yavana Dhammarakkhito, essendosi recato nel paese di Aparantaka, predicò in mezzo alla gente il sutta Aggikhandopama; là dispensò il nettare della legge a settantamila anime. Un migliaio di uomini, un numero ancora più grande di donne, nati in famiglie ksatriya, entrarono allora negli ordini”.

Dopo la morte di Ashoka inizia la decadenza della dinastia Maurya. Lungo i confini del reame di Siria e dell’India si erge uno stato indipendente che in un primo tempo copre la Battriana, si estende nella valle di Kabul, invade l’India, porta le sue armi vittoriose fino alle foci della Narmadā verso Sud, e verso Est fino alla capitale dei Maurya, Pātaliputra (Patna). Talvolta spezzettato, talvolta riunito da una mano potente, rimane per due secoli sottomesso a dinastie elleniche. I principi greco-battriani e i principi indo-greci continuano senza interruzione a portare nomi puramente greci; incidono sulle loro monete caratteri greci, motivi greci, divinità greche; anche quando giustappongono la lingua greca e la lingua locale, mantengono intatta con orgoglio la purezza del loro nome: Lysias, Apollodotos, Nicias, Demetrios si accompagnano bene o male al titolo di maharaja. Zeus, Pallade, Poseidon, Apollo, Heracle testimoniano sulle monete la fedeltà di questi figli perduti ai culti della patria.

Tuttavia alcuni indizi tradiscono più di una concessione alla religione locale. Uno dei primi e forse dei più potenti eredi di Diodoto, Agatocle Dikaios (il Giusto), che conia delle stupende monete con l’effigie di Alessandro Magno e dei suoi immediati predecessori, che sceglie come simbolo personale uno Zeus in piedi, appoggiato su uno scettro e con una Ecate nella mano, ha lasciato in aggiunta uno strano pezzo, che si distacca nettamente per tutte le sue caratteristiche dal resto della sua monetazione. Ne esistono diversi esemplari, a Londra, a Oxford e nella collezione Cunningham. Il pezzo è in bronzo; non è quadrato o rotondo come tutte le altre monete della serie indo-greca, bensì triangolare, con un lato leggermente arrotondato, e forma una specie di quarto di cerchio mal disegnato; secondo Sallet, la cui competenza è fuori discussione, è direttamente tagliata dal lingotto. La stranezza della forma corrisponde alla stranezza dell’iscrizione e delle immagini. Unica, reca una legenda in caratteri indo-ariani, mentre le altre presentato solo legende greche, oppure, se vi associano la lingua indigena, quantomeno la scrivono in caratteri indiani. Sul diritto è inciso uno stūpa buddhista, formato da tre piani di piramide con gli angoli smussati; sulla cima della costruzione brilla una stella; sul rovescio un albero circondato da una recinzione di tavole incrociate, conforme alla tradizionale rappresentazione del bodhi-druma, l’albero ai piedi del quale il Buddha vide la verità suprema.

Ai piedi dello stūpa, il nome: Akathukreyasa, genitivo indiano del nome di Agatocle appena modificato dalla trascrizione; sotto l’albero del bodhi si leggono queste lettere: hidujasame.

L’utilizzo del nome regale senza l’accompagnamento di un titolo enfatico è contrario alle costanti usanze della monetazione indo-greca; lo stesso Agatocle si denomina in qualsiasi altro caso: basileuon, basileus e raja. Anche von Sallet, con l’istinto del numismatico e senza consultare la linguistica, traduceva coraggiosamente hidujasame con Re degli Indiani. L’analisi è impotente, bisogna ammetterlo, nel riconoscere nella parola gli elementi di tale interpretazione. M. Bendall, nel catalogo di Percy Gardner, spiega hidujasame più o meno come un equivalente del greco dikaios: “Just to those born on the Indus”, giusto per coloro che sono nati sull’Indo; e aggiunge in nota: same è il sanscrito samah (nominativo). Senza discutere la possibilità del nominativo in -e, ci accontenteremo di osservare la stranezza di una sintassi che costruisce un epiteto al nominativo con un nome al genitivo. Noi pensiamo che un’altra divisione delle lettere ci dia una spiegazione più corretta e più accettabile. Separiamo hidujasa e me, che sono entrambi genitivi come Akathukreyasa e traduciamo: Di me, Agatocle, Indiano per nascita. Le iscrizioni degli Achemenidi da una parte, quelle di Piyadasi dall’altra, ci hanno familiarizzato che questo frasario di cancelleria che fa parlare direttamente il sovrano. In epigrafia il genitivo richiama l’idea di donazione. Proponiamo quindi di interpretare questo pezzo come una sorta di medaglia commemorativa. Agatocle, sia per convinzione, sia per politica, avrebbe innalzato uno stupa e avrebbe rivendicato in tale occasione il suo essere Indiano, il che poteva renderlo popolare tra i suoi sudditi. Quale che sia d’altronde il valore della nostra opinione, la caratteristica buddhista del pezzo non è tuttavia al riparo da ogni contestazione.

Circa cinquant’anni dopo Agatocle, il simbolismo buddhista appare su una moneta del re Menandro. Menandro Soter, māharaja trādata, regna nel Punjab e conia soltanto monete bilingui. Pallade è la sua divinità preferita; talvolta la sostituisce con una testa di bufalo oppure di elefante, un leone, un treppiede, una palma; ciò non toglie che Atena resti senza rivali. Ma una moneta quadrata in bronzo reca un simbolo che la Grecia non saprebbe spiegare. La legenda: basileos soteros Menandrou, in lettere greche, incornicia una ruota con otto raggi; il retro riporta una clava con la legenda: māhārajasa trādatasa Menadrasa. La ruota è uno dei simboli preferiti del buddhismo, in quanto è il Buddha che ha fatto girare la ruota della legge; la si ritrova su tutti i monumenti, a Barhut, a Sanchi, a Buddha Gayā ecc. La casualità della classificazione ha affiancato a questa moneta, nel catalogo di Percy Gardner, un’altra che sembra completarne le indicazioni: Menandro dimentica qui il suo costante titolo di Soter, in indiano trādata, a favore dell’epiteto dikaiou, in indiano dhramikasa. La parola greca sembra essere qui la traduzione più letterale che esatta del termine indiano; dhramika, variante di dharmika, indica presso i Buddhisti un fedele della Buona Legge, Sad-Dharma, un ortodosso.
D’altra parte il buddhismo del re Menandro non è soltanto una congettura; è attestato e celebrato dalla tradizione buddhista. Un’opera del canone pāli, il cui originale presso i buddhisti del Nord è andato perduto, ha per oggetto: le domande di Menandro, Milinda-panho. Il re degli Yavana, Milinda, che regna a Sagala (presso Lahore), ama passare il suo tempo, degno erede in questo dei dialettici e dei sofisti, in dispute religiose. Sconfigge uno dopo l’altro i più famosi maestri, ma un giorno il santo Nāgasena giunge nella capitale, spiega al re la metafisica del buddhismo, dissipa i suoi dubbi, distrugge le sue obiezioni e Milinda, conquistato, si converte di buon grado. La Grecia stessa aveva percepito come una debole eco la gloriosa santità del re Menandro. Plutarco racconta che dopo la morte di questo sovrano le città si contesero il possesso del suo corpo, se ne divisero piamente le reliquie e le adorarono.

Moneta di Kaniska

 Agatocle e Menandro confermano la loro fede per mezzo di simboli; la loro ortodossia sembra rifiutare di trasportare nel buddhismo il gusto antropomorfico dei culti greci. È sulle monete degli Indo-sciti, inaspettati eredi della dominazione e della cultura greca, che si vede apparire per la prima volta l’immagine del Buddha. Se certo non è un artista greco che l’ha incisa, è per lo meno l’arte greca che la ispira. Su una delle monete di Kaniska, che sembra fondere in un eclettismo spensierato tutti i culti, tutti i dogmi e tutti gli dei, è rappresentato un personaggio in piedi, visto di fronte, con l’aureola, vestito con il chitone e l’himation, con la mano destra in avanti; la legenda scritta in caratteri greci alla sua destra riporta: Boddo. La convenzione non ha ancora fissato i tratti e l’atteggiamento di Shakyamuni; la figura non ha alcun rapporto con la tipologia classica. Un’altra moneta di Kanuka mostra invece quella tipologia. Il Buddha è seduto, visto di fronte, con le gambe incrociate, una mano posata sulle ginocchia, l’altra sollevata in alto; la legenda incompleta riporta: ...go Boudo.

I re greci non erano i soli ad abbracciare la nuova religione dell’India; singoli individui, abitanti in colonie disseminate sulla costa dalla foce dell’Indo al delta del Gange, la adottavano e la osservavano con lo stesso fervore. I meravigliosi templi ipogei di Karli, di Kanheri, di Junnar, di Nāsik, nei dintorni di Bombay, provano tuttora con le loro iscrizioni la compassione abile o sincera dei Greci insediati nella regione. Un Greco, Irila, aveva fatto scavare a sue spese due cisterne ad uso dei religiosi a Junnar; un altro, Cita, aveva fatto costruire un refettorio per la comunità. A Nāsik il Greco Idāgidata, figlio di Dhammadeva, nativo del territorio del nord, abitante a Damtāmiti, fa scavare una cripta nel monte Tiramnhu e fa innalzare all’interno un reliquiario (caitya-gŗha); inoltre fa scavare tre cisterne in onore di suo padre e di sua madre; insieme con suo figlio Dhammarakhito offre alla comunità una cripta, scavata in onore di tutti i Buddha. A Karli un Greco, Dheṇukākaṭā, Greco secondo la legge, dona al tempio una colonna con un capitello adorno di leoni. Lo stesso nome lo si ritrova a Kanheri associato al ricordo di altri atti di generosità.

Le predicazioni dei missionari continuavano tuttavia a diffondere il buddhismo al di fuori dell’India. Sotto il regno di Dutthagamani, re di Ceylon verso la metà del II secolo a.C., l’inaugurazione del Grande stūpa (Mahāthupo) attirò i monaci da ogni paese; ne arrivarono da Benares guidati dal thero Dhammaseno, da Shravasti guidati dal thero Piyadassi, e da Vaishali, da Kaushāmbi, da Pātaliputra e dal Kashmir; e dal paese dei Pallava (Pahlavas, Parti) giunse il grande saggio Mahādevo con quattrocentosessantamila monaci; e da Alasando, la città degli Yona (Greci) il thero Yona (Greco) Mahādhammarakkhito portò trentamila bhikkhu. Alasando è senza alcun dubbio Alessandria, sia che si tratti di Alessandria del Caucaso, oppure di Alessandria d’Egitto; l’astronomia indiana riserva esclusivamente a quest’ultima città il titolo di: città degli Yavana, e il Milinda-panho la cita tra i grandi porti commerciali.

Il re Menandro - Milinda
Una curiosa storia mostra la Grecia stessa affiancata all’India nella sua opera di proselitismo. Lo storico armeno Zenob di Klag racconta che all’epoca del re Valarsace due indiani, chiamati Gisané e Démètr, arrivarono da lui per chiedergli asilo; essi erano scappati davanti alla collera del loro sovrano Tinaskeh. Valarsace assegnò loro in usufrutto il paese di Daron, dove fondarono la città di Vishap. Poco tempo dopo si recarono nelle vicina città di Achtichtat e vi innalzarono degli idoli adorati in India. I loro figli innalzarono sul monte Karké due idoli in rame, uno alto dodici cubiti, l’altro quindici. La colonia indiana si sviluppò in modo straordinario e restò fedele alle sue divinità; secondo la testimonianza di Zenob il cristianesimo conquistatore nel IV secolo dovette impegnarli in dure battaglie per vincere la loro resistenza. Da lungo tempo Lassen ha riconosciuto in Gisané una trascrizione volgare di Krsņa (in pracrito kaņho, kasiņo), ma, fuorviato da un pregiudizio ingiustificato, voleva contro ogni evidenza riportare Démètr ad un termine sanscrito. L’accostamento di un nome greco e di un nome indiano in un’attività di propaganda in quell’epoca è conforme alla verosimiglianza e conferisce inoltre autorità al racconto di Zenob.

La pace romana, sviluppando il commercio e facilitando i viaggi, avvicinò ancora l’India e le sue credenze all’Occidente. Poco tempo prima della nascita di Cristo, Atene assistette allo strano spettacolo di un sarmana che, sazio delle gioie dell’esistenza, nudo e cosparso di profumi salì su una pira come un tempo aveva fatto Kalanos davanti all’armata di Alessandro. Le sue ceneri vennero deposte sotto un monumento che rimase famoso per molto tempo; il popolo, all’epoca di Plutarco, lo chiamava ancora comunemente: la tomba dell’Indiano. Esso recava un’iscrizione che Strabone e Plutarco lessero e copiarono entrambi: Ζαρμανοκηγας Ινδος απο Βαργοδης κατα πατρια Ινδων εθη εαντον απαθανιδας κειται; Zarmanochegas, Indiano di Bargose, avendo messo fine alla sua vita secondo gli usi della sua patria, giace qui. Lassen, che segue Wilson, spiega la parola zarmanochegas con çramanācārya, che difficilmente vi si ricollega. Forse la seconda parte della parola deve essere intesa come çākyo, e il nome va tradotto: monaco di çākya, monaco buddhista. Zarmanochegas faceva parte di una ambasciata più o meno autentica inviata ad Augusto da un principe indiano. È proprio da ambasciatori indiani inviati presso uno degli Antonini che Bardesane ricevette delle nuove informazioni sui buddhisti nel corso del II secolo.

Anche i grandi mandatari di Alessandria dovettero ricevere più di una volta la visita di monaci avventurosi, spinti fuori dalla loro patria dalla curiosità e dalla vocazione per la predicazione. Dione Crisostomo segnala la presenza, in Alessandria, di Battriani, Sciti, Persiani e anche di Indiani. Verso la fine del V secolo, quando il commercio di Alessandria con l’India era ormai da tempo entrato in crisi, un Romano che era stato console di Roma (nel 470) e che in seguito si era stabilito ad Alessandria, Severo, offriva ospitalità nella sua ricca casa a del brahmani che trattava con onore e che vivevano presso di lui secondo le proprie regole. Non mancava loro nulla per seguire le loro regole, ma evitavano con cura tutto ciò che era ad esse contrario. Se si pensa alle severe leggi che proibivano al brahmano ortodosso di lasciare il territorio dell’India sotto pena di decadenza, non si può dubitare che gli ospiti di Severo fossero dei buddhisti.

Si spiega così, con una lenta infiltrazione attraverso il mondo occidentale, la forza improvvisa della corrente buddhista che si manifesta nei primi secoli del cristianesimo. Le sorprendenti somiglianze tra il cristianesimo e il buddhismo sono state segnalate da molto tempo; l’analogia delle situazioni e delle idee non basta a spiegarle tutte; ce ne sono certe che esigono l’ipotesi di una influenza diretta. L’eresia dei Manichei è completamente impregnata di buddhismo; essa si sostiene con le sue radici su un terreno buddhista. Il maestro di Mani, Terebinto, assume il soprannome di Budda e asserisce di essere nato da una vergine; il maestro di Terebinto è Scitiano, il cui nome sembra una traduzione greca dell’indiano çākya (çāka = Scita); uno dei discepoli di Mani si chiama ugualmente Budda; infine la formula di abiura imposta ai Manichei dal cristianesimo maledice e aborre Zarade [Zoroastro], Bodda e Scitiano. La leggenda del Buddha finisce addirittura con il prender posto tra le vite dei santi (Barlaam e Josafat). La diffusione del buddhismo avveniva all’estero al tempo stesso attraverso le opere pie che ispiravano rispetto e simpatia, con le predicazioni dei missionari che non arretravano di fronte ai viaggi più pericolosi, e infine con l’azione dei cittadini ellenici stabilitisi in India e che dopo la conversione ritornavano nel loro paese d’origine.


Ma come spiegare il silenzio o l’ignoranza della letteratura, se il buddhismo è realmente penetrato tra le popolazioni elleniche? L’attitudine mentale generale del periodo greco-romano è essa sola responsabile di questa stranezza. Carichi delle conoscenze che i secoli precedenti avevano accumulato, oberati dalle produzioni dei loro predecessori, i letterati si dedicano a compilare piuttosto che a scoprire, a copiare invece di osservare. I sapienti compagni di Alessandro in India avevano raccolto una enorme scorta di annotazioni sul paese, il popolo, i costumi, la fauna e la flora che occupò tutto il resto dell’antichità. La conoscenza dell’India si fermò quasi subito dopo la sua scoperta; sei secoli di relazioni costanti aggiungono solo dei nomi e dei dettagli secondari alle informazioni di Aristobulo, di Nearco, di Tolomeo e di Megastene. Se la spedizione di Alessandro aveva trovato in India il buddhismo florido, le generazioni successive avrebbero forse aperto gli occhi sul suo sviluppo; ignorato fin dal principio, restò per così dire eternamente estraneo alla letteratura. Inoltre la propaganda buddhista si indirizzava senza dubbio alle classi inferiori dell’ellenismo, rivolte verso l’Oriente a causa della loro disposizione e dei loro gusti e travagliate da aspirazioni messianiche che solo il cristianesimo poté soddisfare. Isolate dalle profonde trasformazioni della società ellenica, disprezzate e messe in disparte, non trovavano tra i letterati degli interpreti o degli osservatori ben disposti. Il buddhismo, così poco favorevole alla letteratura in India, non era capace di provocare all’esterno un rinnovamento letterario; i missionari e i catecumeni sarebbero stati molto imbarazzati, per le manchevolezze nella loro predisposizione o nella loro educazione, nel dare un’espressione letteraria alle loro credenze e alle loro leggende. D’altra parte i principi metafisici del buddhismo non erano di natura tale da ostacolare il proselitismo; le masse che offrono alle religioni la loro forza e il loro punto d’appoggio più solido non si interessano molto ai problemi di alta filosofia; i Tartari e i Calmucchi adottando il buddhismo non ne hanno affatto criticato scrupolosamente i principi fondamentali. Il buddhismo portava all’oriente come all’occidente la commovente leggenda del suo fondatore, i suoi racconti edificanti semplici e toccanti e le sue massime universali d’amore e di carità. Era abbastanza per conquistare anche le anime greche. Se pure non arrivò affatto a trionfare, se scomparve dalla scena senza lasciarvi alcun ricordo, la politica e la geografia sono le sole responsabili del suo insuccesso. La frontiera terrestre era chiusa ad occidente dall’impero dei Parti, così spesso agitato dalle guerre e dalle discordie, ostile nei confronti dell’India e delle sue credenze. La via del mare era lunga e pericolosa; le navi compivano tra l’Egitto e l’India un solo viaggio all’anno. Nel momento in cui la scoperta di Hippalos aprì tra i due paesi delle relazioni più facili, era troppo tardi per il buddhismo; il cristianesimo aveva cominciato la sua opera di apostolato.


Da leggere:
Dialoghi del Re Milinda (Milinda-panha)
qui in una vecchia versione in italiano pubblicata in 3 volumi da Phoenix Ed. (Genova, 1980) 

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