In
una sua opera del 1991, Le religioni e la guerra, pubblicata
in Italia dalle Edizioni Il Melangolo
di Genova, Pierre Crépon, storico e
monaco zen, ha tracciato le linee essenziali del rapporto tra fede religiosa e
guerre nella storia dell’uomo, dedicando i diversi capitoli del libro all’Ebraismo,
al Cristianesimo, all’Islam, alle società tradizionali, agli Aztechi,
all’Induismo e al Buddhismo.
Quest’ultima
sezione – che qui interessa – si apre con la ormai consueta premessa secondo
cui il Buddhismo rifiuta quasi tutti gli elementi fondanti delle religioni classiche
(dogmi, figure messianiche o divine, rivelazioni ecc.) ed è quindi una Via indicata da un uomo agli altri uomini
per la soluzione del “problema della condizione umana”. Per poi riconoscere che
anche la dottrina originaria del Buddha “si
è sviluppata in una vasta corrente religiosa” (pag. 246), con le sue
filosofie, le sue istituzioni, i suoi riti e cerimoniali. Nulla di diverso,
quindi, da ciò che è accaduto ad esempio al Cristianesimo, il cui “fondatore”
non ha mai affermato di voler creare una nuova religione per sostituire quella
del suo popolo.
Nella
stessa pagina si legge poi una affermazione dell’A. secondo la quale la
pragmaticità del Buddhismo fa sì che esso “non
cerca di prendere posizione su argomenti di carattere generale” e pertanto
“il pensiero buddhista non [è] direttamente legato al problema della
guerra”. Ma con la guerra – quella
vera, non il suo concetto – il Buddhismo ha dovuto comunque fare i conti, a
partire da alcuni insegnamenti riportati nei Sutra, per arrivare soprattutto agli avvenimenti concreti della
storia e dell’attualità.
Dopo
aver dedicato alcune pagine all’etica del Buddhismo, fondata sulla tradizionale
dottrina indiana dell’ahimsa (la
non-violenza, anzi, l’assenza stessa del desiderio di uccidere), l’A. riconosce
che se ci si ferma agli insegnamenti morali si corre il rischio di proporre una
“visione idilliaca”, “ingannevole”, (pag. 251) del Buddhismo,
che non tiene conto del fatto che esso è divenuto col tempo “una potente corrente religiosa”
sviluppatasi in un gran numero di scuole e di tradizioni differenti.
Proponiamo
qui la lettura diretta di alcune pagine in cui l’A. parla dei rapporti storici
del Buddhismo “reale” con il potere nei Paesi in cui si è radicato:
“Come conseguenza del suo successo, la
diffusione del buddhismo fu accompagnata dagli inevitabili svantaggi legati
alla frequentazione del potere temporale [che presentava evidentemente
anche notevoli vantaggi…].
È così che le relazioni ad alto
livello tra i monaci e il potere reale, hanno potuto offrire talvolta la
copertura religiosa ad alcune imprese militari. È noto, per esempio, che il re
Anoràtha che proclamò il buddhismo religione ufficiale della Birmania nell'XI
secolo, intraprese una campagna contro i paesi vicini per impadronirsi delle
sacre reliquie.
D'altra parte, alcuni movimenti
d'insurrezione popolare si sono serviti di una terminologia buddhista per
garantire un fondamento mitologico alle loro rivolte. È, segnatamente, il caso
della Cina in cui periodiche insurrezioni, spesso fomentate da società
segrete, si rifacevano a un'escatologia che traeva la sua terminologia dal
buddhismo popolare. In modo assolutamente paradossale, l'insegnamento della
Via del Centro, assolutamente antitetica all'idea di Messia, ha dato origine
alla credenza nel ritorno di un buddha per l'avvenire, Maitreya o Mi-lo-fo, che
doveva discendere sulla terra per inaugurare una nuova era cosmica. Questa
credenza in una Parusia buddhista alimentava la speranza di masse di poveri e
diseredati, proprio come nell'Occidente cristiano. Numerose sollevazioni si
sono quindi appoggiate al culto di Mi-lo-fo, e numerosi capi ribelli hanno
dichiarato di esserne l'incarnazione (Song Tsu-hien e Hiang Hai-ming nell'VIII
secolo ad esempio). Constatiamo così la persistenza di alcuni tratti
ideologici che, al di là delle frontiere e delle culture, motivano le azioni
politiche.
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monaci zen... |
Nel corso della storia, i monaci
buddhisti stessi si sono a più riprese mescolati direttamente alla guerra. La
storia tumultuosa della feudalità giapponese, tra le cui fila il buddhismo
era rappresentato da un gran numero di sette, alcune delle quali strettamente affini
all'antico scintoismo, offre in particolare molti esempi in cui i monaci hanno
impugnato le armi per difendere i beni dei loro monasteri o per combattere le
sette rivali. Descrivendo in modo forse un po' eccessivo, il comportamento di
questi monaci-guerrieri del Giappone, G. Renondeau scrive: "Dimentichi
delle regole elementari del buddhismo quali il divieto di uccidere esseri
viventi, il disprezzo delle ricchezze e del lusso, si sono reciprocamente
attaccati, decimati, appiccati incendi, per rubare gli uni agli altri risaie,
campi e boschi; hanno dato l'assalto ai palazzi degli imperatori e degli
shogun obbligandoli ad accordare loro dei privilegi, soprattutto l'immunità
fiscale dei loro possedimenti; si sono mescolati alle guerre civili; hanno
fomentato essi stessi dei torbidi.
Sembra tuttavia che,
significativamente, queste imprese guerriere abbiano raramente fatto leva su
argomenti dottrinali: le motivazioni erano di ordine economico e accettate come
tali. Il comportamento bellicoso dei buddhisti in Giappone, e, in misura
minore, in Cina, ha sempre la sua causa nello sviluppo della potenza economica
dei monasteri, associata a un impoverimento spirituale. Così, il comportamento
guerriero all'interno del buddhismo sembra derivare da un certo pragmatismo
che accetta tutti gli elementi del mondo sociale, al punto che, nei periodi di
decadenza spirituale, pare preoccupato essenzialmente degli affari del mondo
materiale. Della Via del Centro predicata dal Buddha, che escludeva l'ascesi
forsennata e la ricerca del solo profitto materiale, i monaci buddhisti hanno
avuto talvolta la tendenza a conservare soltanto il rifiuto dell'ascesi. Per
contro, non si incontra praticamente nessuna traccia di fanatismo che
attingerebbe dalla dottrina buddhista la certezza che il diritto che si difende
sia quello voluto dagli dei; anche l'ideologia della guerra santa è del tutto
assente dal pensiero buddhista. Osserviamo a questo proposito che la setta
fondata da Nichiren nel XIII secolo in Giappone, e che si è sempre manifestata
attraverso un fanatismo e un militarismo ancor oggi evidenti (vedi l'influenza
odierna della Sòka-gakkai), è parente del buddhismo soltanto di nome e riflette
piuttosto l'ideologia scintoista e il nazionalismo marcato, inscritto nel carattere
insulare del Giappone”
(pag.252-254).
Già
a questo punto è possibile osservare che l’A. non porta argomenti forti a
favore della tesi che sembra percorrere il volume, quella della estraneità del
Buddhismo alle dinamiche belliche. Si vorrebbe cioè il Buddhismo “autentico” in
un certo senso “superiore” alle altre tradizioni, quantomeno “diverso”. Ma non
si può forse dire anche di esse che i loro rapporti col potere politico ed
economico ne hanno provocato il coinvolgimento nei conflitti armati, magari
giustificato ideologicamente a posteriori?
Ecco quindi cadere l’idea di ogni supposta diversità, a meno che non si voglia
paragonare il Buddhismo “ideale” col Cristianesimo o con l’Islam “reali”…
Metodo non corretto, ma sovente applicato nelle dispute ideologiche!
Nelle
ultime pagine Crépon afferma inoltre che:
“il contributo fondamentale della dottrina
buddhista al problema della guerra non si colloca tuttavia né nella prospettiva
dell'influenza della sua morale, né in quella degli sviluppi sociali che ha
conosciuto. In realtà, è nella sua stessa essenza che bisogna cercare la
risposta del buddhismo alla guerra; infatti il suo obiettivo è proprio quello
di trovare una soluzione al problema della sofferenza e della morte. E la
guerra non è forse il fenomeno umano che provoca la maggior quantità di
sofferenza e di morti?
Per Buddha — così come per tutti
gli autentici rappresentanti della Via buddhista, in particolare i maestri
dello Chan e dello Zen ai quali faremo principalmente riferimento —, l'origine
dei problemi dell'uomo risiede nello spirito che, stimolato dai desideri, si
mantiene nell'ignoranza e si smarrisce nelle illusioni. La soluzione di questi
problemi consiste dunque in un risveglio dello spirito che si manifesta con la
comprensione del carattere transitorio di tutti i fenomeni, in particolare di
noi stessi, e quindi della vanità dell'attaccamento a questi stessi fenomeni;
un proverbio dice: "Anche se amate i fiori, questi appassiscono, anche se
non amate le male erbe, queste crescono", dice un proverbio.
Così, il non-attaccamento,
l'abbandono dell'ego, caratterizzano il buddhismo. Tuttavia, a differenza
delle altre dottrine religiose in cui tali comportamenti sono predicati soltanto
in relazione ai beni materiali, il Buddha, da parte sua, non propone alcuna
entità spirituale che li sostituisca (né un Dio, né un Messia, né un Profeta,
né un Sé trascendente, ecc.). Oltre lo spirito non vi è nulla (la vacuità);
quando si sia realizzato questo, i problemi della vita, della sofferenza, della
morte scompaiono da soli, poiché la loro origine è la stessa: il nulla, il
vuoto” (pag.254-255).
Affermazioni
in buona parte condivisibili, ma che a chi scrive paiono comunque insufficienti,
specialmente alla luce di quanto accaduto – e tuttora accade – in alcuni Paesi buddhisti (ci si passi questa
espressione quantomeno ambigua). Insufficienti in quanto cercano di spiegare i
fatti concreti con cause esterne al Buddhismo, prima fra tutte la
contaminazione con il potere. Come se il potere fosse un elemento specifico del
mondo della politica o dell’economia, e non invece una espressione – non
necessariamente patologica – dei rapporti umani in quanto tali, e quindi presente
anche all’interno delle religioni o Vie che dir si voglia: nelle loro
istituzioni, nei monasteri, nei centri di pratica, nei rapporti personali, ad
esempio tra maschi e femmine, tra omo ed eterosessuali, tra laici e monaci, tra
giovani e anziani, tra maestri e discepoli, ecc.
Col
risultato di contrapporre un Buddhismo ideale, puro, “idilliaco” appunto, a
quello reale, storicamente “incarnato” nei praticanti, ad ogni livello,
d’Oriente e ora anche d’Occidente. Di spingere il praticante a credere di
vivere in una Dharmaland personale, alla ricerca di una propria “liberazione”.
Di fargli ritenere superate e ininfluenti “certe questioni”. Di presentargli
come uno sforzo inutile, se non addirittura controproducente, lo studio e la riflessione
sui fatti della storia di ieri e di oggi. Di proporgli una immagine distorta
della storia di quella tradizione cui si vuole “appartenere”.
Di
tali contraddizioni ci pare si possa cogliere un esempio nella citazione già
riportata, secondo la quale la Soka-gakkai
non farebbe parte delle tradizioni buddhiste, in quanto è “parente del buddhismo soltanto di nome e riflette piuttosto l'ideologia
scintoista e il nazionalismo marcato, inscritto nel carattere insulare del
Giappone”. Come se vi fossero nel Buddhismo delle “autorità” preposte (da
chi?) all’attribuzione di un qualche marchio DOC alle varie scuole… D’altra
parte, è la stessa cosa che molti praticanti delle altre tradizioni dicono
dello Zen!
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Samurai |
A
mo’ di conclusione, Crépon ricorda infine un famoso aneddoto sulla vita del
maestro zen Taisen Deshimaru: durante la seconda guerra mondiale, “mentre stava viaggiando su un battello che
trasportava esplosivo, il convoglio di cui faceva parte fu attaccato da
sottomarini nemici. Di fronte al pericolo di un'esplosione molti marinai si
gettarono in acqua, nella più grande confusione. La sua reazione fu di sedersi
assumendo una posizione di meditazione buddhista e accettare nel suo spirito
la possibilità di morire, se era venuto il momento. Alla fine il suo battello
non venne colpito, ma un buon numero di quelli che, in preda all'agitazione,
aveva abbandonato la nave, non fu più ripescato. Un simile comportamento è
indicativo dell'atteggiamento buddhista: avendo risolto il problema della
sofferenza e della morte con l'aver preso coscienza che ogni cosa è vacua,
l'uomo risvegliato conserva il suo spirito stabile e calmo anche se
l'inesorabile macchina del karma provoca i sommovimenti più violenti.
La realizzazione di un tale stato
d'animo trova il suo migliore esempio nel famoso Bushido, la Via del Guerriero
(Bushi = guerriero, Do = via) dei samurai giapponesi. Il Bushido è il
risultato dell'influenza del buddhismo-zen sulla casta dei guerrieri in
Giappone. Quando lo Zen penetrò nel arcipelago nipponico, il paese era infatti
in preda a lotte perpetue, e i samurai costituivano una casta molto attiva. Da
alcuni secoli, lo Zen aveva già sviluppato in Cina alcune tecniche di lotta a
mani nude perché i monaci, che non potevano portare armi, potessero difendersi
contro gli attacchi dei banditi che infestavano le grandi strade. Tuttavia, la
grande influenza dello Zen sui samurai fu quella di trasformare le loro tecniche
guerriere in uno strumento di ricerca di se stessi. Così, la sciabola o l'arco
divennero supporti per la meditazione, e la Via della sciabola, il Kendo, o la
Via dell'arco, il Kyudo, gli strumenti privilegiati attraverso i quali i
samurai trasfiguravano il loro combattimento materiale in combattimento
spirituale.
Per questo motivo, tutti i grandi
trattati di arti marziali giapponesi, come tutte le storie relative ai grandi
maestri di combattimento, si riferiscono sempre al problema dello spirito.
Nella lotta mortale che oppone due guerrieri del Bushido, l'essenziale
concerne lo stato d'animo. In quel momento, cioè di fronte alla morte, colui
che conserva l'animo calmo ha vinto la paura di morire, e ha perciò sconfitto
il suo maggior nemico. Più ancora della sua tecnica, il samurai deve sempre
tener presente la transitorietà di ogni cosa: si può dire, in ultima istanza,
che non ha avversario, lui e il suo avversario non sono che una e medesima
cosa, perché "è in noi che si trovano la radice, l'origine della vita e
della morte" (insegnamento del maestro Daishi al samurai
Kikuchi).
Per cogliere l'autentico
obiettivo del Bushido giapponese e misurare fino a che punto il buddhismo Zen
ha segnato con la sua impronta la condotta dei guerrieri, la cosa più convincente
è, d'altronde, rifarsi al testo di Miyamoto Musachi, il Gorin-no-Sho (Scritto sulle cinque vie). Musachi, che visse alla
fine del XVI secolo, è stato il più celebre samurai del Giappone. Concluse
vittoriosamente una quantità innumerevole di combattimenti, e approfondì per
tutta la vita il Bushido sempre rispettando il precetto: "Bisogna venerare
i buddha e le divinità, ma non far conto su di loro". Terminò la sua
opera, scritta all'avvicinarsi della morte, per consegnarvi il suo insegnamento
con frasi inconsuete sulla bocca di un guerriero: "Fintanto che non si
conosce la Via autentica, ciascuno crede di avanzare sulla buona via e crede
di essere nel vero senza appoggiarsi alle leggi del Buddha né sulle leggi
della terra. Ma, quando noi li guardiamo con gli occhi della Via autentica
dello spirito, e secondo le grandi regole del mondo umano, li si vede tradire
la Via autentica a causa del loro egoismo e della miopia. Conoscete lo Spirito!
Riposatevi sul dominio sinceramente giusto! Fate dello Spirito reale la Via!
Praticate largamente la Tattica! Non preoccupatevi che della giustizia, della
chiarezza e della grandezza! Fate del vuoto, la Via! E considerate la Via come
Vuoto!” (pag.
258-260).
Che
dire? È quantomeno curioso il fatto che il libro termini proprio con citazioni
e aneddoti sul Bushido, (la Via del Guerriero),
sulle arti marziali, sui Samurai, una vera e propria casta specificamente
dedita alla guerra, che ha utilizzato strumentalmente le pratiche del Buddhismo
trasformandole in tecniche – raffinate finché si vuole – per vincere il timore
della morte, mettendosi al servizio di quel potere politico la cui
frequentazione era stata poco prima descritta come causa dei frequenti
coinvolgimenti dei buddhisti in guerre ed episodi di violenza.
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Rambo e il Buddha |
In
tal modo, non si fa che rafforzare il mito dell’Eroe senza macchia né paura,
per il quale la guerra e la violenza sono degli accidenti inevitabili anche se
terribili, che vengono però giustificati o addirittura sublimati in una ricerca
spirituale (la lotta contro il nemico interiore, la cerca del Graal o del vero
Sè, l’uccisione del Drago,…) che non comporta necessariamente l’abbandono delle
armi e dell’uso della violenza nella soluzione dei conflitti.
Ciò che è avvenuto per i Samurai, i Templari, l’Ordine Teutonico, i Cavalieri
Jedi o per figure come Achille, San Giorgio, Arjuna, Sigfrido, Parsifal… O per l’archetipo
dell’Eroe delle guerre asimmetriche, quel Rambo che all’inizio del terzo film a
lui dedicato si vede vivere in cerca della pace interiore in un monastero
thailandese, tra i monaci buddhisti ai quali dona il ricavato degli incontri di
lotta cui occasionalmente partecipa...
In
ultima analisi, è parere di chi scrive che il volume manchi il proprio
obiettivo, in quanto lungi dal dimostrare una così profonda “differenza” del
Buddhismo sulla pratica della violenza e della guerra, presenta argomentazioni
che possono essere invece applicate a qualsiasi tradizione.
Inoltre,
se l’autentica tradizione buddhista non si pone di fronte alla guerra come “problema”
in quanto non è una religione, non vuole o non può comunque proporre nessuna
“soluzione” se non la realizzazione della vacuità
dei fenomeni, che l’A. vede “incarnata” nell’atteggiamento eroico di una classe
di guerrieri verso la paura del dolore e della morte.
Quella
vacuità di cui egli dice – in maniera quanto meno approssimativa – essere il
“nulla” oltre lo spirito, il “nulla” da cui trae origine ogni problema, ogni
sofferenza. Una visione nichilista della vacuità che le scuole buddhiste concordemente
rifiutano.
Come
dicevano i Padri romani, ex nihilo nihil fit, nulla viene dal
nulla.
Da leggere:
Pierre Crépon, Le religioni e la guerra, Ed. Il Melangolo - Genova