Già un
migliaio di anni prima di Cristo, durante il regno ebraico di Salomone, i
contatti tra il mondo mediterraneo e il sub-continente indiano erano relativamente
frequenti e costanti, grazie a mercanti, navigatori, soldati, esploratori,
ambasciatori. Inoltre, già nel V sec. a.C. esistevano in India importanti
colonie greche. Nei Vishnu Purana[1] è detto che “a est di Bharata [l’India] vivono i Kirata e a ovest gli Yavana”
chiamati Yona dalla letteratura
buddhista. Il che dimostra che i Greci erano ben conosciuti nell’India del V -
VI sec. a.C.
I termini che designano i Greci dell’India, Yona e Yavana, derivano direttamente dal nome Ioni, con cui venivano chiamati i Greci che abitavano le coste e le
isole dell’Asia Minore (l’attuale sponda egea della Turchia).
Dal punto di vista occidentale, è poi vero
ciò che afferma lo studioso tedesco Helmuth Von Glasenapp, secondo il quale “in Occidente i primi ad avere cognizione
della filosofia indiana furono i greci”[2].
Il primo a “delineare l’India come precisa entità geografica”[3] fu il greco Scilace
di Carianda, che nel VI sec. a.C. – il periodo in cui visse forse il Buddha
Shakyamuni – compì un viaggio fino alla foce dell’Indo per conto del re di
Persia Dario I. Nella sua opera intitolata Periplo
usò per la prima volta la parola India,
dal nome sanscrito del fiume, Sindhu.
L’autore che ci consente di capire con maggior
precisione che cosa i Greci effettivamente sapessero dell’India è però lo
storico Erodoto (V sec. a.C.), che
fornì informazioni di probabile fonte persiana intorno alle tradizioni
religiose degli Indiani, fino ad allora sconosciute: essi “non uccidono alcun essere vivente, non coltivano piante, non esiste la
proprietà privata, si nutrono solo di leguminacee cotte e non si danno cura di
chi di loro cada ammalato o morto. Nulla di quanto qui scrive pare esagerato né
inesatto: lo storico si riferisce proprio ai sādhu, gli asceti indù”[4].
Anche Ctesia
di Cnido scrisse intorno all’India a partire dal 397 a.C., dopo essere
stato medico personale di Artaserse II, e descrisse vari fenomeni fantastici,
tra cui la formazione di un “siero della verità” che avviene a primavera,
condensandosi dalla rugiada. Un’interpretazione simbolica del siero potrebbe
rimandare al soma, la bevanda dell’immortalità della tradizione indù,
utilizzata nei cerimoniali vedici ma mai identificata con certezza[5].
Quanto alla filosofia, si dice che Platone avrebbe
progettato un viaggio in India mai realizzatosi, mentre invece Democrito vi si
sarebbe effettivamente recato…ma si tratta di voci quasi certamente prive di
valore storico, anche se cercano di dare un fondamento concreto a reali
influenze culturali.
Più degna di fede è la notizia dell’incontro tra Socrate e un saggio indiano: “il filosofo ateniese, interrogato sulla
materia della sua ricerca, avrebbe risposto che il suo compito consisteva
nell’investigazione dell’umano. A questa risposta risuonava la fredda replica
dell’indiano: Ma nessuno è capace di capire l’umano senza conoscere il divino”[6]. Un evento forse
mai accaduto, ma comunque significativo.
Anche di Pitagora
diversi autori (Erodoto, Apuleio, Clemente Alessandrino) dicono che si sia recato
in India, e sebbene il fatto non abbia serie basi storiche il motivo di questa
voce è evidente, e lo si ritrova proprio in un aspetto fondamentale del
pensiero del filosofo di Samo (570-495 a.C.~):
la dottrina della metempsicosi, la
cui diffusione in India era ben nota tra i Greci.
Pitagora
poneva a fondamento della propria scuola (che era insieme filosofica, religiosa
e politica) una visione dell’uomo e del mondo molto simile a quella di varie
tradizioni indiane.
Secondo
Pitagora – che molto probabilmente, come il Buddha, Socrate e Cristo non
scrisse mai nulla – l’anima sopravvive dopo la morte del corpo, e trasmigra continuamente
in altri corpi: in questo senso si parla quindi di metempsicosi, termine composto da μετα (meta, preposizione
che indica passaggio) + εν (en, dentro) + ψυχη (psyke, anima, soffio vitale)[7]. Il corpo è per
l’anima una prigione, di cui essa ha bisogno per provare sensazioni. Ma al di
fuori del corpo l’anima vive in un mondo superiore, al quale accede dopo la
morte solo se si è purificata durante la vita corporea. La catena delle trasmigrazioni cessa quindi solo dopo la purificazione
dell’anima stessa, che per i pitagorici era il frutto dell’attività teoretica e
non, come per altre sette simili, il risultato di riti e pratiche propiziatorie[8].
La filosofia
di Pitagora era quindi una vera e propria disciplina spirituale, basata sulla
non-violenza, sulla rinuncia, su una alimentazione vegetariana[9], e sostenuta
altresì da una comunità di persone motivate dalle stesse finalità. I suoi
discepoli erano divisi, come in molte comunità spirituali indiane, tra gli “acusmatici”, cioè gli ascoltatori (non
si può non pensare agli śrāvaka del
Buddhismo) e i “matematici”, che
erano ammessi agli insegnamenti più profondi. Gli insegnamenti erano infatti di
ordine essoterico, ovvero rivolti a
tutti, oppure esoterico, destinati invece
alla cerchia degli iniziati. Pitagora era quindi molto simile ad un guru, il maestro spirituale delle
tradizioni indiane.
Una
tradizione del I sec. a.C. sosteneva che “i
cinque principali indirizzi filosofici che per primi fecero la loro comparsa in
Grecia sarebbero delle semplici variazioni delle culture dei cinque principali
popoli orientali”[10], secondo questo
schema: il sistema pitagorico sarebbe nato dalla sapienza cinese, il sistema
parmenideo da quella indiana, l’eracliteo da quella persiana, la scuola di
Empedocle da quella egiziana, la filosofia di Anassagora dal giudaismo. Tale
interpretazione è sicuramente superata, anche perché non renderebbe conto delle
peculiarità della filosofia greca rispetto a quella orientale e non terrebbe
nemmeno in considerazione le profonde differenze esistenti tra le scuole delle
diverse regioni citate (Egitto, India, Cina, Persia ecc., nonché all’interno di
ogni singola cultura). È però indiscutibile la derivazione orientale di alcune
specifiche dottrine, come nel caso sopra esposto dell’interpretazione
pitagorica della filosofia come soteriologia, come via di salvezza e
liberazione, e della dottrina della metempsicosi.
Una dottrina
che fu successivamente lodata e ripresa da Platone (428-348 a.C.~)
ad esempio quando nel dialogo Fedone
parla delle anime non purificate, distaccatesi dal corpo “contaminate e immonde” in quanto rimaste sempre “unite e asservite ad esso e di esso
innamorate”. Queste anime, dice Platone per bocca di Socrate, “sono costrette ad andare errando attorno a
questi luoghi [sepolcri e monumenti funebri], scontando la pena della loro passata esistenza malvagia. E se ne
vanno errabonde fino al momento in cui, per il desiderio di quell'elemento
corporeo che tien dietro a loro, non vengano legate di nuovo ad un corpo [..].
Ecco qualche esempio: quelle che si
abbandonarono ai piaceri dell'ingordigia e alle dissolutezze e alle ubriachezze
e non ebbero alcun ritegno, è verosimile che entrino in forme di asini e di
altre bestie del genere [..].
Invece, quelle che preferirono ingiustizie,
tirannidi e rapine, è verosimile che entrino in forme di lupi, avvoltoi o nibbi
[..].
E, anche per le altre anime, non è chiaro
dove ciascuna di esse debba andare, secondo la somiglianza delle abitudini che
ebbe nella sua vita? [..]
E allora, non saranno forse i più felici e
non andranno nei luoghi migliori coloro che praticarono la virtù civile e
politica, quella che chiamano temperanza e giustizia, quella che nasce dal
costume e dall'esercizio, senza filosofia e senza conoscenza? [..]
È probabile che costoro trapassino in un
genere di animali socievoli e mansueti come loro, per esempio in api, in vespe
o in formiche, oppure anche, di nuovo, nel genere umano, e che si rigenerino da
costoro uomini probi”[11].
![]() |
Alessandro |
“Nel 327 a.C. iniziò una nuova fase
nella quale i rapporti fra oriente e occidente e le conoscenze del mondo
indiano ebbero un considerevole incremento: la spedizione del più grande
conquistatore di tutti i tempi avvicinò questi due mondi come prima non si
sarebbe mai creduto possibile”[12].
Alessandro, figlio di Filippo II, sovrano del regno
greco di Macedonia, intraprese infatti una grande spedizione verso oriente, con
l’intento di conquistare il mondo, fondando un impero insieme militare e
culturale. A tal fine c’erano con lui, oltre ad un esercito di 40.000 uomini,
anche numerosi scienziati, storici e filosofi.
Ma ancor prima di Alessandro, si dice che
anche il dio Dioniso (Bacco per i Romani) abbia compiuto una spedizione
in India, intorno alla quale scrisse Arriano (II sec. d.C.). Ivi egli
fondò città e diede loro delle leggi; fece dono agli Indiani del vino, come
aveva fatto con i Greci; insegnò a seminare e ad arare la terra con i buoi. “Insegnò loro a venerare diversi dèi e in
particolare lui stesso suonando cembali e timpani; fece loro imparare la danza
dei Satiri”[13],
il kordax; mostrò come farsi crescere
i capelli in onore della divinità…
Dioniso era il dio al centro del culto
chiamato Orfismo (da Orfeo, sacerdote del culto stesso). Non era
una divinità originaria della Grecia, bensì della Tracia (tra le attuali
Grecia, Bulgaria e Turchia Europea). Era quindi estraneo al pantheon dell’aristocrazia greca, ma
molto più vicino alle classi popolari, il che spiega le sue caratteristiche
“democratiche” e libertarie.
![]() |
Orfeo e gli animali |
Centrale nell’Orfismo – che sta probabilmente
alla base delle concezioni pitagoriche – è la concezione della necessità per
l’uomo di trasmigrare da un corpo ad un altro (non necessariamente umano), fino
a raggiungere la perfezione spirituale. Il corpo è una sorta di prigione in cui
l’anima è racchiusa a causa delle sue colpe, ma è anche ciò che le permette di
evolversi. La via della salvezza non consiste in una astratta contemplazione del
divino, ma negli slanci frenetici, fisici e spirituali, che preparano l’unione
effettiva col dio. L’Orfismo ha addolcito gli aspetti più estremi di altre
forme del culto dionisiaco, ha sostituito le danze orgiastiche e l’uso rituale
del vino e della carne con offerte di vegetali e di incenso e con danze e canti
liturgici.
Questi aspetti più o meno estremi del culto
dionisiaco hanno permesso ad alcuni studiosi di collegare la figura di Dioniso
a quella del dio indiano Śiva e al culto śivaita, fino a far parlare di
Dioniso come di uno Śiva occidentale[14].
In effetti sono déi accomunati da infiniti elementi: le sembianze fisiche, i
capelli lunghi, l’abbigliamento “selvaggio” o la completa nudità, l’uso rituale
di sostanze inebrianti, l’utilizzo di strumenti musicali, soprattutto a
percussione, per raggiungere stati di trance
mistica e, non ultima, una sessualità vissuta con finalità di ordine
spirituale. Dioniso e Śiva rappresentano le energie naturali, sono déi della
natura: mostrano all’uomo i metodi per conoscere se stesso (Śiva è il Signore
dello Yoga) e per comunicare
con tutti gli esseri viventi: gli animali, anche i più feroci, ascoltano rapiti
e pacificati la musica del sacerdote dionisiaco Orfeo, e quanto a Śiva, egli è
detto Paśupati, Signore degli animali.
Dioniso, si è detto, ha insegnato agli
Indiani la danza sacra dei Satiri[15] che porta
all’unione col dio. E Śiva è anche Nataraja,
il Signore della danza, manifestazione dell’energia ritmica primordiale da cui
Tutto ha origine.
Molti secoli dopo, in Germania, Friedrich
Nietzsche scriverà: “Potrei credere
solo a un dio che sapesse danzare”.
Tornando ad Alessandro e alla sua
spedizione, dopo lunghe marce e battaglie raggiunse l’attuale Kandahar, oggi in
Afghanistan. Entrò poi nella valle di Kabul e qui fondò insediamenti greci che,
molto tempo dopo, avrebbero avuto profonda influenza nella storia del
subcontinente indiano. Ricevette anche la visita di un giovane rifugiato dal
regno di Magadha, nel nord-ovest dell’India, vicino al regno della dinastia
Shakya, che dette i natali a Siddhartha Gautama, il Buddha. Il nome del giovane
era, pronunciato alla greca, Sandrokottos, ma si trattava di Chandragupta, il
futuro fondatore dell’impero Maurya.
Un interessante aneddoto narra che il figlio
di Chandragupta, Amitrocate (Amitraghàta, meglio conosciuto come Bindusàra,
320-272 a.C.~) pregò Antioco
Sotèr, sovrano di un regno dell’Asia Minore, di mandargli vino dolce, fichi
secchi e un sofista greco. Antioco gli rispose però che avrebbe dovuto
rinunciare a quest'ultimo perché, secondo la legge greca, non era permesso
vendere sofisti. Il che dimostra che in India si aveva qualche nozione di
filosofia greca…
![]() |
Alessandro e i gimnosofisti |
L’esercito di Alessandro attraversò poi
l’Indo su un ponte di barche e giunse a Taxila, grande centro commerciale dove
convivevano le tre grandi tradizioni spirituali dell’India dell’epoca:
Brahmanesimo, Buddhismo, Jainismo. Lì il re incontrò i gimnosofisti (da gymnòs,
nudo; quindi i sapienti nudi): asceti di diverse scuole, che avevano rinunciato
al mondo per ricercare la liberazione, monaci, yogi, śramana. Cercò di
convincere uno di loro, Dandamo, a seguirlo insieme al gruppo dei filosofi
greci, ma questi rifiutò dicendo al grande re: “Perché hai viaggiato tanto? Io ho tanta terra quanta ne hai tu o
chiunque altro. Anche se possiedi tutti i fiumi, non puoi bere più di me.
Apprendi da me questa saggezza: non desiderare nulla e tutto sarà tuo.”
Alessandro non fu fermato da queste parole, ma il filosofo Pirrone, che
era con lui, ne rimase certamente colpito: quando tornò in Grecia fondò infatti
la prima scuola degli Scettici (da sképsis,
indagine), nella quale si ritrovano alcuni punti di contatto con la
spiritualità indiana: ad esempio, il raggiungimento della pace interiore
attraverso la sospensione di ogni giudizio, il rifiuto di ogni dottrina, la in/differenza nei confronti di ogni cosa
(atarassìa).
Alessandro non penetrò nell’India come la
intendiamo oggi, non giunse nemmeno alla pianura del Gange, ma si fermò nel
Punjab e di lì iniziò il viaggio di ritorno, in quanto il suo esercito si era
molto indebolito. Ma non rivide più la Grecia: infatti morì a Babilonia nel 323
a.C., a 33 anni. Qualche tempo prima, l’asceta jaina Calano (il “virtuoso”)
aveva accettato di seguirlo, ma si era subito ammalato. Dopo aver rifiutato le
cure dei medici greci, ritenendo che fosse meglio morire piuttosto che vivere
al di fuori delle regole di condotta che egli stesso aveva scelto, salì da solo
sul rogo funebre, dicendo ad Alessandro: “Ci
rincontreremo a Babilonia”. E così avvenne…
La spedizione di Alessandro diede origine
nell’India settentrionale a diversi Regni ellenistici (almeno 36), che
durarono fino al 10 d.C., e la cui presenza rafforzò ulteriormente il rapporto
e lo scambio linguistico, religioso, filosofico, artistico, scientifico, tra i
due mondi. Ne derivò una forma di cultura indo-greca la cui influenza è
visibile ancora oggi, sia nell’arte sia in antiche tradizioni dei popoli di
quei luoghi[16].
Il più famoso dei re indo-greci fu senza
dubbio Menandro I, il quale regnò su un vasto territorio dell’attuale
Punjab verso la metà del II sec. a.C.
Oltre che dagli storici greci, è ricordato
anche nella letteratura buddhista con il nome di Milinda, che ricorre già
nel titolo di un fondamentale testo del buddhismo più antico, il Milindapaňha, ovvero Le domande
di Milinda. Si tratta di una serie di dialoghi, paragonabili ai dialoghi
platonici, tra il re Menandro/Milinda e un monaco buddhista, Nagasena, di cui
non si sa null’altro. Nell’opera vengono toccati un po’ tutti gli argomenti
degli insegnamenti del Buddha, con il probabile scopo di creare un testo utile
alla diffusione del buddhismo anche nella stessa Grecia. Alla fine del VII
libro dell’opera si legge che Milinda, dopo i lunghi colloqui con Nagasena, “cessò dall’aver dubbio alcuno nelle Tre
Gemme”[17],
“divenne pieno di fiducia e libero di
brame e tutto il suo orgoglio e presunzione lasciarono il suo cuore” e si
dedicò ad una sincera pratica del Dharma.
Lasciò il regno al figlio e “abbandonando
la vita sotto un tetto per una condizione senza tetto, divenne grande in
introspezione e raggiunse lo stato di arhat”[18].
La conversione di Milinda non è un fatto
storicamente accertato, e i libri del Milindapaňha
dal IV al VII sono stati probabilmente aggiunti al testo originario nel IV sec.
d.C.[19], ma resta il
fatto che Menandro/Milinda fu “esperto di
tutte le arti e delle scuole di pensiero indù, un vero ‘filosofo in armi’ […e] questa informazione è una prova della
conoscenza da parte della classe dirigente greca della realtà culturale con la
quale era ormai da secoli a contatto”[20].
Ma la filosofia buddhista “non arrivò affatto a trionfare, [..]
scomparve dalla scena [occidentale]
senza lasciarvi alcun ricordo”[21], per motivi
soprattutto politici e geografici: “la
frontiera terrestre era chiusa ad occidente dall’impero dei Parti, [..] ostile
nei confronti dell’India e delle sue credenze. La via del mare era lunga e
pericolosa”[22].
Così l’Occidente rimarrà nuovamente chiuso alle dottrine spirituali dell’India,
e il nome del Buddha verrà citato solo alcune volte nell’arco di molti secoli.
Sarà il cristianesimo a rispondere alle esigenze spirituali e alle aspirazioni
di salvezza delle masse di Roma e della Grecia. Per San Girolamo, la tradizione
secondo cui il Buddha sia nato dal fianco di una vergine sarà solo una pretesa
dei gimnosofisti[23], e nel Medio Evo
la natività di Cristo nella sua unicità e storicità verrà contrapposta alle
favole “dei bragmani [sic] sulla nascita di Budda, fondatore della
loro setta”[24].
Prima di questo, però, non si può non parlare,
proprio in merito alla ulteriore presenza di elementi della spiritualità
indiana nella filosofia classica occidentale, del pensiero di Plotino
(nt. in Egitto nel 203 d.C.~), principale rappresentante del neo-platonismo,
una scuola che fu “l’ultima manifestazione
del platonismo nel mondo antico”[25] e che fuse
elementi pitagorici, aristotelici e stoici col platonismo stesso. In tal modo
il neo-platonismo, che influenzerà moltissimo la filosofia medioevale, arrivò a
giustificare un atteggiamento religioso, secondo cui la verità come tale non va
ricercata, in quanto già rivelata e garantita dalla tradizione.
Dopo aver vissuto ad Alessandria, città tra
Oriente e Occidente, vero e proprio melting
pot dell’antichità, Plotino partecipò alla spedizione dell’imperatore
Gordiano III contro i Sasanidi, al fine di conoscere le dottrine dei Persiani e
degli Indiani, quindi si trasferì a Roma, dove fondò la sua scuola.
Maestro di Plotino fu il fondatore stesso del
neo-platonismo, Ammonio Sacca (175-242 d.C.~), il quale non
risulta abbia mai scritto alcunché. Secondo alcuni il suo nome è la
grecizzazione di Shakya-Muni [se
letto come Sacca-Ammonio], ovvero asceta
degli Shakya, uno degli epiteti
del Buddha storico: per cui Plotino sarebbe stato il discepolo di un monaco buddhista!
Fatto storicamente non impossibile, anche se è più probabile che Sacca sia la lettura greca di Saka, termine che designava le
popolazioni indo-scite dell’India del
Nord. Egli fu comunque un uomo estremamente vicino al mondo indiano, la cui
filosofia – in particolare quella delle Upanişad[26] – influenzò
sicuramente Plotino e il neo-platonismo[27].
“L’espansione
dell’impero aveva convogliato a Roma [..] una serie di credenze astrologiche,
di pratiche teurgiche[28] e di appelli a
esperienze mistiche che Plotino accolse ricodificandole in una costruzione
filosofica [..] che consentisse di approdare all’ineffabilità dell’Uno
originario, rispondendo all’esigenza di unità espressa nella cultura greca da
Parmenide, da Pitagora, da Platone”[29].
Per Plotino l’Uno è origine della materia, non in base ad un principio
creazionistico (in quanto ex nihilo nihil
fit), ma per emanazione: la
materia è l’estremo limite della luce che emana dall’Uno, e che l’Uno non può
non emanare. In questo Plotino si richiama alle dottrine indiane, per le quali
il cosmo è emanazione del Brahman,
non è il risultato di una creazione bensì incessante manifestazione del
Principio Primo. La materia è per Plotino inganno, illusione, come la fonte
nella quale Narciso si rispecchia. E non a caso in una delle Upanişad è detto: “Ci si riflette nel corpo [quindi nella materia] come in uno specchio”.
Ma la materia, il mondo, non sono per questo
da disprezzare: Plotino afferma chiaramente che “chi dunque disprezza la natura del mondo non sa quello che fa e fin
dove giunga la sua impudenza”, facendo eco così alle esortazioni upanişadiche
secondo cui il cibo, anna,
rappresenta la vita divina che fluisce nel cosmo, e ugualmente il mondo e
l’esperienza umana che vi si svolge non vanno rifiutate, in quanto immagini del
divino.
Altrettanto vicina alle concezioni
tradizionali indiane è la visione di Dio. Per Plotino il nome meno inadeguato
per indicarlo è Uno: Dio è unità
(Plotino non è però monoteista, anzi difende il politeismo!), ma è soprattutto esclusione della molteplicità. Al di là
di questo Dio è ineffabile: nelle Enneadi,
la sua opera pubblicata dai discepoli, l’Uno è spesso indicato come ού τόδε ού
τοΰτο (non questo, non quello); non diversamente, nell’antica India risuonava
sovente il richiamo dei sapienti vedici: “Neti!
Neti!”, non questo! non questo![30]
Già alcuni secoli prima, in Cina, il mitico
Laotse aveva scritto nel Tao Te Ching:
Il
Tao di cui si può parlare
non
è l’eterno Tao.
Il
nome che può essere nominato
non
è l’eterno nome.
Il
senza nome è l’inizio del cielo e della terra
Il
nominato è la madre di tutte le cose.[31]
La concezione neo-platonica del Dio come trascendenza, come causa ma non come
creatore, come Uno ineffabile – il che segna l’atto di nascita in Occidente
della teologia negativa – non può necessariamente portare a concepire l’Uno
stesso come salvatore dell’uomo e del
mondo, né direttamente né mediante un “intermediario”: l’Uno è amato dal mondo,
ma non ama il mondo: dona ad esso il bene con la stessa necessità con cui la
luce illumina le cose, o con cui un profumo si diffonde ovunque.
È l’uomo che si ri/volge all’Uno da cui era
disceso, che è attratto da esso, che vi si dirige spogliandosi della propria
mondanità e umanità: “non è quindi al
cristianesimo, ma all’insegnamento delle Upanişad [..] che si rifà l’ascesi di
Plotino come itinerario dell’anima per il ricongiungimento con l’Uno. In questo
itinerario, che è tanto un’ascesi quanto un’ascesa, l’anima si risveglia dal
sogno che l’aveva portata nel mondo. In ciò è la sua resurrezione che, precisa
Plotino contro il cristianesimo, è ‘dal corpo e non col corpo’, perché
risorgere col corpo equivale a cadere da un sogno all’altro”[32].
Il ritorno
dell’uomo all’Uno avviene per Plotino attraverso la bellezza, l’amore e l’estasi, momenti progressivi di una via
evolutiva che è in realtà il percorso dell’uomo verso la propria interiorità. “La bellezza consente di passare
dall’immagine sensibile all’idea universale di cui l’immagine è rivelazione”[33]. Nello stesso
modo opera l’amore, Eros, nel momento in cui la passione suscitata dall’atto
della visione non si limita a considerare la bellezza come espressione di sé,
ma rinvia a qualcosa d’altro, ovvero alla ancora oscura presenza dell’Uno.
Bellezza e amore non possono però che avvicinare l’uomo all’Uno; la vera unione
con l’Uno originario è resa possibile solo dall’estasi (έκστασις), che è
ek-stasis, distacco da sé, spoliazione della propria individualità personale,
rigetto della molteplicità, rientro in quell’Uno che non è altro-da-sé e che
quindi può essere ritrovato solo nel proprio centro.
Plotino insegnava: per l’anima “essere solo in se stessa e non nell’essere,
vuol dire essere in Dio”[34]. Lì, l’uomo “riposa in Lui come l’amante riposa in colui
che ama”[35].
E così si esprimeva il veggente delle Upanişad:
“Come un uomo nelle braccia della donna
amata non è più cosciente né del mondo interiore né di quello esteriore,
egualmente questo Puruşa, abbracciato dall’atman, non sa più nulla né del mondo
esteriore né di quello interiore”[36].
[1]
http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-201011-i-greci-in-india.html
[2] H. Von Glasenapp, Filosofia dell’India, Ed. SEI, pag.
17
[3] E. Zeper, Plotino e l’India, tesi di laurea
triennale presso l’Università di Trieste, leggibile nel sito di G. Bertagni: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/plotinoindia.pdf
[4] Id., pag. 4
[5] Id., pag. 5. Soma
è il nome di una pianta (non meglio identificata) e del suo succo, utilizzato
ritualmente come inebriante o forse come vero e proprio allucinogeno durante
alcuni tipi di cerimonie.
[6] Id., pag. 5
[7] Si parla anche di metemsomatosi,
di trasmigrazione o di reincarnazione, mentre il termine rinascita, usato in ambito buddhista, ha
un diverso significato: il buddhismo rifiuta infatti la concezione di un sé
dotato di esistenza intrinseca, indipendente ed immortale, che dopo la morte
trasmigrerebbe in un altro corpo.
[8] Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia – Vol. 1,
Ed. UTET, pag. 30
[9] Su Pitagora si racconta il seguente aneddoto,
riportato dallo storico Diogene Laerzio: “si
dice che un giorno, passando vicino a qualcuno che maltrattava un cane, [Pitagora], colmo di compassione, pronunciò queste
parole: smettila di colpirlo! La sua anima la sento, è quella di un amico che
ho riconosciuto dal timbro della voce”
[10] U. Galimberti, Le origini del pensiero filosofico greco,
in: E. Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale – Vol. 1,
Ed. Curcio, pag. 39
[11] Platone, Fedone, 80B e segg., in: http://new.lettere.unina2.it/Didattica1/Dispense/Morrone/dispense%202013-2014/St.%20Fil.%20ANTICA/fedone.pdf
[12] Zeper, pag. 8
[13] Arriano, L’India, Ed. BUR, pag. 59
[14] Si legga a tale proposito: A. Daniélou, Śiva
e Dioniso, Ed. Ubaldini
[15] “Geni dei monti
e dei boschi, accompagnavano le Menadi nei festeggiamenti di Dioniso. [..]
rappresentavano sempre gli appetiti lascivi e i comportamenti licenziosi”.
M. Grant – J. Hazel, Dizionario della mitologia classica,
Ed. CDE, pag. 271
[16] Per altre notizie sull’argomento si veda: S. Lévi, Il
Buddhismo e i Greci, un articolo del 1891, tradotto da chi scrive in: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-buddhismo-e-i-greci-di-sylvain-levi.html
[17] Le Tre Gemme, o Tre Tesori: il Buddha, ovvero la potenzialità del Risveglio insita in ogni essere
senziente; il Dharma, gli
insegnamenti; il Sangha, la comunità
dei praticanti
[18] L’arhat, o arahant, è colui che, liberato
dall’esistenza ciclica, alla morte entra nel Nirvana. Le citazioni sono tratte da: G. Cagnola (a cura di), Dialoghi
del Re Milinda, Ed. Phoenix, vol. III, pag. 108-109.
[19] Cfr. Zeper, pag. 15-16
[20] Id. pag. 15
[21] S. Lévi, art. cit.
[22] Id.
[23] Cfr. id.
[24] Id.
[25] Abbagnano, pag. 247
[26] Testi religiosi e filosofici indiani composti in
lingua sanscrita a partire dal IX-VIII sec. a.C. fino al IV sec. a.C.
Successivamente ne furono aggiunte di minori fino al 1500 d.C. Vennero messe
per iscritto solo nel XVII secolo
[27] Zeper, pag. 38
[28] Insieme di pratiche, riti e tecniche estatiche atte a
creare rapporti privilegiati fra gli dei e gli uomini
[29] U. Galimberti, La gnosi, Plotino e il neoplatonismo,
in: E. Severino cit., Vol. 1, pag. 251
[30] Cfr. Zeper, pag. 39 e segg.
[31] Laotse, Il Tao Te King, Ed. Laterza, pag. 25
[32] Galimberti, La gnosi cit., pag. 253
[33] Id.
[34] Id., pag. 254
[35] Zeper, pag. 40
[36] Zeper, pag. 40. Puruşa
indica qui l’essere umano, Atman è il
Sé autentico, che si identifica con il Brahman,
l’Assoluto. Il parallelismo tra unione di Atman
e Brahman (che in realtà non sono mai
separati) e l’idea di ritorno dell’anima all’Uno come ritorno in se stessa –
ovvero la vera conoscenza di sé come essere se stessi e quindi come liberazione
– costituisce il punto di maggior contatto tra Plotino e la filosofia indiana
delle Upanişad.