giovedì 30 marzo 2017
domenica 26 marzo 2017
Il respiro del Pater
In un suo scritto, come si è visto (http://zenvadoligure.blogspot.it/2017/03/la-psicologia-analitica-e-loriente-carl.html),
C.G. Jung ha affermato che lo stesso scopo della pratica orientale dello yoga è perseguito in Occidente, anche se
a particolari condizioni, dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (XVI sec.).
A tale proposito riproduciamo qui di seguito due
passi, brevi ma significativi, dell’opera del fondatore della Compagnia di
Gesù, nei quali vengono indicate due modalità di preghiera, con precise
indicazioni sulla postura del corpo, sulla respirazione e sulla corretta
attitudine della mente nel corso della pratica.
Il testo è tratto da:
Ignacio de Loyola, Esercizi spirituali,
trad. di G. Giudici, Ed. Mondadori, pag. 96 e segg.
§ 252 – 2° modo
di pregare – Il secondo modo di pregare è che, in ginocchio o da seduto, a
seconda di come più si trovi disposto e della maggior devozione che
l’accompagni, tenendo gli occhi chiusi o fissi su un punto senza andar con essi
vagando, uno dica Pater, e resti a meditare su questa parola per tutto il tempo
che riuscirà a trovare significati, confronti, diletti e consolazione nelle
meditazioni a tale parola pertinenti, e nella stessa maniera faccia per
ciascuna parola del Pater noster o di qualunque altra preghiera che in questa
maniera volesse pregare.
§ 258 – 3° modo
di pregare – Il terzo modo di pregare è che ad ogni anelito o respiro si deve
pregare mentalmente dicendo una parola del Pater noster o di altra preghiera
che si reciti, in maniera che soltanto una parola sia detta fra un anelito e
l’altro, e intanto che duri l’intervallo fra un anelito e l’altro, si pensi
principalmente al significato di tale parola, o alla persona cui la preghiera è
diretta, o alla propria bassezza, o alla differenza fra una così grande altezza
e questa bassezza nostra; e con la medesima forma e regola si procederà per le
altre parole del Pater noster; e per le altre preghiere, vale a dire: Ave
Maria, Anima Christi, Credo e Salve Regina, si farà come al solito.
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Ignazio di Loyola |
giovedì 23 marzo 2017
La religione, le religioni e il terrore
Quale temporaneo
sollievo alle analisi delle motivazioni ‘religiose’ del ‘terrorismo’ che ci
stanno arrivando in queste ore dalle pagine dei giornali e, in TV, da quelle brevi
pause urlate tra un break pubblicitario e l’altro dette talk show, propongo la
lettura di uno scritto di René Guénon su religione e religioni.
Il testo è stato tratto dai siti:
http://www.tradizioneiniziatica.org/la_religione_e_le_religioni.htm
e http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/reneguenon/relitradi.htm
Ha scritto Guénon (le sottolineature sono
mie):
‘Onorate la Religione, diffidate delle
religioni’: è questa una delle massime principali che il Taoismo ha inscritto
sulla porta di tutti i suoi templi; e tale tesi (che d’altronde è stata
sviluppata in questa Rivista anche dal nostro Maestro e collaboratore Matgioi)
non è affatto specifica della metafisica estremo-orientale, ma si deduce
immediatamente anche dagli insegnamenti della Gnosi pura che esclude qualunque
spirito settario o di sistema, dunque qualunque tendenza all’individualizzazione
della Dottrina.
Se
la Religione è necessariamente una come la Verità, le religioni non possono
essere altro che delle deviazioni dalla Dottrina primordiale; e non si devono
affatto confondere con lo stesso Albero della Tradizione i vegetali parassiti,
antichi o recenti, che si allacciano al suo tronco, e che, vivendo
completamente della sua stessa sostanza, si sforzano di soffocarlo: sforzi
vani, perché delle modificazioni temporanee non possono intaccare per nulla la
Verità immutabile ed eterna.
Da
questo, risulta evidentemente che non può essere accordata alcuna autorità a
nessun sistema religioso che derivi da uno o più individui, poiché, dinnanzi
alla Dottrina vera ed impersonale, gli individui non esistono affatto; e, con
questo, si comprende anche tutta l’inanità di questa domanda, posta tuttavia
così sovente: "Le circostanze della vita dei fondatori di religioni, così
come ci sono state riportate, devono essere considerate come dei fatti storici
reali, o come delle semplici leggende aventi un carattere puramente simbolico?".
Che
si siano introdotte nel racconto della vita del fondatore, vero o presunto, di
tale o talaltra religione, delle circostanze che primitivamente erano dei puri
simboli, e che in seguito sono state prese per dei fatti storici da parte di
coloro che ne ignoravano il significato, questo è del tutto verosimile, e
persino probabile in più di un caso. È ugualmente possibile, è vero, che delle
simili circostanze si siano talvolta verificate, nel corso dell’esistenza di
certi esseri aventi una natura del tutto speciale, così come ce l’hanno i
Messia o i Salvatori; ma questo c’importa poco, perché non toglie nulla al loro
valore simbolico, il quale deriva da tutt’altra cosa che dei semplici fatti
materiali.
Diremo
di più: l’esistenza stessa di tali esseri, considerati nella loro apparenza
individuale, dev’essere anch’essa considerata come simbolica. "il Verbo si
è fatto carne", dice il Vangelo di Giovanni; e dire che il Verbo,
manifestandosi, si è fatto carne, significa dire che si è materializzato, o, per
esprimersi in modo più generale ed allo stesso tempo più esatto, ch’esso si è
in qualche modo cristallizzato nella forma; e la cristallizzazione del Verbo, è
il Simbolo. Così, la manifestazione del Verbo, a qualunque grado e sotto
qualunque aspetto essa sia considerata in rapporto a noi, vale a dire dal punto
di vista individuale, è un puro simbolo; le individualità che rappresentano per
noi il Verbo, ch’esse siano o meno dei personaggi storici, sono tutte
simboliche in quanto esse manifestano un principio, ed è solo il principio che
conta.
Non
dobbiamo dunque per nulla preoccuparci della storia delle religioni, il che d’altronde
non vuol affatto dire che questa scienza non abbia altrettanto interesse
relativo così come qualunque altra; ci è persino permesso, ma da un punto di
vista che non ha nulla di gnostico, di augurarci ch’essa un giorno realizzi dei
progressi più autentici di quelli che hanno fatto la reputazione, forse
insufficientemente giustificata, di alcuni dei suoi rappresentanti, e che si
sbarazzi prontamente di tutte le ipotesi troppo fantasiose, per non dire
fantastiche, di cui l’hanno ingombrata degli esegeti male accorti. Ma non è
affatto qui il caso d’insistere su questo argomento, che, non ci stancheremo di
ripeterlo, è del tutto al di fuori della Dottrina e non potrebbe riguardarla in
nessun modo, perché si tratta di una semplice questione di fatti, e, davanti
alla Dottrina, non esiste nient’altro che l’idea pura.
Se
le religioni, indipendentemente dal problema della loro origine, appaiono come
delle deviazioni della Religione, ci si deve domandare che cosa questa sia
nella sua essenza.
Etimologicamente,
la parola Religione, derivando da religare,
rilegare, implica un’idea di legame, e, di conseguenza, di unione. Dunque,
ponendoci nel dominio esclusivamente metafisico, il solo che c’importi,
possiamo dire che la Religione consiste essenzialmente nell’unione dell’individuo
con gli stati superiori del suo essere, e, attraverso questi, con lo Spirito
Universale, unione mediante la quale scompare l’individualità, così come ogni
altra distinzione illusoria; ed essa, di conseguenza, comprende anche i
mezzi per realizzare questa unione, mezzi che ci sono stati insegnati dai Saggi
che ci hanno preceduto nella Via.
Questo
significato è precisamente quello che ha in sanscrito la parola Yoga, checché pretendano coloro secondo
i quali tale parola designerebbe sia ‘una filosofia’ sia ‘un metodo di sviluppo
dei poteri latenti dell’organismo umano’.
La
Religione, sottolineiamolo, è l’unione con il Sé interiore, che è a sua volta
uno con lo Spirito Universale, ed essa non pretende affatto di
ricollegarci ad un qualche essere esterno rispetto a noi, e quindi
necessariamente illusorio nella misura in cui fosse considerato come esterno. A
fortiori essa non è affatto un legame fra degli individui umani, cosa che
avrebbe ragion d’essere solo nel dominio sociale; quest’ultimo caso, di contro,
è quello della maggior parte delle religioni, che hanno come principale
preoccupazione quella di predicare una morale, vale a dire una Legge che gli
uomini devono osservare per vivere in società. In effetti, se si scarta
ogni considerazione mistica o semplicemente sentimentale, e a questo che si
riduce la morale, la quale non avrebbe alcun senso al di fuori della vita
sociale, e che si deve modificare assieme alle condizioni di quella. Se dunque
le religioni possono avere, e certamente hanno, infatti, la loro utilità da
tale punto di vista, esse avrebbero dovuto limitarsi a questo ruolo sociale,
senza avanzare alcuna pretesa dottrinale; ma, malauguratamente, le cose sono
andate in modo del tutto diverso, almeno in Occidente.
Diciamo
in Occidente, perché, in Oriente, non poteva prodursi nessuna confusione fra i
due domini metafisico e sociale (o morale), che sono profondamente separati, di
modo tale che non e possibile nessuna azione dell’uno sull’altro; e, in
effetti, non vi si può trovare nulla che corrisponda, anche solo
approssimativamente, a quel che gli Occidentali definiscono come una religione.
Al contrario, la Religione, così come l’abbiamo definita, vi è onorata e
praticata costantemente, mentre, nell’Occidente moderno, la stragrande
maggioranza la ignora perfettamente, e non ne suppone neanche l’esistenza,
forse neppure la possibilità.
Senza
dubbio ci si obbietterà che tuttavia il Buddismo è qualcosa di analogo alle
religioni occidentali, ed è vero che è quel che vi si avvicina di più (ed e
forse per questo che taluni studiosi vogliono vedere, in Oriente, del Buddismo
un po’ dappertutto, persino dove non ne è presente la benché minima traccia);
ma ne è ancora molto lontano, e i filosofi o gli storici che l’hanno mostrato
sotto tale aspetto l’hanno singolarmente sfigurato. Esso non è più deista che
ateo, non più panteista che nichilista, nel senso che queste denominazioni hanno
preso nella filosofia moderna, e che è anche quello in cui le hanno utilizzate
degli individui che hanno preteso interpretare e discutere delle teorie ch’essi
ignoravano. D’altra parte, non diciamo questo per riabilitare oltre misura il
Buddismo, che è un’eresia manifesta (soprattutto nella sua forma originale, ch’esso
ha conservato solo in India, perché le razze gialle l’hanno a tal punto
trasformato che lo si riconosce appena) poiché rigetta l’autorità della
Tradizione ortodossa, allo stesso tempo in cui permette l’introduzione di certe
considerazioni sentimentali nella Dottrina. Ma bisogna riconoscere ch’esso
almeno non arriva fino al punto di porre un Essere Supremo esteriore
rispetto a noi, errore (nel senso di illusione) che ha dato nascita alla concezione
antropomorfica, che non ha tardato a divenire persino del tutto materialistica,
e dalla quale derivano tutte le religioni occidentali.
D’altra
parte, non ci si deve illudere riguardo al carattere, per nulla religioso
malgrado le apparenze, di certi riti esteriori, che si collegano strettamente
alle istituzioni sociali; diciamo riti esteriori, per distinguerli dai riti
iniziatici, che sono tutt’altra cosa. Questi riti esteriori, per il fatto
stesso ch’essi sono sociali, non possono essere affatto religiosi, quale che
sia il senso che si dà a questa parola (a meno che non si voglia con ciò dire
ch’essi costituiscono un legame fra degli individui), e non appartengono ad
alcuna setta ad esclusione di altre; ma sono inerenti all’organizzazione della
società, e tutti i membri di questa vi partecipano, a qualunque organizzazione
esoterica essi possano appartenere, così come nel caso che essi non
appartengano a nessuna. Quali esempi di questi riti di carattere sociale (come
le religioni, ma totalmente differenti da esse, come si può giudicare
comparando i risultati degli uni e delle altre nelle organizzazioni sociali
corrispondenti), possiamo citare, in Cina, quelli il cui insieme costituisce
ciò che si chiama Confucianesimo, che non ha nulla di una religione.
Aggiungiamo
che si potrebbero ritrovare le tracce di qualcosa di questo genere nella stessa
antichità greco-romana, nella quale ciascun popolo, ciascuna tribù, e persino
ciascuna città, aveva i propri riti particolari, in rapporto con le proprie
istituzioni, il che non impediva affatto che un uomo potesse praticare
successivamente dei riti assai diversi, secondo i costumi dei luoghi nei quali
si trovava, e questo senza che nessuno se ne meravigliasse minimamente. Non
sarebbe stato cosi, se tali riti avessero costituito una sorta di religione di
Stato, la cui sola idea sarebbe stata senza dubbio un nonsenso per un uomo di
quell’epoca, come lo sarebbe ancor oggi per un Orientale, e soprattutto per un
Estremo-Orientale.
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Un ottimo testo di René Guénon |
È
facile così accorgersi come gli Occidentali moderni deformino le cose che sono
loro estranee, allorché le considerano attraverso la mentalità a loro propria;
si deve tuttavia riconoscere, e questo li giustifica almeno fino ad un certo
punto, che è assai difficile per degli individui sbarazzarsi dei pregiudizi di
cui la loro razza si è imbevuta da molti secoli. Così non è tanto agli
individui che si deve rimproverare lo stato attuale delle cose, bensì ai
fattori che hanno contribuito a creare la mentalità della razza; e, fra questi
fattori, sembra proprio che si debba assegnare il primo posto alle religioni:
la loro utilità sociale, sicuramente incontestabile, è sufficiente a compensare
questo inconveniente intellettuale?
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martedì 21 marzo 2017
La psicologia analitica e l'Oriente: I - Carl Gustav Jung
Carl Gustav Jung nacque nel 1875 a Kesswil, in Svizzera, da una
famiglia di origine tedesca: il nonno paterno era un affermato medico, il padre
teologo e pastore. Dalla madre imparò ben presto a conoscere le religioni e i
miti di tutti i popoli, e ne rimase per sempre affascinato, in particolare
dalle immagini delle divinità dell’India. Fu ugualmente attratto
dall’archeologia, dalla filosofia e dai fenomeni
spiritici, verso i quali in quegli anni gran parte della società europea
provava un grande interesse. Egli stesso raccontò nei suoi scritti diverse
esperienze di cui fu protagonista o testimone diretto [1].
Nonostante questi suoi interessi, spinto
probabilmente dalla forte figura del nonno paterno, si dedicò agli studi di
medicina ed infine alla psichiatria, nella quale trovò un “campo di esperienza comune ai fatti spirituali e biologici” [2].
A partire dal 1900 prestò servizio presso
l’Ospedale Psichiatrico di Zurigo e nel 1902 completò la tesi di dottorato su Psicologia e patologia dei cosiddetti
fenomeni occulti, nella quale è già rintracciabile, tra gli altri, un tema
fondamentale di tutto il suo pensiero, qui esemplificato dalla somiglianza tra
un concetto mitologico esposto un giorno da una giovane medium [3] (della quale il testo junghiano analizzava le
sedute spiritiche) e altri elementi esistenti in opere a lei sicuramente
sconosciute. Anni dopo, Jung scrisse: “Si
potrebbe quasi dire che se tutte le tradizioni del mondo venissero cancellate
in un solo colpo, l’intera mitologia e l’intera storia delle religioni
ricomincerebbero daccapo con la generazione seguente” [4].
Nel 1905 divenne docente di Psichiatria presso
l’Università di Zurigo, dove si occupò di ipnosi e sonnambulismo. L’anno
successivo conobbe Sigmund Freud, prima attraverso uno scambio epistolare e poi
di persona, e del quale aveva già letto diversi scritti, soprattutto la
fondamentale Interpretazione dei sogni,
del 1899. Iniziò così un lungo periodo di collaborazione tra Jung, Freud e gli
altri studiosi del nascente movimento psicoanalitico. Il rapporto tra i due fu
molto profondo, ma attraversò momenti sempre più critici, anche a causa del
rifiuto e dell’avversione di Freud nei confronti della nera marea di fango, come quest’ultimo definiva l’occultismo. Ma Jung non poteva accettare
la visione freudiana, per la quale “occultismo
era praticamente tutto ciò che filosofia, religione e anche la scienza allora
nascente, la parapsicologia, avevano da dire dell’anima. Secondo me la teoria
sessuale era ‘occulta’, e cioè un’ipotesi non provata, esattamente allo stesso
modo di altre concezioni” [5]. Altrettanto inaccettabile era quindi l’invito,
rivoltogli da Freud, di “non abbandonare
mai la teoria della sessualità [e di] farne
un dogma” [6].
La collaborazione tra Jung e Freud, benché si
trattasse evidentemente di due persone con visioni inconciliabili, durò fino al
1917, ma in realtà l’inevitabile rottura era già stata sancita nel 1911-12, con
la pubblicazione di Trasformazione e
simboli della libido (poi Simboli
della trasformazione), un’opera decisiva per il pensiero e l’attività di
Jung maturata a partire dal 1909, quando aveva intrapreso lo studio della
mitologia e dello gnosticismo,
ispirato e guidato anche dalla lettura delle fantasie – dal carattere
chiaramente mitologico – di una giovane americana affetta da schizofrenia,
riportate nel volume citato [7]. Un’opera, afferma lo stesso Jung, scritta “di furia”, “come una frana impossibile a trattenere”, “l’esplosione di tutti i contenuti psichici che non potevano trovar
posto nelle strettoie opprimenti della psicologia freudiana e della sua visione
del mondo” [8].
Fu l’inizio della fase della maturità nella
vita e nell’opera di Jung.
Molte cose cambiarono nella sua vita: i suoi
interessi si spostarono decisamente “dal
mondo quotidiano di spazio, tempo e personalità umane a una dimensione immutabile
e atemporale di satiri, ninfe, centauri e draghi da uccidere” [9]. Lasciò il lavoro in ospedale, e si dedicò interamente all’attività
privata. Nel rapporto coi pazienti non si basò più tanto sui presupposti
teorici, ma si predispose piuttosto all’ascolto delle loro parole, a partire
dai sogni e dalle fantasie che essi spontaneamente gli riferivano. Egli stesso,
nel 1913, ebbe visioni terrificanti, che anticipavano la feroce guerra che
dall’anno successivo avrebbe devastato l’Europa.
Si dedicò anche al disegno e alla pittura,
realizzando forme sempre più simili ai mandala
[10], gli psicocosmogrammi
studiati da Giuseppe Tucci, tipici della spiritualità orientale ma presenti in
tante culture tradizionali – nonché nelle creazioni di molti pazienti dello
stesso Jung.
Nel 1921 apparve un’altra opera fondamentale
nel pensiero di Jung, Tipi psicologici,
dove egli descrisse quelle che chiamò le
quattro funzioni della coscienza, divise in due coppie: la sensazione e l’intuizione, ovvero le funzioni attraverso cui vengono appresi i
fatti e il mondo della realtà fattuale; il sentimento
e il pensiero, ovvero le funzioni del
giudizio e della valutazione [11].
Secondo Jung solo una delle funzioni, di
regola, assume il ruolo di guida nella vita delle persone, assecondata da una
sola dell’altra coppia. In linea di massima, in Occidente vengono privilegiati
il pensiero e la sensazione, mentre intuizione e sentimento sono poco sviluppati
o addirittura repressi e relegati nell’inconscio, talora con gravi danni per
l’equilibrio e la salute della persona. “L’idea
di Jung è che lo scopo della vita di un individuo [..] debba essere non di
sopprimere o reprimere, ma di arrivare a conoscere l’altro lato di sé, e in
questo modo poter sia godere, sia controllare l’intera gamma delle proprie
capacità: vale a dire, nel significato pieno, conoscere se stesso” [12]. È il processo di
individuazione, che attraverso l’integrazione delle quattro funzioni ci
permette di guardare al centro, una sorta di quinta facoltà, la funzione trascendente, “per vedere, pensare, sentire e intuire il
trascendente e agire di conseguenza” [13].
In quegli stessi anni Jung intraprese diversi
viaggi, grazie ai quali trovò ulteriori conferme alla sua visione della realtà
umana. Nel 1920 fu ad Algeri e Tunisi, poi (1924) nel Nuovo Messico presso gli
Indiani Pueblo, in Kenia e Uganda (1925-26), in India (1938).
Nel 1928 un grande sinologo, Richard Wilhelm,
gli inviò un antico testo cinese, Il
segreto del fiore d’oro, che è non solo “un testo taoistico dello yoga cinese bensì anche un trattato alchemico”
[14]. Grazie ad esso Jung scoprì come le tradizioni alchemiche – fondate
in Occidente sulla filosofia naturale del Medio Evo – costituissero un ponte,
un “anello di congiunzione, da tanto
tempo cercato, tra la gnosi e i processi dell’inconscio collettivo osservabili
nell’uomo d’oggi” [15]. Con un ulteriore fondamentale elemento:
l’alchimia gli si rivelò come una tradizione capace di riportare un equilibrio
nel pensiero europeo tra il ruolo maschile e quello femminile, laddove invece
le tradizioni ebraico-cristiane avevano fino ad allora assolutamente
enfatizzato il principio maschile-patriarcale.
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Il laboratorio alchemico |
I viaggi, gli incontri con culture lontane
nello spazio e nel tempo, le pericolose discese nelle profondità della sua
stessa mente, segnarono gli anni della vecchiaia di Jung. Nel 1946 lasciò
l’insegnamento presso l’Università di Basilea e approfondì ciò che era andato
scoprendo in sé e nei suoi pazienti, ovvero il ripetersi nelle fantasie
oniriche di certe figure stereotipate simili a quelle già incontrate nello
studio della mitologia. Cercò di riconoscerle, di identificarne i ruoli, di
classificarle, ritrovando i personaggi comuni ricorrenti nei sogni, nei miti,
nelle fiabe di tutta la storia dell’umanità. Le definì, con un termine ormai
inflazionato, gli archetipi
dell’inconscio, forme a priori (come
lo spazio e il tempo di Kant) che non si identificano con le loro
rappresentazioni ma che le precedono, costituendo la possibilità delle rappresentazioni stesse. Nacque così nel 1951 una
delle sue opere maggiori, Aion: ricerche
sul simbolismo del Sé, quindi continuò gli studi sull’alchimia (completati
con il Mysterium coniunctionis –
1955), fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1961 dopo una breve malattia.
Jung, l’Oriente, lo
Yoga
Come si è visto, l’Oriente è stato
ripetutamente e profondamente presente nella vita, nel pensiero e nell’opera di
Jung, a partire dai racconti materni sugli dei dell’Induismo e dallo studio di
Schopenhauer, fino ai viaggi in India e Sri Lanka e alle approfondite letture
dei testi classici delle grandi tradizioni spirituali, ormai facilmente
accessibili, e delle opere di personalità quali Richard Wilhelm, Edwin Arnold,
Max Müller, Hermann Oldemberg, Paul Deussen, Heinrich Zimmer, Rudolf Otto, Mircea
Eliade.
Recano testimonianza concreta del suo
interesse per l’Oriente i numerosi scritti sull’argomento, opportunamente
raccolti in Italia in uno specifico volume del Corpus junghiano minore, curato da L. Aurigemma e pubblicato presso
l’Editore Boringhieri con il titolo La saggezza orientale.
Qui troviamo un commento psicologico al Bardo Thödol, il cosiddetto Libro tibetano dei morti, ed uno al Libro tibetano della grande liberazione. Alcuni
articoli sul suo viaggio in India e sullo Yoga.
Diverse prefazioni: ad un testo sullo Zen
di D.T. Suzuki, lo studioso giapponese incontrato da Heidegger; ad un volume di
Zimmer, La via del Sé; ai Discorsi di Gautama Buddha curati da
Neumann; al famoso testo cinese dell’I
Ching, tradotto in tedesco da Wilhelm.
Nel volume Psicologia e alchimia è
poi leggibile il fondamentale saggio su Il
simbolismo dei mandala [16], mentre il Commento europeo al già citato Segreto
del fiore d’oro è pubblicato in un libro che contiene anche il testo del Segreto, in cinese T’ai Chin Hua Tsung Chih, tradotto e curato da Wilhelm [17].
Grazie alla sua formazione antidogmatica e
alla sua straordinaria apertura mentale, Jung pur ammirando le conquiste della
cultura occidentale ne aveva rilevato i limiti e l’unilateralità. Egli “riteneva che l’Occidente avesse molto da
imparare dallo studio del pensiero orientale, e che l’Oriente offrisse la
possibilità di sottoporre i presupposti e i pregiudizi occidentali a una
critica feconda” [18].
Non cadde mai però – come sovente cominciava
ad accadere in quegli anni e tuttora accade – in una facile esaltazione di ciò
che giungeva da Oriente, anzi mise ripetutamente in guardia “contro la così spesso tentata imitazione e
assimilazione delle pratiche orientali. Di regola – ebbe a scrivere nel
1943 – non ne viene che un istupidimento
particolarmente artificioso del nostro intelletto occidentale” [19]. E aggiunse che chi potesse completamente rinunciare all’Europa per
non “essere altro che uno yogi con tutte
le conseguenze etiche e pratiche, fino a dileguarsi sulla pelle di gazzella
sotto un polveroso banano, seduto nella posizione del loto [..], a costui io
dovrei concedere ch’egli ha capito lo yoga come un indiano. Chi non può fare
questo, non deve nemmeno fingere di capirlo. Egli non può e non deve rinunciare
al suo intelletto occidentale, ma deve invece applicarlo a intendere
onestamente, senza imitazione e assimilazione, quanto dello yoga è possibile al
nostro intelletto” [20].
Nello stesso testo, commentando il Sūtra buddhista, Jung approfondì
ulteriormente l’analisi, mettendo a confronto la scienza della mente dello yoga con quella dell’Occidente. Il
rischio che può correre un praticante occidentale è che svuotando lo spirito
delle rappresentazioni esterne egli diventi preda delle proprie fantasie
soggettive, i kleśa – le passioni, le
emozioni negative, le afflizioni mentali [21] – proprio
ciò che lo yoga vuole aggiogare (yoga e iugum, ‘giogo’ in latino, hanno la stessa etimologia). Infatti “illuminando l’inconscio s’incappa alla prima
nella sfera del caotico inconscio personale, in cui si trova tutto ciò che
volentieri si dimentica e che ad ogni modo non si vorrebbe confessare né a sé
né ad altri, e di cui in genere non si vorrebbe rendersi conto. Si crede quindi
che la cosa migliore sia di non guardare in questo angolo oscuro. Certo, chi
si comporta così non svolterà mai quest’angolo. In nessun caso egli giungerà
neppure a una traccia di ciò che promette lo yoga. Soltanto chi attraversa
questa tenebra può sperare di progredire in qualche modo. Perciò io sono per
principio contrario all’accettazione acritica delle pratiche yogi da parte
degli europei, perché so troppo bene che essi sperano di scansare con quelle il
loro angolo buio: impresa completamente insensata e senza valore” [22].
Lo stesso scopo dello yoga è perseguito in Occidente dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (XVI sec.), ma secondo
Jung vi sono con essi possibilità di successo solo se “l’esercizio della meditazione si svolge in una significativa cornice
ecclesiastica” [23]. Non molto diversamente, quindi, da quanto
già detto in merito al praticare lo yoga
avendo del tutto rinunciato all’Europa, all’essere europei.
La sola alternativa per un occidentale è
costituita dalla psicologia
dell’inconscio che, a differenza dello yoga,
deve però prima risolvere per noi – proprio in quanto occidentali – un dilemma
etico, il problema del male nella natura: infatti “lo spirito dell’India si sviluppa dalla natura, il nostro è contro la
natura” [24].
Il Sūtra
qui analizzato da Jung descrive infine, una volta attraversato il mondo
personale dei kleśa, uno strato più
profondo dell’inconscio, questo però ordinato ed armonico, che rappresenta l’unità al di là della molteplicità caotica degli istinti e
delle passioni. È visto come una figura geometrica, divisa in otto parti, al
cui centro siede un Buddha, che è il meditante stesso: l’Io si spegne, è
l’esperienza decisiva, l’illuminazione. Detto con le parole della psicologia, è
ciò che appare quando l’inconscio personale diviene “trasparente”: emerge cioè un
fondamento che Jung definisce inconscio
collettivo, le cui immagini non hanno un carattere personale bensì
mitologico, ovvero “concordano, per forma
e contenuto, con quelle rappresentazioni primordiali, universalmente diffuse,
quali le troviamo alla base dei miti. Esse non sono più di natura personale, ma
nettamente sovrapersonale, e perciò comuni a tutti gli uomini. Per questo si
possono rintracciare in tutti i miti e le favole di tutti i popoli e i tempi,
come negli individui singoli anche senza che questi abbiano la minima nozione
cosciente di mitologia” [25]. È il tema già accennato del mandala – termine sanscrito che indica
il cerchio –, un’immagine e un
concetto che Jung utilizzò nei suoi studi e nella sua pratica terapeutica avendo
intuito e verificato la concordanza delle nozioni dello yoga con i risultati della ricerca psicologica e di quella storica,
potendosi infatti ritrovare simili raffigurazioni circolari nella cristianità
medioevale, spesso quadripartite, con le immagini degli Evangelisti o dei
quattro fiumi del Paradiso. E qui, coerentemente con il suo pensiero, Jung non poté
esimersi dal sottolineare una importante distinzione, quella per cui al termine
del percorso il Sūtra buddhista
afferma “Tu riconoscerai che Buddha sei
tu”, mentre il meditante cristiano non potrà che dire con Paolo “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me” [26].
Nel 1936, prima del suo viaggio in India, Jung
aveva già scritto intorno allo yoga,
le cui dottrine e pratiche erano giunte in Europa da circa un secolo e vi si
stavano diffondendo velocemente, anche grazie all’attività della Società Teosofica di Helena Blavatsky (1831-1891) e dei suoi
successori.
E anche allora,
nell’articolo su Lo yoga e l’Occidente,
egli aveva voluto subito evidenziare le differenze tra l’India e l’Occidente, dove
già esisteva, al momento della comparsa dello yoga, una rigida separazione tra scienza e fede: un fenomeno
iniziato secoli prima, a seguito del quale le chiese “sopravvissero per le esigenze strettamente religiose dei popoli, ma
cessarono di essere guida in campo culturale” [27]. Tale scissione,
sconosciuta in India, almeno fino ad allora, “si è impadronita anche della dottrina yoga penetrata in Occidente,
facendola da una parte oggetto di scienza, dall’altra salutandola come via di
salvezza” [28]. Fu questo – e forse ancora lo è – uno dei motivi del successo dello yoga, in quanto “se un metodo ‘religioso’ si presenta anche come ‘scientifico’ può
essere certo di trovare un pubblico in Occidente” [29], offrendo da un
lato una profonda dottrina filosofica e soddisfacendo dall’altro il bisogno di fatti, di esperienze verificabili,
tipico della ‘modernità’.
Ma se la scissione
nell’uomo occidentale tra fede e scienza crea le condizioni del successo dello yoga, ovvero il bisogno di ricomporre la
frattura, essa stessa ne determina lo scacco, l’impossibilità della
realizzazione delle sue finalità. Infatti in Occidente lo yoga o è “un fenomeno
strettamente religioso o un training di tecnica mnemonica, ginnastica
respiratoria, euritmia eccetera, nei quali non si trova traccia di quell’unità
e interezza dell’essere” [30] che lo caratterizza. Questo perché “l’indiano non può dimenticare né il corpo né
lo spirito; l’europeo dimentica sempre o l’uno o l’altro [..]. L’indiano non
soltanto conosce la sua natura; sa anche fino a che punto sia natura egli
stesso. L’europeo invece ha una scienza della natura e stupisce per la sua
ignoranza della propria natura, della natura in lui” [31]. Di conseguenza
l’occidentale “farà immancabilmente un
cattivo uso dello yoga, perché la sua disposizione psicologica è completamente
diversa da quella dell’orientale. Dico a quanti più posso: ‘Studiate lo yoga;
vi imparerete un’infinità di cose, ma non lo praticate, perché noi europei non
siamo fatti in modo da poter usare senz’altro quei metodi come si conviene. Un
guru indiano vi può spiegare tutto e voi potete imitare tutto. Ma sapete chi
pratica lo yoga? In altre parole, sapete chi siete e come siete fatti?” [32].
![]() |
Conosci te stesso |
Con queste parole,
Jung ci riporta dunque al punto iniziale del cammino, al tempio di Apollo in
Delfi, nel quale al pellegrino era rivolta una domanda ineludibile, il più
perentorio dei moniti, quel γνῶθι σεαυτόν, conosci te stesso, cui pochi a tutt’oggi hanno saputo
rispondere compiutamente.
Note
1. Si veda in particolare A. Jaffé (a cura
di), Ricordi,
sogni, riflessioni di C.G. Jung, Ed. Rizzoli
2. J. Campbell, Carl Gustav Jung, in:
C.G. Jung, Scritti scelti, Ed. red, pag. XIII
3. Secondo l’Enciclopedia Treccani on line: “Persona che si pretende dotata di speciali facoltà, grazie alle quali
sarebbe in grado di provocare, in particolari condizioni (trance), fenomeni
‘non normali’ (detti medianici: levitazione, telecinesi ecc.), in
contrasto con le leggi fisiche. Secondo i cultori dello spiritismo, il m.
agirebbe come intermediario tra il mondo terreno e una qualche entità
soprannaturale”. In: www.treccani.it/enciclopedia
4. Cit. in J. Campbell, pag. XV
5. A. Jaffé, pag. 192
6. Id. pag. 191
7. Si veda C.G. Jung, Simboli della trasformazione,
Ed. Boringhieri, parte prima
8. C.G. Jung, Prefazione alla quarta edizione,
in C.G. Jung, Simboli…, pag. 11
9. J. Campbell, pag. XXV
10. Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/12/mandala-e-yantra.html
11. Cfr. J. Campbell, pag. XXVII e segg.
12. Id. pag. XXVIII-XXIX
13. Id. pag. XXX
14.
C.G. Jung, Prefazione alla II edizione in C.G. Jung – R. Wilhelm, Il
Segreto del fiore d’oro, Ed. Boringhieri, pag. 8
15.
Id.
16.
C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Ed. Boringhieri, pag. 103 e segg.
17.
Jung-Wilhelm, op. cit., pag. 13 e segg.
18.
J.J. Clarke, Jung e l’Oriente, Ed. ECIG, pag. 81
19.
C.G. Jung, Psicologia della meditazione orientale, in C.G. Jung, La
saggezza orientale, Ed. Boringhieri, pag. 137
20.
Id, pag. 137-138. Lo yoga di cui Jung
parla qui è quello esposto in un testo buddhista, lo Amitāyurdhyāna Sūtra, il Trattato
sulla meditazione di Amitābha, un’opera in lingua sanscrita del V secolo
d.C.
21.
Ad esempio, le 6 passioni-radice
sono: attaccamento, avversione, ignoranza, orgoglio, dubbio, opinioni erronee
22.
C.G. Jung, La saggezza orientale, pag. 141
23. Id.
24. Id. pag. 142
25. Id. pag. 143
26.
Cfr. id. pag. 145-146. La citazione di Paolo è in Galati 2, 20
27.
C.G. Jung, Lo yoga e l’Occidente, in C.G. Jung, La saggezza orientale,
pag. 33
28. Id. pag. 34
29. Id. pag. 35
30. Id. pag. 36-37
31.
Id. pag. 37
32.
Id. pag. 37-38.
Free Tibet: 10 marzo 1959 - 10 marzo 2017
Il
10 marzo non è una data come tutte le altre per i tibetani. In questa data, nel
1959, a nove anni dall’occupazione cinese e dopo tre anni dall’inizio di una
guerriglia anticinese nella parte orientale del Paese, diffusasi la voce di un
progetto di rapimento del Dalai Lama, in
Tibet si verificò una prima rivolta popolare a Lhasa. La sommossa
scoppiò per un evento apparentemente banale: i cinesi invitarono Tenzin Gyatso
a uno spettacolo teatrale nel quartiere generale dell’esercito, invitandolo a
venire rinunciando alla scorta e senza nessuna cerimonia pubblica per la
processione del Dalai Lama dal palazzo al campo, in contrasto con la
tradizione. In città si diffuse l’idea che la manovra celasse un piano per rapire l’autorità religiosa.
La gente della capitale scese in strada per fare da scudo al Dalai Lama e
migliaia di persone circondarono la sua residenza. Così iniziò la rivolta. Una
settimana dopo, il 17 marzo, il primo proiettile raggiunse palazzo del Dalai
Lama, suggerendo al 21enne leader
spirituale di prendere la strada dell’esilio.
Testo tratto dal sito: http://www.ilprimatonazionale.it/esteri/assalto-al-tetto-del-mondo-58-anni-fa-la-rivolta-di-lhasa-e-la-fine-del-tibet-libero-59020/
Nel
ricordo dei fatti di Lhasa, e in totale solidarietà con il popolo tibetano,
desidero riproporre qui il testo di un articolo di Padre Enzo Bianchi, priore di Bose, apparso su La Stampa del 20 marzo 2008, valido oggi come allora.
Infatti
sono passati 9 anni, ma nulla è cambiato da allora per il Tibet e i tibetani,
se non in peggio, grazie alla politica del governo comunista cinese e alla
complicità, al silenzio o alle ipocrite ed inutili condanne di principio dei
governi occidentali, accecati dalla difesa dei propri interessi politici ed
economici.
Per cosa combatte il Tibet
“Etichettando
come nemici le autorità cinesi, potremmo pronunciare una ipocrita condanna
della loro brutalità, ma non è così che si ottengono la pace e l’armonia”.
Risuonano tragicamente attuali queste parole che il Dalai Lama va ripetendo
ormai da 50 anni - una delle occasioni più vicine a noi nello spazio e nel
tempo è stata la sua conferenza a Milano nel dicembre scorso su La pace interiore e la nonviolenza - ma
proprio per questo il poco che ci è dato di conoscere degli eventi di questi
giorni in Tibet riveste una drammaticità estrema.
Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.
C'è, io credo, un'affermazione forte di una vita «altrimenti», di una diversità che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei monasteri, le uniche comunità umane che aumentano i propri membri non per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e costumi diversi non hanno intaccato l'identità profonda di un popolo; lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei tibetani con la loro terra, così come non lo ha attenuato l'esilio obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza del capitalismo di Stato e il volgare fascino del «mercato» con i suoi miti non riescono a sfondare al di là delle strade commerciali delle città principali.
È proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o tempistiche «ragionevoli», ma che sono come l'incontenibile ricerca della boccata di ossigeno di chi è costretto a vivere in apnea: in simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il risultato può essere una repressione ancora più dura; si anela unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che è il proprio patrimonio vitale. Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste “qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire”, manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata.
In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo.
Un popolo pacifico, con una propria lingua e cultura - intesa come modo di porsi di fronte agli eventi della vita quotidiana e alle attese ideali - con una religione intrinsecamente nonviolenta, subisce da decenni aggressioni di ogni tipo, le più pericolose delle quali sono quelli interiori e morali: il fatto che periodicamente folle di giovani e meno giovani, di monaci e di civili si ribellino con proteste prive di qualsiasi possibilità di successo, andando incontro a feroci repressioni, può sorprendere noi occidentali così devoti al calcolo, all'opportunismo e alla Realpolitik, ma dovremmo chiederci se in queste sommosse, regolarmente soffocate nel sangue, non ci sia qualcosa di più profondo della forza della disperazione, qualcosa di ben più nobile di una umana, comprensibilissima esasperazione.
C'è, io credo, un'affermazione forte di una vita «altrimenti», di una diversità che non accetta di scomparire: decenni di indottrinamento ateista non hanno arrestato il crescere della popolazione nei monasteri, le uniche comunità umane che aumentano i propri membri non per generazione fisica ma per libera adesione interiore; anni di sistematica immissione di migliaia di persone di etnia, lingua e costumi diversi non hanno intaccato l'identità profonda di un popolo; lo sfruttamento violento e sistematico del sottosuolo e l'emarginazione della pastorizia non hanno minato il rapporto dei tibetani con la loro terra, così come non lo ha attenuato l'esilio obbligato cui sono stati costretti a milioni; la chiassosa invadenza del capitalismo di Stato e il volgare fascino del «mercato» con i suoi miti non riescono a sfondare al di là delle strade commerciali delle città principali.
È proprio questa vita tenacemente differente che ha sussulti periodici di riaffermazione, sussulti che non tengono conto di strategie o tempistiche «ragionevoli», ma che sono come l'incontenibile ricerca della boccata di ossigeno di chi è costretto a vivere in apnea: in simili condizioni non si calcola se nei polmoni invece dell'aria rischia di entrare acqua, fango o terra, non si riflette se il risultato può essere una repressione ancora più dura; si anela unicamente all'ossigeno, a quell'aria pura che è il proprio patrimonio vitale. Credo che i monaci e i civili tibetani non si ribellano nella vana speranza che il mondo occidentale metta da parte i propri interessi mercantili e obblighi la Cina ad alcunché: ben conoscono, per averli sperimentati a più riprese, la nostra attitudine ai silenzi complici, il nostro gridare sterili condanne di principio, il nostro imbarazzato calcolo di opportunità e commerci, la nostra capacità di voltare la testa dall'altra parte, il nostro desiderio che lo spettacolo, anche olimpico, continui. No, si ribellano per affermare - costi quel che costi, al di là di ogni ragionevole speranza - che ci sono principi per cui vale la pena vivere e morire, si rivoltano per ribadire che esiste “qualcosa per cui vivere, abbastanza grande per cui morire”, manifestano per un'esigenza intima di giustizia, di affermare e compiere ciò che è giusto, a prescindere dalla possibilità effettiva di ottenere la giustizia invocata.
In questo senso il monachesimo è un fenomeno emblematico: i monaci del Tibet, come quelli birmani, come i bonzi del Vietnam, come i monaci cristiani in Algeria o in Iraq, sono uomini impegnati in una disciplina che tende all'umanizzazione di tutti attraverso la rinuncia al potere, al possesso, alla violenza, e perciò sono uomini che lottano ogni giorno per disarmare se stessi, per far tacere la propria aggressività e così indicare a tutti ciò che parrebbe utopico, senza luogo di realizzazione, ma che invece è possibile, anche se mondanamente non vincente. Sì, i veri monaci sono quasi sempre umiliati, a volte perseguitati ma, anche se obbligati a tacere, gridano con il loro silenzio la verità, una verità a servizio dell'uomo.
Ed è in questa prospettiva che mi paiono drammaticamente preoccupanti le
notizie sulle violenze compiute non tanto dai monaci - infatti, nonostante la
meticolosa cernita delle immagini compiuta dalla televisione di Stato cinese
per imputare esclusivamente ai tibetani le violenze, l'unico gesto violento di
cui è co-protagonista un monaco è l'abbattimento di una porta a calci - quanto
da giovani tibetani nei giorni scorsi. Temo sia una crepa pericolosa nella
cultura tibetana della nonviolenza, un sintomo di una certa presa che la
violenza quotidianamente istillata in maniera più o meno esplicita comincia ad
avere anche in un popolo a essa fondamentalmente alieno. Non ci è lecito
giudicare dall'alto del nostro distacco fisico, emotivo e personale il
comportamento di alcuni, relativamente pochissimi, manifestanti, ma dobbiamo
temere il possibile degenerare della «forza» della nonviolenza in azioni
violente: sarebbe davvero un tragico salto di qualità del «genocidio culturale»
denunciato dal Dalai Lama.
Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.
Estremamente significativo in questo senso l'atteggiamento che sta tenendo il Dalai Lama in questi giorni: reiterata domanda di dialogo, riaffermazione della volontà di autonomia e non di indipendenza, nessun boicottaggio delle Olimpiadi e perfino disponibilità a dimettersi se la situazione dovesse finire fuori controllo: la verità della pace non può accettare di farsi servire dalla violenza. Sì, l'uccisione della diversità ostinata di una cultura di pace è quanto anche i tibetani temono ancor più della morte fisica.
Enzo Bianchi
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sabato 18 marzo 2017
Quando l’Esistenzialismo tedesco volse a Levante: II – Karl Jaspers
Oltre a Heidegger, l’altro grande esponente dell’Esistenzialismo
tedesco fu Karl Jaspers (1883-1969).
A differenza del primo, Jaspers si dedicò inizialmente agli studi di
medicina e lavorò fino al 1915 in una clinica psichiatrica. Nel 1913 pubblicò
un testo ancor oggi fondamentale, la Psicopatologia
generale.
Studiò
poi filosofia come autodidatta, conseguì la docenza e insegnò presso
l’Università di Heidelberg. Nel 1937 perse la cattedra a causa della sua
opposizione al nazismo – il che non accadde a Heidegger, il quale anzi guardò
al regime con simpatia. Jaspers fu anche
obbligato a scegliere tra divorziare dalla moglie Gertrud, ebrea, ed emigrare
ma non fece nessuna delle due cose e da quel momento visse come un recluso,
nascosto ad Heidelberg. I nazisti sapevano
della sua presenza, ma ormai la sua capacità di nuocere era ridotta al minimo.
Dopo la fine della guerra riottenne la cattedra, ma nel 1948 si trasferì in
Svizzera, in quanto non condivideva le scelte operate dalla Germania della
ricostruzione. Lì rimase fino alla morte, continuando la sua attività di
docente e di scrittore di testi filosofici, spesso legati anche a temi
politici, quali il rischio atomico e la riunificazione della Germania (una
scelta per lui secondaria, essendo da privilegiare invece la ricostruzione del
senso della responsabilità civile e morale del Paese).
![]() |
Karl Jaspers |
Al centro
della sua ricerca – in campo prima medico poi filosofico – egli pose il tema
dell’esistenza, la quale è sempre la mia esistenza, singola, inconfondibile,
storicamente individuata. Unitamente alla ragione
– che è intelletto per la coscienza, vita per lo spirito e ragione chiarificatrice per l’esistenza stessa – e soltanto con essa, l’esistenza si apre alla verità, che è comunicazione
con gli altri [1].
Nella
comunicazione – che è movimento
infinito, inesauribile – coincidono l’essere
se stesso, nella propria unicità, e l’essere
vero, che si rivela agli altri e con
essi comunica. Disse Jaspers: “L’esistenza
diventa manifesta a se stessa, e con ciò reale, se essa con un’altra esistenza, attraverso di essa e con essa, giunge a se stessa” [2].
La
comunicazione non può comunque raggiungere una sua forma definitiva, compiuta –
se lo facesse sarebbe distrutto il compito dell’uomo, che solo in essa diviene
se stesso. Lo scacco della comunicazione è riempito dalla trascendenza. È un limite impensabile, il pensarlo fa solo ricadere
nelle forme già note – ovvero incompiute – della comunicazione. A quel limite
non c’è che il silenzio.
Come si
vede, per Jaspers – come per Heidegger – esistenza
è sempre esistenza nel mondo.
Esistenza è ricerca dell’essere, ovvero guardare a sé come Dasein, Esser-ci. È una
ricerca senza fine, una orientazione nel
mondo, da una cosa ad un’altra cosa, mai definitiva. Non è una conoscenza del mondo, che resta un orizzonte
trascendente, un orizzonte che si sposta col progredire stesso della
conoscenza.
Ogni immagine
totale del mondo non è che un singolo punto di vista tra i tanti, è ciò che
Jaspers chiama cosmo. Ciò che sta
oltre il cosmo resta impensato, spesso addirittura insospettato.
“Medici e psichiatri – disse una volta – devono imparare a pensare” [3], laddove pensare significa andare al di là della scissione soggetto/oggetto,
che fa sì che l’oggetto appaia nei limiti già predeterminati dal soggetto.
Oltrepassare l’oggettività consente di cogliere le cose nel loro rinviare alla totalità, comprendere l’uomo come apertura alla domanda.
La verità non è quindi un possesso
definitivo, la verità è la via. La
filosofia non è un sapere la totalità, bensì diviene un continuo superamento
delle risposte già raggiunte. Non si tratta di una dottrina, ma di un atteggiamento dell’esistenza. Si parla
allora di fede, non la fede religiosa che porta alla chiusura
dogmatica e indiscutibile, ma la fede
filosofica, che è tensione vigile e apertura verso ciò che è oltre.
Il
pensiero di Jaspers non è conclusivo, ma non per questo conduce alla rinuncia o
al nichilismo, in quanto rimane fondamentalmente aperto: la filosofia per lui
non è una sapienza/saggezza (sophia)
conseguita una volta per tutte, è amore
per la sapienza/saggezza (filo-sophia). È critica, è crisi. È “impedire che il mondo delle risposte copra la domanda e la invada fino
a oscurare la radice che l’ha generata” [4], e quindi è libertà, anzi, è liberazione.
Dal 1948
in poi Jaspers cominciò ad insistere “sugli
aspetti positivi della sua filosofia e [..] sul valore della fede come
rivelazione e manifestazione immediata dell’essere trascendente” [5].
Fede era per
lui la vita stessa, “un ritorno
all’origine misteriosa della vita, un ritorno in virtù del quale le cose
perdono la loro assolutezza e l’essere si manifesta in un’esperienza
inesprimibile, che i mistici hanno provato e metaforicamente descritto” [6]. Egli accentuò così gli aspetti
metafisici e teologici del suo pensiero, in contrapposizione con le vie
intraprese da altri filosofi esistenzialisti, ad es. J.P. Sartre.
Jaspers
non si identificò comunque con nessuna delle religioni “storiche”, difendendo
invece l’idea di religiosità come origine e fondamento.
Portò
questa visione anche nella sua concezione della storia umana, nella quale
giunse a identificare un particolare periodo, l’Era – o Periodo – Assiale (Achsenzeit), compreso tra l’VIII e il II secolo a.C.
Fu una età
che costituì un vero asse nella
storia universale, durante il quale “l’uomo
si rese consapevole dell’essere in generale, di se stesso e dei suoi limiti”
[7].
Nacquero
in quel periodo le grandi filosofie di Confucio e Laotse in Cina, delle Upanishad e del Buddha in India, di
Zarathustra e dei profeti biblici in Medio Oriente, di Omero e dei filosofi
classici in Grecia.
Prima di
allora il pensiero umano era privo di problematicità, il sapere era un sapere
del sacro, e perciò dogmatico. Dopo, l’uomo, pur biologicamente inferiore all’animale, si rivelò portatore di una
coscienza, che proviene dal suo essere mortale.
“Nel rifiuto di questa situazione limite
- scrisse Jaspers - egli sperimenta
l’eternità del tempo, la storicità come manifestazione dell’essere nel tempo,
l'obliterazione del tempo. La sua coscienza storica si identifica con la
coscienza dell’eternità [..] La crescita di quest'epoca in tutti e tre i mondi
in cui si è espressa, è costituita dal fatto che l'uomo prende coscienza [..]
dei suoi limiti. Egli viene a conoscere il carattere terribile del mondo e la
propria impotenza. Pone domande radicali [..].
Comprendendo così certamente i suoi limiti si propone obiettivi più
alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere se-stesso e nella
chiarezza della trascendenza” [8].
Alla fine
del Periodo assiale si compì anche la
separazione tra l’Oriente e l’Occidente, dove il processo si interruppe a causa
della techne, la tecnica,
l’aggressione alla terra e alla natura da parte dell’uomo, una tematica già
incontrata in Heidegger. Ne costituiscono un perfetto esempio le figure mitiche
di Adamo, che fu cacciato dal
Paradiso perché temuto anche da Dio, e di Prometeo,
che portò il sapere tecnico agli uomini che Zeus voleva distruggere – non a
caso il giovane Marx sostenne che la filosofia fa propria la professione di
odio di Prometeo nei confronti degli Dei, rivolgendola a tutte le divinità che
non si sottomettono all’autocoscienza umana, una divinità superiore a loro [9].
Uno dei
frutti della nozione di Periodo assiale è un’opera di Jaspers del 1957, I
grandi filosofi (Die große
Philosophen), suddivisa in tre sezioni: la prima, Le personalità decisive, è dedicata a Socrate, Buddha, Confucio e
Gesù; la seconda, I riformatori creativi
del pensare, a Platone, Agostino e Kant; la terza, I metafisici che attingono all’origine, ad Anassimandro, Eraclito,
Parmenide, Plotino, Anselmo, Cusano, Spinoza, Laotse e Nagarjuna.
L’intera
opera è stata tradotta in italiano e pubblicata nel 1973 presso Longanesi, ma
non è più reperibile in libreria. Nel 2013 l’Editore Fazi ne ha ora riproposto
la prima parte come testo autonomo [10],
il che ci permette di conoscere le modalità con cui Jaspers ha affrontato la
figura e l’insegnamento del Buddha storico.
Le fonti a
cui Jaspers ha attinto sono costituite, come si legge nella Bibliografia, dagli scritti buddhisti più
antichi: i Sutra, il Dhammapada, il Buddhacarita, il Theragatha
e il Therigatha, con i bellissimi
canti dei monaci e delle monache. Oltre alle opere di studiosi quali Oldenberg,
autore di un Buddha tradotto anche in
lingua italiana e tuttora reperibile.
Il testo
(di circa 40 pagine) inizia con una succinta biografia del Buddha śākyamuni:
qui il termine muni viene tradotto con
“il taciturno” (della stirpe degli śākya),
una traduzione corretta ma non molto comune (in genere si trova gioiello), che ha però il pregio di
rimandare da subito il lettore ad una significativa visione del Sentiero
buddhista come Via del Silenzio, una
via mistica quindi – se si intende
quest’ultima parola, che molti praticanti aborrono, nel suo senso etimologico,
dal greco myein, tacere.
Jaspers
riconosce che “non esiste alcun testo che
riproduca con certezza le parole di Buddha”, e che la realtà “deve essere criticamente ricostruita
sottraendo gli elementi palesemente leggendari e quelli che si dimostrano
aggiunte postume. Chi volesse attenersi a ciò che è necessariamente certo
arriverebbe, eliminando una cosa dopo l’altra, al punto in cui non rimane più
nulla del testo” – così come accade, ci piace aggiungere, a chi si volesse mettere
alla ricerca del proprio ego sostanziale, eterno, separato…
Quindi
Jaspers passa ad esporre la dottrina
del Buddha, il Buddhadharma, che “mira alla liberazione mediante la visione
intellettiva”, attraverso un sapere
che – diversamente dalla comune accezione del termine – “non si ottiene mediante processi logici di dimostrazione né sulla base
dell’intuizione dei sensi, ma si riferisce all’esperienza che si ottiene nelle
trasformazioni della coscienza e nei gradi della meditazione”. Il senso
autentico dell’insegnamento del Buddha – afferma correttamente Jaspers – “va perduto se è racchiuso nelle proposizioni
dottrinarie facilmente enunciabili e pensabili in modo astratto”.
Ma la
verità, sia del pensare filosofico sia dell’esperienza meditativa, deve essere
connessa “alla purificazione che la vita
dell’uomo consegue nel suo agire morale”. L’insegnamento del Buddha non è
un sistema conoscitivo, è un sentiero di
salvezza. È l’Ottuplice Sentiero,
che Jaspers così espone: “la fede retta,
la decisione retta, la parola retta, l’azione retta, la vita retta, la morte
retta, il pensiero retto, la concentrazione retta su di sé” [11].
In
sintesi, un corretto comportamento etico rende possibile la meditazione, questa
porta alla conoscenza e quest’ultima alla liberazione. I diversi aspetti non si
pongono però gerarchicamente l’uno sull’altro, ma agiscono di concerto, così
come avviene per gli otto rami dello Yoga.
Sono qui
interessanti le osservazioni di Jaspers in merito alla meditazione, la quale “non è
una tecnica che può riuscire di per sé sola. È pericoloso disporre
metodicamente dei propri stati di coscienza, accentuarne uno e farne scomparire
un altro. Ciò porta l’uomo alla rovina quand’egli si dà alla meditazione senza
ottemperare al giusto presupposto [che] consiste
nel modo in cui si conduce tutta la propria vita, nella purezza di essa”.
E ancora:
“i gradi meditativi non debbono
consistere in certi speciali stati psichici di ebbrezza, di estasi, di piacere
ottenuti con l’uso di hashish o di oppio, ma nella conoscenza più chiara
possibile, superiore in chiarezza a ogni coscienza normale, conoscenza
determinata da una presenza autentica e non dalla mera opinione”.
Jaspers è
ben consapevole del fatto che una descrizione del Sentiero costituisce già di
per sé “una cristallizzazione dottrinaria”,
in contraddizione con la definizione stessa del Sentiero come Via di
liberazione e non come sistema concettuale. Ma è anche vero che l’esposizione
del Dharma nei testi “si presenta come una conoscenza che viene
enunciata per la coscienza normale in distinte proposizioni e nessi razionali
di pensiero”. In tale esposizione, ovvero nei Sutra del Canone Pali o
in altri testi, “si avverte il gusto del
concetto, dell’astrazione, della nomenclatura. Della combinazione, che è del
tutto proprio della tradizione filosofica indiana”. Ma la comprensione
razionale dell’insegnamento non può coglierne il vero senso, essa è solo un
riflesso di quella concentrazione meditativa dalla quale l’insegnamento
scaturisce.
Vengono
poi esposti i punti-chiave dell’insegnamento del Buddha:
P le Quattro Nobili Verità
sul dolore (duhkha) e sul suo
superamento, che non portano ad un “atteggiamento
pessimistico, ma [sono uno] sguardo
conoscitivo sul dolore che tutto abbraccia”.
P Il sorgere condizionato (pratitya samutpada), la cui comprensione
“è in grado di arrestare tutto questo
terribile divenire spettrale”, e in merito al quale “non si prende in considerazione la possibilità di una caduta
assolutamente primitiva da una perfezione eterna nell’ignoranza, il che
potrebbe assumere l’aspetto di un analogo del peccato originale”.
P La dottrina (anatman) secondo
cui “l’esserci è composto di vari fattori
che si presentano fra i termini della serie causale, cioè dai cinque sensi e
dai loro oggetti [..] e inoltre dalle forze inconsce dell’immaginazione che
operano determinando disposizioni, impulsi, istinti, e costituiscono le potenze
che edificano la vita, e infine dalla coscienza”, fattori che alla morte si
dissolvono. Il Buddha “non nega l’io ma
fa vedere come nessun pensiero riesce a penetrare nell’io autentico”.
P L’insegnamento (anitya)
secondo cui ciò che esiste è “la corrente
del divenire, che non è mai essere; l’apparenza dell’io che in verità non è un
io sostanziale [..]. Il divenire è la catena delle esistenze momentanee [..], è
la prima momentaneità del non-essere di ogni cosa che sembra essere”.
P Il Nirvana, la liberazione
definitiva che si schiude dalla conoscenza. Jaspers riconosce bene come il
parlare del Nirvana sia un paradosso,
in quanto se ne parla rimanendo “entro il
campo della coscienza illusoria”, il che fa del Nirvana un essere o un nulla. Se il Nirvana non è né essere né non-essere, esso è inconoscibile con i
mezzi mondani, non può essere oggetto di ricerca scientifica, ma è comunque certezza. “Qui ha fine ogni questionare [..]. Si è annientato ciò che il pensiero
poteva cogliere: e così si è pure annientato ogni sentiero del linguaggio”.
Anche qui,
si conferma quanto già visto, il Dharma
“non [è] una metafisica, ma via della salvezza”, il Buddha “non si presenta come maestro di un sistema,
ma come nunzio del cammino della salvezza”. Le questioni metafisiche
diventano anzi “una nuova prigionia, perché
il pensiero metafisico si tien fermo proprio a quella forme dalle quali tende a
liberarci la via che conduce alla salvezza”. Di qui, la potenza del silenzio, che non significa che il
Buddha fosse privo di quelle conoscenze, ma che è invece strumento di
comunicazione del suo pensiero. La verità non proferita “non scompare, ma opera nello sfondo in modo tanto più formidabile in
quanto viene avvertita”.
Ugualmente
interessante è il paragrafo 4 del capitolo, Che
cosa c’è di nuovo nel pensiero di Buddha? Se si guarda alla dottrina, alla
terminologia, alle forme di pensiero – afferma Jaspers – non si trova nulla che
già non fosse presente nell’India di quel tempo: esistevano gli asceti e le
loro comunità, l’idea della liberazione attraverso la conoscenza, lo yoga, le rappresentazioni del mondo che
il Buddha accettò. Il punto è la categoria di nuovo, che, “usata come
criterio di valore, è propria di noi occidentali moderni”.
Volendo
comunque utilizzare tale categoria, costituisce allora una novità la “potente
personalità del Buddha”, la straordinaria tensione della sua volontà, volta
al superamento dell’ego. Ma proprio quel superamento è ciò che distrugge tale
tensione, ogni legame del Buddha con gli interessi mondani, con il desiderio. “Egli stesso è divenuto impersonale:
innumerevoli Buddha hanno compiuto nelle precedenti età cosmiche e compiranno
in quelle future ciò che egli ora compie [..]. Egli è l’unico ma lo è come mera
ripetizione”. È l’apparente paradosso “di
una personalità che ha operato mediante la scomparsa di tutti i suoi tratti
individuali”, una personalità “priva
della coscienza occidentale e della coscienza cinese dell’individualità”.
Ugualmente
nuovo è il fatto che egli lasciò
cadere alcuni elementi fondanti della tradizione indiana, in particolare
l’istituzione delle caste e la
potenza degli Dei. Non li combatté, semplicemente tolse loro ogni importanza.
Inoltre,
anche se il Buddhismo fu una dottrina aristocratica, che poteva essere intesa
solo da persone “di alto rango spirituale”,
il Buddha si rivolse a tutti gli
esseri viventi indistintamente, non solo gli uomini, ma anche gli Dei e gli
animali – diversamente da ciò che fecero religioni più recenti quali il
Cristianesimo o l’Islam. Ognuno doveva apprendere le sue parole secondo il
proprio linguaggio. Di qui la semplicità nell’espressione degli insegnamenti,
la continua ripetizione delle idee, l’uso frequente di metafore, parabole,
similitudini, versi.
Jaspers
dedica quindi alcune pagine alla storia del Buddhismo: la divisione tra Hinayana e Mahayana, la scomparsa del Buddhismo dall’India e la sua diffusione
nel resto dell’Asia, la trasformazione della “filosofia buddhista del cammino della salvezza [..] in una religione”
nella quale il Buddha diviene un dio cui appellarsi. In particolare, Jaspers si
dimostra piuttosto critico nei confronti del Buddhismo tibetano, nel quale “i vecchi metodi della magia divengono metodi
buddhisti, la comunità monastica si trasforma in una Chiesa organizzata con un
suo potere temporale”, analogamente a quanto avvenuto nel Cattolicesimo.
Positiva è
invece la figura del bodhisattva, già
presente nell’Hinayana ma
assolutamente centrale nel Mahayana:
“tutti gli esseri hanno innanzi a sé la
prospettiva [..] di diventare un bodhisattva che non entra ancora nel nirvana
soltanto perché dovrà ancora rinascere in qualità di un buddha per arrecare
agli altri la salvezza”.
E
comunque, nonostante gli Dei, i riti, i culti, le sette che la trasformazione
della filosofia in religione ha portato con sé, “il buddhismo è assurto a unica religione universale che non conosce
violenza né persecuzione di eretici né inquisizione né processo alle streghe né
crociate. [..] esso non ha mai visto comparire alcun contrasto tra filosofia e
teologia, tra libertà della ragione e autorità religiosa”, poiché “la filosofia è già di per sé azione
religiosa. Rimane valido questo principio: il sapere è già liberazione e
redenzione”.
Ma infine,
“che significato hanno per noi il Buddha
e il buddhismo?”. È una domanda imprescindibile, motivo per cui proponiamo
qui, per esteso, la risposta di Jaspers:
“Non dobbiamo dimenticare
che nel Buddha e nel buddhismo scorre l’acqua di una fonte che noi occidentali
ci siamo preclusa e che ci si trova qui di fronte a un limite dell’intelligenza
umana. È necessario sentire la straordinaria distanza in cui si trova la
serietà del buddhismo e vietarci ogni facile e sbrigativo tentativo di
avvicinamento. Dovremmo prima cessare di essere quel che siamo per poter
prendere essenzialmente parte alla verità del Buddha. La differenza qui in
gioco non è quella che può sussistere tra due posizioni razionali, ma quella
che riguarda la disposizione pratica e il modo di pensare nella loro essenza.
Ma al di là di ogni possibile distanza, non dobbiamo perdere di vista l’idea
che siamo tutti degli uomini. Si tratta in ogni caso delle medesime questioni
che riguardano l’esserci dell'uomo. Nel Buddha si è trovata e realizzata una
grande soluzione di questo problema e a noi spetta il compito di conoscerla e
di intenderla secondo le nostre forze.
La questione è qui di sapere fin dove arriva la nostra comprensione di ciò
che noi stessi non siamo né possiamo realizzare. È nostra esigenza che questa
comprensione si avvicini sempre più alla sua meta, in un processo senza
limiti, quando però ci si astiene da una comprensione frettolosa che si presume
definitiva. Nel nostro intendere teniamo deste delle possibilità di noi stessi
che ci sono profondamente chiuse e ci vietiamo di erigere la nostra condizione
storica in una verità assoluta e definitiva.
Abbiamo il diritto di affermare che tutto ciò che è detto nei testi
buddhistici si rivolge alla normale coscienza desta e deve perciò da questa
coscienza potersi intendere almeno fino a un certo punto.
È un grande fatto storico che sia stato possibile condurre una vita come
quella del Buddha che egli realizzò in sé e che, inoltre, sia stato possibile
in Asia fino a oggi vivere secondo il buddhismo. Questa semplice
constatazione dimostra quanto sia problematica la condizione umana. L’uomo non
è ciò che è stato determinato una volta e per sempre, ma è aperto. Egli non
riconosce una sola soluzione o una sola realizzazione come l’unica esatta. Il
Buddha è la realizzazione di un’essenza umana che non riconosce alcun compito
positivo riguardo al mondo, ma, dentro il mondo, abbandona il mondo stesso.
Non lotta, non contrasta, ma vuole soltanto dissolvere l’esserci fondato sull’ignoranza,
e lo vuole in modo così radicale da non aspirare nemmeno alla morte, perché ha
trovato al di sopra della vita e della morte il luogo dell’eternità. È vero che
nel mondo occidentale si possono trovare determinazioni analoghe da far valere
di fronte a questi atteggiamenti buddhisti, come l’imperturbabilità, la
liberazione mistica dal mondo, il non contrastare i malvagi, che sono propri
della figura di Gesù. Però in Occidente tutto ciò è soltanto un abbozzo o un
elemento particolare, mentre in Asia assurge a valore totale e perciò ha un
altro significato.
Resta perciò tra questi due mondi una reciproca tensione stimolante, e
come fra le singole persone una si oppone all’altra così, in grande, è un mondo
spirituale che si oppone a un altro. Come nei rapporti personali, nonostante
l’amicizia, la confidenza, la benevolenza, si può talora avvertire una
subitanea lontananza tra gli individui, come se io e l’altro sfuggissimo in
direzioni opposte e fossimo separati dall’impossibilità di esser altro, senza
però volerlo riconoscere, poiché non cessa mai di operare l’esigenza di riferirci
assieme al centro dell’eternità che ci fa cercare incessantemente una migliore
intesa reciproca, ebbene, la stessa situazione si è verificata tra l'Asia e
l'Occidente”.
********************
Note
1. Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia,
Ed. UTET, vol. III, pag. 849 e segg.
2. Cit. in N. Abbagnano, pag. 850
3. Cit. in U. Galimberti, Esistenzialismo
ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia del pensiero occidentale, Ed.
Curcio, vol. VI, pag. 1543
4. Id., pag. 1548
5. N. Abbagnano, pag. 858
6. Id.
7. Id., pag. 859
8. Cit. in D. Smizer, Periodo assiale e periecontologia”,
in: http://digilander.libero.it/moses/jaspers04.html
9. Id.
10. K. Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù –
Le personalità decisive, Ed. Fazi. Tutte le citazioni successive sono
tratte da questo testo. Il capitolo dedicato al Buddha si trova da pagina 43 a
pagina 84.
11. In effetti, nel Sutra in cui il Buddha li espose, gli otto aspetti del Sentiero
sono così elencati: retta visione, retta
intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo,
retta presenza mentale, retta concentrazione. Cfr. il Discorso della messa in moto
della ruota del Dharma, in: La rivelazione del Buddha – I testi antichi,
Ed. Mondadori, pag. 8. Si notano alcune differenze rispetto all’esposizione di
Jaspers, che non sembrano dovute soltanto ad una diversa traduzione.
Da leggere
U.
Galimberti, Esistenzialismo ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia
del pensiero occidentale, Ed. Curcio
K.
Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – Le personalità
decisive, Ed. Fazi
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