mercoledì 7 novembre 2012

UNISABAZIA 2011/12 - Padma nata dal loto

Padma nata dal loto

“Nel decimo [giorno] – racconta Ulisse ai Feaci – giungemmo al paese dei Lotofagi, i quali mangiano un cibo di fiori. [..] io spedii alcuni compagni verso l’interno con l’ordine di andare ad informarsi che uomini erano quelli [..]. Partivano essi e si trovarono ben presto in mezzo ai Lotofagi. E non meditavano, i Lotofagi, la rovina ai compagni nostri, anzi diedero loro del loto da mangiare. E chi via via assaggiava il dolce frutto del loto, non aveva più voglia di recar indietro notizie, più voglia di tornare, ma volevano restare là, tra i Lotofagi, a brucar loto, dimentichi di ogni ritorno” (1).
Se per Omero, come per Erodoto, il loto era solo un fiore dalle strane proprietà, talvolta commestibile sotto forma di farina, presso altri popoli esso era da secoli un simbolo religioso fortemente evocativo. A partire dagli Egizi, i quali, forse per le sue forme, per i suoi colori, per le sue foglie aeree, per la sua caratteristica di aprirsi solo con il sorgere del sole, lo associarono al divino, quale simbolo delle acque primordiali, del sole, della femminilità. Secondo alcune tradizioni egizie, da un loto sbocciato spontaneamente nacque il demiurgo, il dio creatore; per altre, il sole stesso era sorto per la prima volta dalla corolla di un loto, e sovente il sole ed il loto venivano identificati. Nel Libro dei Morti il loto, unico fiore che emerge dall’acqua, raffigura un’isola (la creazione primigenia) dalla quale sorgeranno tutte le differenziazioni. Il Faraone stesso era spesso rappresentato come nato da un loto, o nell’atto di trasformarsi nel fiore/sole.
Queste ed altre associazioni simboliche del fiore di loto si ritrovano tra i popoli mesopotamici e, più ad Oriente, in India, in Cina, in Giappone. In Occidente un ruolo simbolico di importanza, sia pur minore, verrà invece ricoperto, tra fiori, soprattutto dalla rosa (la rosa mistica).
Se si esamina in particolare la spiritualità indiana, si osserva che il loto come persona divina non figura nella tradizione classica dei Veda (2). Infatti, la pianta del loto era sconosciuta alle popolazione arie (da arya = nobile, in senso spirituale) che dal Nord si riversarono in India. Solo più tardi il loto (pur menzionato nei Veda, ma solo come attributo del dio Agni [3], che è sovente definito come “nato dal loto”) diverrà la Dea Padma (il nome del loto in lingua sanscrita). Molto probabilmente, però, la dea era già conosciuta e venerata dalle popolazioni pre-arie che abitavano il territorio indiano, prima del riconoscimento “ufficiale” da parte degli invasori arii.
Padma
In un inno tardivamente aggiunto ai Veda, Padma, divina personificazione del loto, viene chiamata con i due nomi che la contraddistinguono: Sri e Lakshmi.
Sri (“prosperità”, “fortuna”) incarna tutto ciò che gli uomini e gli dèi possono desiderare di buono. Laksmi (“marchio”, “segno”) è la personificazione della buona sorte, della grazia, dell’incanto. Essa sorse dall’Oceano di Latte durante la burrificazione. Ogni parte del suo corpo divino è in stretta connessione con aspetti della vita umana (sono i suoi doni): quando è in piedi (su un loto) è la casa, se è seduta sulle cosce è la ricchezza; i genitali sono la moglie, il petto i figli, il cuore è l’esaudimento dei desideri, il volto la bellezza e la poesia. Come si vede, anche se Sri e Laksmi sono nomi che contraddistinguono Padma, esse assurgono al ruolo di persone divine “autonome”, fenomeno che è molto comune nella spiritualità indiana (4).
Nell’inno post-vedico Padma è celebrata come Padmasambhava (“nata dal loto”), Padmevarna (“del colore del loto”), Padmakshi (“occhi di loto”)… In un verso è detta prajanam bhavasi mata, “tu sei la madre di tutte le creature”. Infatti Padma è legata alla fertilità (la terra da cui il loto nasce, l’acqua che attraversa per giungere a fiorire nell’aria), ed è pertanto venerata come madre di Kardama, “fango”, e Ciklita, “umidità”, divine personificazioni di ciò che rende fertile un terreno.
Molte divinità hindu sono rappresentate sedute o in piedi su un animale, il loro “veicolo” (vahana), che rappresenta la natura, la potenza della divinità: Brahma siede su un’oca, Shiva su un toro, Agni su un ariete, Ganesha su un topo… Padma è invece Padmesthita, “ritta sul loto”, il fiore a cui è assolutamente connessa. Padma è quindi immagine personificata di ciò che il fiore di loto rappresentava: la fertilità, il potere generatore femminile; essa è madre del mondo, ed in quanto tale era sicuramente legata al culto della Dea Madre che precedette le divinità maschili successivamente imposte alle popolazioni indigene dagli invasori arii (pastori e guerrieri, attività tipiche di società patriarcali). Infatti, nelle rappresentazioni dei miti cosmogonici indiani, certamente di epoca posteriore, Padma scompare dalla sommità del loto, su cui viene invece posto il dio Brahma. Il fiore conserva la sua funzione simbolica, ma il ruolo del creatore viene svolto da una figura maschile, come si osserva in una nota immagine, più volte riprodotta nell’iconografia indiana, che raffigura la creazione dell’universo:
il dio Visnu giace dormiente sulle spire del serpente Ananta (il nome significa “infinito”), che a sua volta galleggia sulle acque primordiali, l’oceano dell’inconscio ancora privo di differenziazioni (il caos da cui tutto ha origine). Ananta è detto anche Shesa, “residuo”, in quanto simbolo di ciò che rimane dalla distruzione degli universi precedenti, creati e poi distrutti in un ciclo senza fine.
Dall’ombelico di Visnu spunta un fiore di loto, che sulla corolla sostiene il dio Brahma, il demiurgo-creatore dai quattro volti (le direzioni dello spazio). Alla sua destra Indra, sull’elefante. A sinistra, sul toro, Shiva e la sua compagna, Parvati. Accanto a loro forse Skanda, dio della guerra.
Il loto su cui siede Brahma rappresenta quindi l’atto creativo, e lo stelo è l’asse centrale (il mitico monte Meru [5] ) intorno al quale si organizza la creazione dell’universo.
Ai piedi di Visnu, particolare molto significativo, è Sri-Laksmi-Padma, sposa di Visnu, “spodestata” dal suo posto sul loto e quindi privata del suo ruolo, raffigurata in una classica postura di sottomissione della donna nei confronti dell’uomo, al quale massaggia le gambe e i piedi.
Ritorniamo ancora all’identità micro/macrocosmo, tipica della spiritualità tradizionale: si è visto come Ganga/Yamuna/Sarasvati si ritrovino nel corpo umano come Ida/Pingala/Sishumna nadi. Lo stesso avviene per il simbolo del loto. Infatti nelle rappresentazioni del corpo secondo la fisiologia dello Yoga (in particolare nelle sue correnti tantriche), i centri di energia detti chakra (= ruota, cerchio), presenti nel corpo “sottile”, sono tradizionalmente raffigurati con le forme del fiore di loto. Il primo dei sette chakra principali (6), detto Muladhara (mula = radice), situato alla base della colonna vertebrale (plesso sacro-coccigeo), ha la forma di un loto rosso con 4 petali, su cui sono inscritte in oro 4 lettere dell’alfabeto sanscrito. Al centro del loto si trova un quadrato giallo, simbolo dell’elemento Terra, con un triangolo con la punta in basso, simbolo dell’energia sessuale femminile. Il Muladhara è in rapporto con la forza di coesione della materia, con il senso dell’odorato, con divinità quali Indra, Brahma…
Intorno al chakra, avvolta in spire, dorme Kundalini, raffigurata come un serpente, energia cosmica latente nell’uomo, che viene risvegliata attraverso le pratiche dello Yoga e si manifesta allora come calore intenso, energia sessuale…
Risalendo nel corpo, si incontrano lo Svadhisthana chakra (loto rosso-arancio con sei petali), il Manipura (loto blu con dieci petali), lo Anahata (loto rosso con dodici petali), il Vishuddha (loto rosso cenere con sedici petali), e nel plesso cavernoso, tra le sopracciglia, lo Ajna chakra, un loto bianco con due petali, sede delle facoltà conoscitive. Nel loto è inscritto un triangolo bianco con la punta in basso. La dea tutelare è Hakini, seduta su un loto bianco. Ajna è noto in Occidente come il “terzo occhio”, segno di particolari facoltà psichiche (7).
Si osservi qui che il totale dei petali dei primi sei chakra è cinquanta, il numero delle lettere dell’intero alfabeto sanscrito.
Infine, sulla sommità del capo, si trova il Sahasrara chakra, un loto capovolto con mille petali (sahasra = mille), con inscritte tutte le lettere sanscrite in tutte le loro possibili articolazioni (50 x 20). Al centro del loto, una luna piena con un triangolo. Lì sbocca l’energia cosmica, Kundalini, dopo che ha attraversato i sei chakra inferiori, e lì si sperimenta l’unione delle energie, del maschile e del femminile, di Sole e Luna, di Shiva e Shakti, la sua compagna, la sua potenza in atto (8).
Ad ogni chakra, come si è accennato, corrispondono un elemento (Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere), un senso (i cinque sensi più il mentale, il c.d. “sesto senso”), e ancora colori, forme geometriche, lettere (che a loro volta sono simboli con precisi significati), suoni, divinità… L’intero universo è riflesso nel corpo umano, e viceversa.
Le pratiche (corporee, respiratorie, meditative…) legate ai chakra e al corpo grossolano e sottile non sono esclusive delle scuole yogiche della tradizione hindu, ma sono state altresì recepite da alcune correnti del Buddhismo Mahayana (il c.d. buddhismo tantrico), presenti in Tibet, Mongolia, Cina, Giappone, ed oggi anche in Occidente.
Più in generale, il buddhismo nel corso della sua storia ha assorbito miti, simboli, divinità, pratiche, appartenenti alle più disparate tradizioni dei paesi in cui è giunto. E il simbolo del loto non ha certamente costituito un’eccezione.

Il silmbolo della scuola Shingon
Nell’iconografia della scuola giapponese Shingon (= “vera parola”), ad esempio, il loto rappresenta lo spirito che sorge dalla materia.
Secondo la biografia tradizionale, al momento della nascita Siddhartha, il futuro Buddha, compì sette passi nelle quattro direzioni dello spazio, e sotto i suoi piedi sbocciarono fiori di loto. Il Buddha stesso, in un antico testo, è definito “senza macchia, come il loto nuovo nell’acqua fangosa, che non gli aderisce” (Lalitavistarasutra).
Mentre il loto bianco rappresenta la purezza mentale assoluta di un Buddha, il loto rosso simboleggia la grande compassione dei Buddha e dei bodhisattva nei confronti di tutti gli esseri. È infatti uno dei segni distintivi del bodhisattva Avalokiteshvara (Cenresig per i tibetani, Kuan Yin in Cina, Kannon in Giappone), personificazione della Compassione.
Gli otto petali del loto, così come viene spesso raffigurato, sono poi il simbolo dell’Ottuplice Sentiero (9), la via che conduce alla liberazione dalla sofferenza, esposta dal Buddha nel suo primo sermone, il Discorso sulle Quattro Nobili Verità (10).
In molte raffigurazioni il loto è tenuto in mano da Prajnaparamita, la personificazione della Saggezza Suprema. E sopra il loto, che qui rappresenta la completa comprensione degli insegnamenti buddhisti sulla vacuità (11), sono posti i testi che raccolgono tali insegnamenti.
Nell’iconografia buddhista, quasi sempre i Buddha e i bodhisattva vengono rappresentati seduti o in piedi al centro di fiori di loto aperti. Il gran numero di petali (con i filari inferiori talvolta rovesciati) indica la pluralità dei mondi nei quali essi dimorano.
E, a proposito della postura seduta nella quale sono spesso raffigurati, essa è detta proprio padmasana, la postura del loto, che è la classica postura (asana, in sanscrito) della meditazione, in quasi tutte le tradizioni spirituali non solo dell’Asia. Infatti è la sola postura che consenta di mantenere il corpo verticale, in maniera stabile e comoda, per lunghi periodi, permettendo sia una corretta ed ampia respirazione sia il rilassamento di tutte le parti del corpo non interessate dalla postura stessa. Si ha in tal modo un solido radicamento al suolo, una perfetta verticalità del dorso ed una estensione del corpo stesso verso l’alto, a partire dalla vita. Esattamente l’immagine del fiore di loto, che nasce dalla terra, attraversa il fango senza esserne contaminato, e si apre verso la luce dopo essere uscito dalle acque.
Innumerevoli sarebbero gli esempi possibili in merito alla presenza della simbologia del loto nel buddhismo. Un’ultima annotazione può essere riservata al più conosciuto tra i mantra (12) che vengono recitati nella tradizione tibetana, il Mantra delle Sei Sillabe, che i devoti recitano, incidono sulle pietre, inseriscono nelle ruote di preghiera.

OM MANI PADME HUM
Il mantra è: Om Mani Padme Hum, e come si vede ricorre in esso il nome del loto, al vocativo, Padme. Molte pagine sono state scritte su questa invocazione, sul suo significato, sulle sue possibili traduzioni. Essa era stata già oggetto di studio da parte del gesuita Ippolito Desideri, che la ascoltò in Tibet nel 1728 e ne annotò la corretta pronuncia, “om mani peme hum”. Di certo, essa è ancora oggi recitata da milioni di devoti, per centinaia, migliaia di volte, in onore di Avalokiteshvara, ed infatti è tanto più efficace quando la pratica del mantra è inserita nelle pratiche complete del bodhisattva della Compassione. Ciò che qui importa, al di là delle dispute tra eruditi, spesso inutili se non addirittura di ostacolo in una pratica spirituale, è che ancora una volta si conferma come un simbolo – qui, il loto – non svolga una semplice funzione letteraria, come una leggenda interessante ma ormai priva di senso, oppure estetica, come un ornamento in una immagine dipinta o scolpita; bensì come esso sia, per il praticante di una disciplina spirituale, una realtà vivente, portatrice di senso e di valori, un valido strumento di conoscenza, quasi anticipatore di superiori livelli di conoscenza e di evoluzione interiore.


Note

1) Odissea, libro IX.
2) Il termine Veda (“conoscenza”) indica le quattro raccolte di testi sacri, composti a partire dal 1500 a.C., che costituiscono il fondamento della spiritualità indiana.
3) Agni, dio del fuoco, strettamente collegato alla pratica del sacrificio nel periodo vedico (cfr. il termine latino ignis, fuoco).
4) Questa osservazione può aiutare a comprendere per quale motivo la definizione dell’induismo come religione politeistica sia non solo superficiale, ma erronea. Meglio sarebbe, se proprio si volesse incasellare il fenomeno “induismo” nelle categorie del pensiero occidentale, usare il concetto di “monismo politeistico”: ogni persona divina può essere ricondotta ad una superiore, fino a giungere al brahman (termine né maschile né femminile), che indica il potere onnipervadente, esistente in sé e di per sé, l’unità cosmica eterna, impersonale, priva di attributi, di cui le potenze singole (gli dèi e le dee) sono aspetti particolari, e da cui si manifestano tutte le cose.
5) Il monte Meru (o Sumeru), non meglio identificato dal punto di vista geografico, ricopre nella simbologia indiana il ruolo di asse cosmico (axis mundi) svolto in altre tradizioni da montagne sacre quali l’Olimpo, il Fujiyama, il Kilimanjaro, il Kailasa…
6) Ci si rifà qui alla descrizione, assolutamente coerente con quelle delle tradizioni dello Yoga, riportata da Mircea Eliade (Romania, 1907/1986), uno dei più grandi studiosi delle religioni, e praticante Yoga egli stesso.
7) Si rammenti il mito classico dei Ciclopi, giganti con un solo occhio in mezzo alla fronte (cfr. Odissea, libro IX).
8) Può essere interessante notare come la simbologia delle nadi, dei chakra e di Kundalini/serpente non sia del tutto assente dall’iconografia occidentale: cfr. l’immagine del caducéo (= bastone dell’araldo) del dio Ermete/Mercurio, ancora oggi presente nelle farmacie cittadine.
9) Retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta attenzione, retta concentrazione, retto pensiero, retta comprensione.
10) La Sofferenza, le Cause della Sofferenza, il Superamento della Sofferenza, la Via che conduce al Superamento della Sofferenza (l’Ottuplice Sentiero).
11) Per “vacuità” non si intende la non-esistenza dei fenomeni, bensì il fatto che i fenomeni stessi (compreso il sé) sono privi di esistenza intrinseca, ovvero esistono solo in relazione agli altri fenomeni. Sono pertanto impermanenti ed interdipendenti.
12) Il termine sanscrito mantra indica una formula sacra (man, da manas = mente; tra da traya = protezione: quindi “protezione della mente”), recitati dai praticanti hindu, buddhisti… all’interno delle loro pratiche spirituali. Ad oggi, l’uso del mantra nel buddhismo è diffuso soprattutto nelle scuole del b. tibetano e nel b. esoterico giapponese (Tendai e Shingon). Il più importante dei mantra è certo l’ OM, conosciuto anche in Occidente.


Testi utilizzati


Omero, Odissea, Ed. Garzanti
Grant-Hazel, Dizionario della mitologia classica, Ed.SugarCo
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini
AA.VV., Dizionario delle religioni orientali, Ed. Vallardi
Cornu, Dizionario del buddhismo, Ed. Bruno Mondadori
Frederic, Il loto, Ed. Mediterranee
Zimmer, Miti e simboli dell’India, Ed. Adelphi
Eliade, Lo Yoga – Immortalità e libertà, Ed. Sansoni
Lopez, Prigionieri di Shangri-La, Ed. Ubaldini

m. Mauro Ton Ko , novembre 2011

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