venerdì 3 aprile 2015

Buddhismo Zen e letteratura: gli haiku


Nel 1968, in occasione della consegna del premio Nobel per la letteratura, il vincitore, lo scrittore giapponese Yasunari Kawabata (1899-1972), tenne un discorso che è ancor oggi considerato un importante punto di riferimento per la comprensione della tradizione letteraria del Giappone.
Yasunari Kawabata
In quel discorso, intitolato Il Giappone, il Bello ed io (o meglio: La tradizione estetica giapponese da cui provengo), Kawabata cercò di spiegare in che cosa consiste la bellezza letteraria giapponese, senza però dirlo esplicitamente, in piena coerenza proprio con la tradizione estetica cui apparteneva. Lo fece citando non i romanzi, che pure abbondano nella produzione letteraria nipponica, bensì soltanto dei poemi. E non opere dei grandi poeti, ma poemi scritti da monaci buddhisti, iniziando con una poesia di Eihei Dōgen (1200-1253), il monaco che fondò la scuola Zen Sōtō:

In primavera i fiori,
d’estate il cuculo,
in autunno la luna,
d’inverno la neve,
e il suo freddo fulgore.

Non è, come potrebbe sembrare, una semplice poesia naturalistica, e il suo stesso titolo, Il volto originario, lo conferma. È l’espressione in versi della realtà ultima, la realtà così com’è, il volto originario delle cose, la natura di Buddha.
Lo stesso si può dire del secondo poema citato da Kawabata, scritto da un altro monaco buddhista, Myōe (1173-1232), mentre si stava recando in un eremo di montagna per un ritiro invernale:
Uscendo dalle nuvole,
ecco che mi accompagna
la luna d’inverno.
Il vento, come mi trafigge;
la neve, quant’è gelida…

Anche qui, ciò che conta non è la descrizione di un uomo solo nella gelida notte invernale, illuminata dalla luna. Bensì la sua esperienza spirituale di comprensione delle cose, di profonda unità con esse così come sono.
Myoe Shonin

 Attraverso le citazioni delle opere dei monaci, Kawabata rinvia quindi all’esistenza di un indissolubile legame tra l’estetica letteraria e la tradizione buddhista, in particolare quella dello Zen, che ha effettivamente e profondamente influenzato tutti gli aspetti della cultura nipponica: la poesia (kado), il teatro , la pittura (sumi-e, inchiostro nero-pittura), la calligrafia (shodo), l’arte della spada (kendo) e del tiro con l’arco (kyudo), l’arte della composizione floreale (kado, la via dei fiori, o ikebana, fiori viventi), la cerimonia del tè (cha no yu, acqua calda per il tè, ovvero chado, la via del tè), ecc.
Come ha scritto Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966), che per primo ha fatto conoscere lo Zen in Occidente attraverso i suoi libri, “se le altre scuole buddhiste hanno limitato la loro area d’influenza quasi esclusivamente alla dimensione spirituale dei Giapponesi, lo Zen è riuscito a penetrare in ogni aspetto della loro vita culturale[1]. Cosa che non accadde in Cina, dove lo Zen (Ch’an) si legò “in larga misura alle pratiche e alle credenze taoiste e agli insegnamenti etici confuciani, senza tuttavia influenzare la cultura popolare[2].

Lo Zen rientra nella tradizione del buddhismo Mahayana (il Grande Veicolo), ma rispetto ad altre scuole mahayaniche (ad esempio quelle del buddhismo tibetano) ha elaborato una didattica specifica, “che consiste nello scrutare direttamente il mistero del proprio essere, […] la Realtà stessa[3]. Per fare questo, non si basa tanto sulle Scritture, i Sutra, né sui dogmi o sull’ascetismo, ma piuttosto fa ricorso ad una modalità di comprensione intuitiva non fondata sui concetti, i quali “sono utili per definire la verità delle cose ma non per farcela conoscere direttamente[4].
Dal punto di vista dello Zen, la comprensione puramente logica, discorsiva, razionale (che è tipicamente occidentale), può senz’altro rendere più sapienti, più saggi, ma rimane comunque superficiale, un mero accumulo di nozioni. La conoscenza diretta, intuitiva, della realtà è una conoscenza viva, ed è molto più forte “quando affronta ciò che è fondamentale nella vita, vale a dire ciò che riguarda la religione, l’arte e la metafisica[5].
È proprio questo il contributo che lo Zenha dato alla formazione di una consapevolezza artistica nel popolo giapponese[6].
Quella modalità di conoscenza diretta, non concettuale, che permette di cogliere, di gettare uno sguardo nel mistero della realtà, della vita, viene chiamato in giapponese satori (wu in cinese). Anche se l’esperienza del satori ricorda in qualche modo un atto di grazia divino o un privilegio riservato a quelle poche persone dotate di un genio artistico, il Ch’an/Zen ha sviluppato, a partire dall’esperienza del Risveglio del Buddha, una propria didattica che è messa a disposizione di chiunque, proprio perché – e qui lo Zen è in totale accordo con la visione Mahayana – “il genio dello Zen dorme in ciascuno di noi e chiede di essere risvegliato[7].

Nel contesto delle tradizioni culturali del Giappone, la forma nella quale questo spirito si manifesta nelle modalità più sublimi è proprio, come aveva visto Kawabata, la poesia buddhista, ed in particolare la poesia haiku. Nell’haiku infatti non c’è “mediazione fra l’ispirazione artistica e la mente dalla quale proviene[8] e, per usare una terminologia occidentale, l’inconscio può emergere, al di là dei concetti e delle razionalizzazioni.

La storia dell’haiku inizia nel Giappone del periodo Muromachi (1392-1573). In quell’epoca “divenne popolare l’abitudine di riunirsi a comporre waka (poesia giapponese, il primo genere poetico della storia del Giappone e il più diffuso fino ad oggi) in gruppi in cui ogni partecipante, a turno, componeva un emistichio su un tema scelto in precedenza. Lo waka ha 31 sillabe che seguono la metrica 5-7-5-7-7 ed è suddiviso in due emistichi[9], il primo di 3 versi e il secondo di 2. Da qui nacque la poesia collettiva detta renga o renku (poesia o emistichi a catena).
In seguito, la strofa iniziale (chiamata hokku) divenne indipendente dal resto della composizione, e nacque quello che fu poi denominato haiku (forma contratta di haikai no ku, ovvero “verso di un poema a carattere scherzoso”).
La prima caratteristica fondamentale dell’haiku è dunque la sua struttura concisa: 3 versi di 5-7-5 sillabe[10]. Nel seguente haiku, scritto dal monaco Daigu Ryōkan (1758-1831), il numero delle sillabe è stato mantenuto anche nella traduzione in italiano:

nusubito ni                                         La bella luna
tori nokosareshi                                 che il ladro ha lasciato
mado no tsuki                                     alla finestra.

Nella sua concisione, la poesia haikuvalorizza il vuoto, cioè gli interstizi tra le cose[11].
Come la pittura ad inchiostro, il sumi-e, non riempie gli spazi, ma anzi “l’economia dei tratti di pennello […] assurge a strumento espressivo di primaria importanza[12], nello stesso spirito l’haiku evidenzia il vuoto di suoni, il silenzio. Quel silenzio che, non a caso, è uno degli aspetti fondamentali della Via dello Zen – fondata dal Buddha Shakyamuni, nome quest’ultimo tradotto sì come il Saggio, ma altresì traducibile come il Silenzioso degli Shakya. Quello stesso silenzio che permeava l’atto di nascita dello Zen secondo il mito, il momento in cui il Buddha fece ruotare un fiore tra le dita e lo porse al discepolo Mahakasyapa il quale, unico tra i presenti, con un sorriso silente aveva mostrato piena comprensione dell’insegnamento.
Il silenzio, il non-detto dell’haiku è il frutto delle sue radici buddhiste, “per cui non sono le cose ad essere importanti, ma lo sfondo vuoto in cui si iscrivono[13], essendo esse stesse vuote, ovvero non esistenti di per sé stesse, bensì nella loro relazione con tutte le altre. Il vuoto dell’haiku (o del sumi-e, o di altre forme artistiche di questa tradizione) non è quindi l’assenza, il non-essere[14], ma è lo spazio che al contrario permette la ricchezza dell’esistenza, il divenire, la relazione con l’altro, l’unità con il Cosmo.
È quindi facilmente intuibile il motivo per cui agli haiku non venisse dato alcun titolo.

L’haiku, oltre alla sua immediatezza e – apparente – spontaneità, risponde anche ad altri criteri stilistici, i quali sono tutti il frutto di un lungo e difficile esercizio.
A questo proposito si può citare un haiku di Kobayashi Issa (1762-1826), che sembra essere stato composto in poco tempo, ma che ha invece richiesto molti mesi di rielaborazioni successive, a partire, questo sì, da una ispirazione istantanea:

Una grossa lucciola,
in vibrante tremolio,
s’allontana – penetrante.

In ogni haiku si trova un riferimento temporale (kigo, la “parola della stagione”), che definisce il periodo dell’anno cui il poema si riferisce. Il kigo può essere un animale (ad esempio la lucciola per l’estate), un evento, un luogo ecc., ed è considerato il cuore dell’haiku. Esistono anche dei veri e propri cataloghi che li raccolgono, suddivisi in 7 sezioni convenzionali: Stagioni, Fenomeni celesti o terrestri, Eventi, Vita umana, Animali e Piante[15].
Un haiku presenta poi almeno un kireji, una “parola che taglia”, indicata da termini giapponesi (ad es. ya, kana, keri) non sempre traducibili[16], che segnala una cesura, un ribaltamento concettuale, un capovolgimento di senso. Molto spesso è proprio questo ciò che costituisce la “riuscita” di un haiku, in quanto ne permette una piena comprensione attraverso un salto logico, un lampo di intuizione che mette in relazione tra loro elementi apparentemente privi di connessione, ma in realtà uniti tra loro ad un livello profondo, non logico-razionale.
Un esempio di kireji (reso con il trattino alla fine del primo verso) lo si trova nel seguente haiku di Mizuta Masahide (1657-1723)[17]:

Il tetto s’è bruciato –
Ora
posso vedere la luna.

 Il poeta – e praticante ZenMatsuo Bashō (1644-1694), che è considerato il fondatore della moderna tradizione degli haiku e il capostipite di tutti gli haijin (i compositori di haiku), consigliò di “seguire la natura, tornare alla natura[18]. Ma la natura verso cui Bashō invitava a ritornare “non è quella delle convenzioni letterarie: è la natura reale, compagna delle lunghe peregrinazioni a piedi[19] compiute da Bashō e da tanti altri personaggi della storia della cultura giapponese che erano insieme monaci buddhisti itineranti, poeti, pittori, e magari maestri dell’arte della spada. È la natura della cose piccole, spesso insignificanti, del mondo animale, vegetale ed anche inanimato; descritte senza enfasi né compiacimento, senza separazione tra l’osservatore, l’osservato e il resto dell’universo: “le distinzioni non si addicono al mondo dell’haiku: esso sottolinea, piuttosto, la totalità – unico modo […] di cogliere la particolarità delle cose[20].
Gli haijin, invece di “discutere di grandi ideali o di pensieri esageratamente astratti, preferiscono coltivare i crisantemi e i convolvoli, e quando arriva la bella stagione si entusiasmano nel vederli sbocciare[21].
Ed infatti negli haiku si parla spesso di formiche, ranocchie, fiori senza nome, foglie cadute, e perfino di pulci e pidocchi, di nasi freddi e di ombrelli, di gocce d’acqua e di pietre…
A partire da queste immagini, il poeta fissa nei versi uno stato d’animo, un sentimento, quale ad esempio:
-          sabi, ciò che è povero, scarno, avvolto dalla patina del tempo che scorre;
-          wabi, lo stupore che si prova di fronte a ciò che si dà spesso per scontato;
-          mono no aware, la consapevolezza della caducità delle cose;
-          yūgen, il fascino profondo e misterioso delle cose, dell’universo;
-          karumi, la leggerezza, la bellezza nella semplicità;
-       shiori, la delicatezza, ciò che porta il lettore verso la compassione, l’empatia nei confronti delle esistenze.

Si propongono ora alla lettura alcuni esempi di haiku, tutti tratti dalla monumentale antologia Il grande libro degli haiku (1500 pagine!) curata da Irene Starace e pubblicata da Castelvecchi Editore nel 2005, iniziando con il già citato:

Matsuo Bashō
(1644-1694)                Antico stagno.                                                Il profumo delle orchidee
                          Una rana si tuffa.                                           impregna
                          Suono d’acqua.                                              le ali delle farfalle.     

                          Voci umane!                                                   Lacrime di venerazione
                          Tornano per questa strada                             tingono le foglie
                          tramonto d’autunno.                                      rosse che cadono.

Yosa Buson
(1716-1783)                Immobile,                                                       Sera primaverile.
                                   la rana contempla                                          Seguo un profumo
                                   il vagar delle nuvole.                                      che sta per spegnersi.

                                   Monti d’estate.                                               Fiume d’inverno.
                                   Da un capo all’altro della capitale,               Qualcuno ha gettato via
                                   solo, vola un airone.                                      delle rape rosse.

Kobayashi Issa
(1763-1827)                Rondini della sera.                                         Dopo aver rubato
                                   Non ho alcuna speranza                                il primo melone,
                                   nel domani.                                                    Il bimbo si è addormentato.

                                   Vento fresco.                                                  Che bello!
                                   Di qualsiasi cosa ci diano                              Da un buco degli shōji[22]
                                   doppia porzione!                                            la Via Lattea.

Natsume Sōseki
(1867-1916)                Libellule.                                                        Sono felice di tornare
                                   Stanno per fermarsi…                                    al paese natio.
                                   Splendore delle ali.                                        Tempo dei crisantemi.

Ogiwara Seisensui
(1884-1976)                Il lago si è riempito                                        Montagne e poi montagne
                                   e ora straripa…                                             si trasformano nella luna      
                                   Con l’acqua, la luce della luna.                     che se n’è allontanata.          

                                   Le carpe si radunano.                                    Il cielo si rasserena
                                    In silenzio, l’autunno avanza                         fino a diventare vuoto.
                                   in ogni direzione.                                           Canto di detenuti.

Ed infine, alcuni haiku di un monaco Zen veronese, Gianpietro Sonō Fazion, nei quali non è stata volutamente rispettata la struttura sillabica 5-7-5, troppo restrittiva per la lingua italiana[23]:

                          Senza preda                                                   Di marzo
                          tornano a sera                                               sono fioriti i narcisi –
i cacciatori.                                                    uno, due tre.

                                   Fiorito                                                            Malato
                                   è il ciliegio –                                                  si affacciano i ricordi –
                                   Ma qualcuno muore.                                     non avere paura.
                                  
                                   Strappo un haiku –                                        Fare zazen
                                   Felice                                                             per diventare un Buddha –
                                   nessuno leggerà mai.                                     Così bene ho dormito!

  

[1] D.T. Suzuki, Lo Zen e la cultura giapponese, Ed. Adelphi, pag. 37
[2] Id.
[3] Id., pag 184
[4] Id.
[5] Id.
[6] Id.
[7] Id., pag. 187
[8] Id., pag. 189
[9] I. Starace, Introduzione a I. Starace (a cura di), Il grande libro degli haiku, Ed. Castelvecchi, pag. 5
[10] Meglio sarebbe parlare, anziché di sillabe, di “more”, ovvero di unità di suono che determinano la quantità di sillabe. Nella lingua giapponese vi sono infatti sillabe monomoraiche (es. kyo = residenza) o bimoraiche (kyō = oggi).
[11] L.V. Arena, L’haiku. Considerazioni estetiche, in L.V. Arena (a cura di) Haiku, Ed. Rizzoli, pag. 15
[12] Id.
[13] Id., pag. 16
[14] Secondo l’erronea visione da cui l’Occidente è terrorizzato – Aristotele: “natura abhorret a vacuo”, o l’horror vacui in certe forme d’arte
[15] Queste ed altre informazioni sono tratte dalla voce haiku in http://it.wikipedia.org/wiki/Haiku
[16] In italiano possono essere resi con un trattino o altri segni grafici
[17] In: Poesie Zen, Ed. Newton Compton, pag. 100
[18] I. Iarocci (a cura di), Cento haiku, Ed. Longanesi, pag. 24
[19] E. Dal Pra Introduzione a Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, Ed. Oscar Mondadori, pag. IX
[20] L.V. Arena, op. cit., pag. 13
[21] D.T. Suzuki, op. cit., pag. 194
[22] Porte scorrevoli di carta, tipiche delle abitazioni giapponesi
[23] Si veda: G. Sonō Fazion, 100 haiku zen, Ed. Ali&no


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