Nel 1968, in occasione della consegna del premio
Nobel per la letteratura, il vincitore, lo scrittore giapponese Yasunari Kawabata (1899-1972), tenne un discorso che è ancor oggi
considerato un importante punto di riferimento per la comprensione della
tradizione letteraria del Giappone.
Yasunari Kawabata |
In quel discorso, intitolato Il Giappone, il Bello ed io (o meglio: La tradizione estetica giapponese da cui
provengo), Kawabata cercò di spiegare in che cosa consiste la bellezza letteraria
giapponese, senza però dirlo esplicitamente, in piena coerenza proprio con la
tradizione estetica cui apparteneva. Lo fece citando non i romanzi, che pure
abbondano nella produzione letteraria nipponica, bensì soltanto dei poemi. E
non opere dei grandi poeti, ma poemi
scritti da monaci buddhisti, iniziando con una poesia di Eihei Dōgen (1200-1253), il monaco che
fondò la scuola Zen Sōtō:
In primavera i fiori,
d’estate il cuculo,
in autunno la luna,
d’inverno la neve,
e il suo freddo fulgore.
Non è, come potrebbe sembrare, una
semplice poesia naturalistica, e il suo stesso titolo, Il volto originario, lo conferma. È l’espressione in versi della realtà ultima, la realtà così com’è, il volto originario delle cose, la natura
di Buddha.
Lo stesso si può dire del secondo poema
citato da Kawabata, scritto da un altro monaco buddhista, Myōe (1173-1232), mentre si stava recando in un eremo di montagna
per un ritiro invernale:
Uscendo dalle nuvole,
ecco che mi accompagna
la luna d’inverno.
Il vento, come mi trafigge;
la neve, quant’è gelida…
Anche qui, ciò che conta non è la
descrizione di un uomo solo nella gelida notte invernale, illuminata dalla
luna. Bensì la sua esperienza spirituale di comprensione delle cose, di
profonda unità con esse così come sono.
Myoe Shonin |
Attraverso le citazioni delle opere dei
monaci, Kawabata rinvia quindi all’esistenza di un indissolubile legame tra
l’estetica letteraria e la tradizione buddhista, in particolare quella dello Zen,
che ha effettivamente e profondamente influenzato tutti gli aspetti della
cultura nipponica: la poesia (kado),
il teatro Nō, la pittura (sumi-e, inchiostro nero-pittura), la
calligrafia (shodo), l’arte della
spada (kendo) e del tiro con l’arco (kyudo), l’arte della composizione
floreale (kado, la via dei fiori, o ikebana, fiori viventi), la cerimonia
del tè (cha no yu, acqua calda per il
tè, ovvero chado, la via del tè), ecc.
Come ha scritto Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966), che per primo ha fatto conoscere
lo Zen in Occidente attraverso i suoi
libri, “se le altre scuole buddhiste
hanno limitato la loro area d’influenza quasi esclusivamente alla dimensione
spirituale dei Giapponesi, lo Zen è riuscito a penetrare in ogni aspetto della
loro vita culturale”[1].
Cosa che non accadde in Cina, dove lo Zen
(Ch’an) si legò “in larga misura alle pratiche e alle credenze taoiste e agli
insegnamenti etici confuciani, senza tuttavia influenzare la cultura popolare”[2].
Lo Zen
rientra nella tradizione del buddhismo Mahayana
(il Grande Veicolo), ma rispetto ad altre scuole mahayaniche (ad esempio quelle
del buddhismo tibetano) ha elaborato una didattica specifica, “che consiste nello scrutare direttamente il
mistero del proprio essere, […] la Realtà stessa”[3].
Per fare questo, non si basa tanto sulle Scritture, i Sutra, né sui dogmi o sull’ascetismo, ma piuttosto fa ricorso ad
una modalità di comprensione intuitiva
non fondata sui concetti, i quali “sono
utili per definire la verità delle cose ma non per farcela conoscere
direttamente”[4].
Dal punto di vista dello Zen, la comprensione puramente logica,
discorsiva, razionale (che è tipicamente occidentale), può senz’altro rendere
più sapienti, più saggi, ma rimane comunque superficiale, un mero accumulo di
nozioni. La conoscenza diretta, intuitiva, della realtà è una conoscenza viva,
ed è molto più forte “quando affronta ciò
che è fondamentale nella vita, vale a dire ciò che riguarda la religione,
l’arte e la metafisica”[5].
È proprio questo il contributo che lo Zen “ha
dato alla formazione di una consapevolezza artistica nel popolo giapponese”[6].
Quella modalità di conoscenza diretta, non
concettuale, che permette di cogliere, di gettare uno sguardo nel mistero della
realtà, della vita, viene chiamato in giapponese satori (wu in cinese). Anche
se l’esperienza del satori ricorda in
qualche modo un atto di grazia divino o un privilegio riservato a quelle poche
persone dotate di un genio artistico, il Ch’an/Zen
ha sviluppato, a partire dall’esperienza del Risveglio del Buddha, una propria
didattica che è messa a disposizione di chiunque, proprio perché – e qui lo Zen è in totale accordo con la visione Mahayana – “il genio dello Zen dorme in ciascuno di noi e chiede di essere
risvegliato”[7].
Nel contesto delle tradizioni culturali del
Giappone, la forma nella quale questo spirito si manifesta nelle modalità più
sublimi è proprio, come aveva visto Kawabata, la poesia buddhista, ed in
particolare la poesia haiku. Nell’haiku infatti non c’è “mediazione
fra l’ispirazione artistica e la mente dalla quale proviene”[8]
e, per usare una terminologia occidentale, l’inconscio può emergere, al di là
dei concetti e delle razionalizzazioni.
La storia dell’haiku inizia nel Giappone del periodo Muromachi (1392-1573). In
quell’epoca “divenne popolare l’abitudine
di riunirsi a comporre waka (poesia giapponese, il primo genere poetico della
storia del Giappone e il più diffuso fino ad oggi) in gruppi in cui ogni
partecipante, a turno, componeva un emistichio su un tema scelto in precedenza.
Lo waka ha 31 sillabe che seguono la metrica 5-7-5-7-7 ed è suddiviso in due
emistichi”[9],
il primo di 3 versi e il secondo di 2. Da qui nacque la poesia collettiva detta
renga o renku (poesia o emistichi a catena).
In seguito, la strofa iniziale (chiamata hokku) divenne indipendente dal resto
della composizione, e nacque quello che fu poi denominato haiku (forma contratta di haikai
no ku, ovvero “verso di un poema a carattere scherzoso”).
La prima caratteristica fondamentale dell’haiku è dunque la sua struttura concisa:
3 versi di 5-7-5 sillabe[10].
Nel seguente haiku, scritto dal
monaco Daigu Ryōkan (1758-1831), il
numero delle sillabe è stato mantenuto anche nella traduzione in italiano:
nusubito ni La
bella luna
tori nokosareshi che
il ladro ha lasciato
mado no tsuki alla
finestra.
Nella sua concisione, la poesia haiku “valorizza il vuoto, cioè gli interstizi tra le cose”[11].
Come la pittura ad inchiostro, il sumi-e, non riempie gli spazi, ma anzi “l’economia dei tratti di pennello […]
assurge a strumento espressivo di primaria importanza”[12],
nello stesso spirito l’haiku
evidenzia il vuoto di suoni, il silenzio.
Quel silenzio che, non a caso, è uno degli aspetti fondamentali della Via dello
Zen – fondata dal Buddha Shakyamuni,
nome quest’ultimo tradotto sì come il Saggio, ma altresì traducibile come il Silenzioso degli Shakya. Quello
stesso silenzio che permeava l’atto di nascita dello Zen secondo il mito, il
momento in cui il Buddha fece ruotare un fiore tra le dita e lo porse al
discepolo Mahakasyapa il quale, unico tra i presenti, con un sorriso silente
aveva mostrato piena comprensione dell’insegnamento.
Il silenzio, il non-detto dell’haiku è il frutto delle sue radici
buddhiste, “per cui non sono le cose ad
essere importanti, ma lo sfondo vuoto in cui si iscrivono”[13],
essendo esse stesse vuote, ovvero non
esistenti di per sé stesse, bensì nella loro relazione con tutte le altre. Il
vuoto dell’haiku (o del sumi-e, o di altre forme artistiche di
questa tradizione) non è quindi l’assenza, il non-essere[14],
ma è lo spazio che al contrario permette la ricchezza dell’esistenza, il
divenire, la relazione con l’altro, l’unità con il Cosmo.
È quindi facilmente intuibile il motivo
per cui agli haiku non venisse dato
alcun titolo.
L’haiku,
oltre alla sua immediatezza e – apparente – spontaneità, risponde anche ad
altri criteri stilistici, i quali sono tutti il frutto di un lungo e difficile
esercizio.
A questo proposito si può citare un haiku di Kobayashi Issa (1762-1826), che sembra essere stato composto in
poco tempo, ma che ha invece richiesto molti mesi di rielaborazioni successive,
a partire, questo sì, da una ispirazione istantanea:
Una grossa lucciola,
in vibrante tremolio,
s’allontana – penetrante.
In ogni haiku si trova un riferimento temporale (kigo, la “parola della
stagione”), che definisce il periodo dell’anno cui il poema si riferisce. Il kigo può essere un animale (ad esempio
la lucciola per l’estate), un evento, un luogo ecc., ed è considerato il cuore
dell’haiku. Esistono anche dei veri e
propri cataloghi che li raccolgono, suddivisi in 7 sezioni convenzionali:
Stagioni, Fenomeni celesti o terrestri, Eventi, Vita umana, Animali e Piante[15].
Un haiku
presenta poi almeno un kireji, una “parola che taglia”,
indicata da termini giapponesi (ad es. ya,
kana, keri) non sempre traducibili[16],
che segnala una cesura, un ribaltamento concettuale, un capovolgimento di
senso. Molto spesso è proprio questo ciò che costituisce la “riuscita” di un haiku, in quanto ne permette una piena
comprensione attraverso un salto logico, un lampo di intuizione che mette in
relazione tra loro elementi apparentemente privi di connessione, ma in realtà
uniti tra loro ad un livello profondo, non logico-razionale.
Un esempio di kireji (reso con il trattino alla fine del primo verso) lo si trova
nel seguente haiku di Mizuta Masahide (1657-1723)[17]:
Il tetto s’è bruciato –
Ora
posso vedere la luna.
Il poeta – e praticante Zen – Matsuo Bashō (1644-1694), che è considerato il fondatore della
moderna tradizione degli haiku e il
capostipite di tutti gli haijin (i compositori di haiku), consigliò di “seguire
la natura, tornare alla natura”[18].
Ma la natura verso cui Bashō invitava a ritornare “non è quella delle convenzioni letterarie: è la natura reale, compagna
delle lunghe peregrinazioni a piedi”[19]
compiute da Bashō e da tanti altri personaggi della storia della cultura
giapponese che erano insieme monaci buddhisti itineranti, poeti, pittori, e
magari maestri dell’arte della spada. È la natura della cose piccole, spesso
insignificanti, del mondo animale, vegetale ed anche inanimato; descritte senza
enfasi né compiacimento, senza separazione tra l’osservatore, l’osservato e il
resto dell’universo: “le distinzioni non
si addicono al mondo dell’haiku: esso sottolinea, piuttosto, la totalità –
unico modo […] di cogliere la particolarità delle cose”[20].
Gli haijin,
invece di “discutere di grandi ideali o
di pensieri esageratamente astratti, preferiscono coltivare i crisantemi e i
convolvoli, e quando arriva la bella stagione si entusiasmano nel vederli sbocciare”[21].
Ed infatti negli haiku si parla spesso di formiche, ranocchie, fiori senza nome,
foglie cadute, e perfino di pulci e pidocchi, di nasi freddi e di ombrelli, di
gocce d’acqua e di pietre…
A partire da queste immagini, il poeta
fissa nei versi uno stato d’animo, un sentimento, quale ad esempio:
-
sabi, ciò che è
povero, scarno, avvolto dalla patina del tempo che scorre;
-
wabi, lo stupore che
si prova di fronte a ciò che si dà spesso per scontato;
-
mono no aware, la
consapevolezza della caducità delle cose;
-
yūgen, il fascino
profondo e misterioso delle cose, dell’universo;
-
karumi, la leggerezza,
la bellezza nella semplicità;
- shiori, la delicatezza,
ciò che porta il lettore verso la compassione, l’empatia nei confronti delle
esistenze.
Si propongono ora alla lettura alcuni
esempi di haiku, tutti tratti dalla
monumentale antologia Il grande libro
degli haiku (1500 pagine!) curata da Irene Starace e pubblicata da
Castelvecchi Editore nel 2005, iniziando con il già citato:
Matsuo Bashō
(1644-1694) Antico stagno. Il profumo delle orchidee
Una rana si tuffa. impregna
Suono d’acqua. le ali delle farfalle.
Voci umane! Lacrime di venerazione
Tornano per questa
strada tingono le foglie
tramonto d’autunno. rosse che cadono.
Yosa Buson
(1716-1783) Immobile, Sera primaverile.
la rana
contempla Seguo un profumo
il vagar
delle nuvole. che sta per spegnersi.
Monti
d’estate. Fiume d’inverno.
Da un capo
all’altro della capitale, Qualcuno ha gettato via
solo, vola un
airone. delle rape rosse.
Kobayashi Issa
(1763-1827) Rondini della sera. Dopo
aver rubato
Non ho alcuna
speranza il
primo melone,
nel domani. Il
bimbo si è addormentato.
Vento fresco. Che
bello!
Di qualsiasi
cosa ci diano Da
un buco degli shōji[22]
doppia
porzione! la
Via Lattea.
Natsume Sōseki
(1867-1916) Libellule. Sono
felice di tornare
Stanno per
fermarsi… al paese
natio.
Splendore
delle ali. Tempo
dei crisantemi.
Ogiwara Seisensui
(1884-1976) Il lago si è riempito Montagne
e poi montagne
e ora
straripa… si
trasformano nella luna
Con l’acqua,
la luce della luna. che
se n’è allontanata.
Le carpe si radunano. Il cielo si rasserena
In
silenzio, l’autunno avanza fino
a diventare vuoto.
in ogni
direzione. Canto
di detenuti.
Ed infine, alcuni haiku di un monaco Zen veronese,
Gianpietro Sonō Fazion, nei quali
non è stata volutamente rispettata la struttura sillabica 5-7-5, troppo
restrittiva per la lingua italiana[23]:
Senza
preda Di
marzo
tornano a sera sono
fioriti i narcisi –
i cacciatori. uno,
due tre.
Fiorito Malato
è il ciliegio
– si
affacciano i ricordi –
Ma qualcuno
muore. non
avere paura.
Strappo un
haiku – Fare
zazen
Felice per
diventare un Buddha –
nessuno
leggerà mai. Così
bene ho dormito!
[2] Id.
[3] Id., pag 184
[4] Id.
[5] Id.
[6] Id.
[7] Id., pag. 187
[8] Id., pag. 189
[9] I. Starace, Introduzione
a I. Starace (a cura di), Il grande libro degli haiku, Ed.
Castelvecchi, pag. 5
[10] Meglio sarebbe
parlare, anziché di sillabe, di “more”, ovvero di unità di suono che
determinano la quantità di sillabe. Nella lingua giapponese vi sono infatti
sillabe monomoraiche (es. kyo =
residenza) o bimoraiche (kyō = oggi).
[11] L.V. Arena, L’haiku.
Considerazioni estetiche, in L.V. Arena (a cura di) Haiku,
Ed. Rizzoli, pag. 15
[12] Id.
[13] Id., pag. 16
[14] Secondo l’erronea
visione da cui l’Occidente è terrorizzato – Aristotele: “natura abhorret a vacuo”, o l’horror
vacui in certe forme d’arte
[15] Queste ed altre
informazioni sono tratte dalla voce haiku
in http://it.wikipedia.org/wiki/Haiku
[16] In italiano
possono essere resi con un trattino o altri segni grafici
[17] In: Poesie
Zen, Ed. Newton Compton, pag. 100
[18] I. Iarocci (a cura
di), Cento
haiku, Ed. Longanesi, pag. 24
[19] E. Dal Pra Introduzione
a Haiku.
Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, Ed. Oscar
Mondadori, pag. IX
[20] L.V. Arena, op.
cit., pag. 13
[21] D.T. Suzuki, op.
cit., pag. 194
[22] Porte scorrevoli
di carta, tipiche delle abitazioni giapponesi
Nessun commento:
Posta un commento