Jorge
Luis Borges
è stato uno dei maggiori scrittori moderni di lingua spagnola.
Nacque a Buenos Aires nel 1899, a 7 anni
scrisse il suo primo racconto, a 9 ne tradusse uno di Oscar Wilde (che venne
pubblicato su El Pais).
Dal 1914 soggiornò per alcuni anni in
Svizzera, poi in Spagna, iniziando a scrivere poesie ed opere in prosa. Furono
soprattutto le sue opere di narrativa e di saggistica a procurargli negli anni
successivi un riconoscimento internazionale, anche se non venne mai insignito
del Nobel per la letteratura, probabilmente a causa delle sue posizioni
politiche che, essendo Borges uno spirito critico e libero, gli procurarono nel
periodo del peronismo duri attacchi e l’accusa di essere un reazionario vicino
alle dittature sudamericane.
A partire dal 1940 aveva cominciato a
perdere la vista, per una malattia ereditaria, fino a diventare completamente
cieco alla fine degli anni ’60. Morì nel 1986 in Svizzera, dove spesso si
recava per curare gli occhi, e lì volle essere sepolto.
Molti sono i temi ricorrenti nelle sue
opere, a partire da quelli del fantastico:
il sogno, i libri misteriosi o inesistenti, i miti, il “doppio”, l’infinito del
tempo e dello spazio…
Jorge Luis Borges |
E molto spesso si trovano in esse passi di
argomento filosofico e religioso, nonostante fosse certamente “uno spirito laico, scettico, abitato dal
dubbio, alieno dalle certezze, […] votato all’interrogazione e incline semmai
ad accordare fiducia all’eventualità, al caso”[1].
Egli stesso disse che filosofia e
religione erano per lui “due rami della
letteratura fantastica”[2].
Resta il fatto che le religioni sono
effettivamente e non marginalmente presenti nei suoi scritti: il Cristianesimo,
l’Islam, l’Ebraismo, e perfino religioni immaginarie. Come pure le religioni
dell’Estremo Oriente: il Taoismo, che divenne un fondamentale retroterra di
alcune sue opere, e le tradizioni religiose dell’India, di cui dimostrò una
conoscenza abbastanza profonda.
Probabilmente il fascino dell’Oriente su
Borges fu favorito anche dalla presenza della sua discepola, nonché ultima
moglie, Maria Kodama, di padre giapponese. Non a caso Borges fu autore anche di
haiku e tanka, cioè di versi redatti secondo gli stili tradizionali della
poesia del Giappone.
Arthur Schopenhauer |
Ma questo fu il solo contatto “diretto”
che ebbe con il mondo orientale. La “fonte” della sua conoscenza dell’India e
del buddhismo fu invece l’opera di Arthur
Schopenhauer (1788-1860), il filosofo tedesco il cui pensiero era stato
profondamente ed esplicitamente influenzato dalle filosofie dell’India. Borges
studiò molto bene Schopenhauer e fu colpito dalle sue idee fino ad affermare
che “poche cose mi sono accadute più
degne di memoria del pensiero di Schopenhauer”[3].
Borges ne aveva studiato gli scritti in
lingua originale, mentre, giovanissimo, si trovava in Europa, tra il 1915 e il
1921. Dai suoi libri (come pure dalle opere di autori come l’indologo Paul
Deussen, Walt Whitman, Edwin Arnold[4],
Thomas Eliot…) aveva ricevuto impressioni, spunti, temi di riflessione, in
qualche modo riconducibili al mondo indiano e che si ritrovano nella sua
produzione letteraria giovanile e successivamente nelle opere della maturità.
A partire dal 1946 la sua conoscenza del
pensiero indiano si approfondì ulteriormente, attraverso lo studio di opere
specialistiche come quelle dell’orientalista inglese Thomas Rhys Davids
(1843-1922) e la monumentale Filosofia
indiana di Sarvepalli Radhakrishnan (1888-1975), filosofo e politico, che
fu anche il secondo Presidente dell’India dal 1962 al 1967[5].
Dalla sua conoscenza del pensiero antico
dell’India e in particolare del Buddhismo nacque un breve saggio (Qué
es el budismo, nell’edizione italiana Cos’è il buddismo), di
circa 80 pagine, pubblicato nel 1976
in collaborazione con la discepola Alicia
Jurado, la quale raccolse, riordinò e trascrisse gli appunti di cui Borges
si era servito per una serie di lezioni tenute presso la Libera Scuola di Studi
Superiori.
Si tratta di una esposizione estremamente
sintetica del pensiero buddhista, redatta con uno stile per nulla accademico,
ma comunque attenta e precisa, “ricca di
accostamenti col mondo occidentale, condotta evidenziando i punti di contatto o
di attrito con filosofi antichi occidentali e con pensatori, mistici e scrittori
moderni europei”[6].
L’opera è divisa in 12 capitoli, dedicati
alla vita del Buddha (1 e 2), alle dottrine che precedettero il buddhismo (3),
alla cosmologia (4), alla trasmigrazione (5) e agli insegnamenti (6), alle
diverse scuole buddhiste (da 7 a 11) ed infine all’etica (12).
Fin dalla lettura dell’indice, colpisce il
fatto che Borges abbia voluto operare una distinzione, nei primi due capitoli,
tra il Buddha leggendario e il Buddha storico. Secondo Borges la leggenda “non è un’invenzione arbitraria ma una
deformazione o esaltazione della realtà”[7].
La sua importanza è data dal fatto che essa “ci rivela quanto credettero innumerevoli generazioni di uomini devoti e
che ancora perdura nella mente di una grande porzione dell’umanità”[8].
Per riassumere la vita leggendaria del
Buddha si è servito – come egli stesso rivela – di due testi classici: il Lalitavistara Sutra e il Buddhacarita di Asvaghosa.
Quanto alla storia, Borges ricorda che “i letterati dell’Indostan sono soliti
elaborare iperboli e magnificenze, mentre ignorano i particolari precisi”[9]
e da questo ricava il criterio secondo cui “se
ne troviamo nella leggenda, possiamo arguirne
che rispondono alla verità”[10].
Ad esempio, poiché viene detto nei testi che Siddhartha aveva 29 anni nel
momento in cui lasciò il palazzo e la famiglia, e poiché il numero 29 non
riveste alcun significato simbolico, allora se ne deduce che il dato anagrafico
dovrebbe corrispondere alla verità storica. La stessa cosa può essere detta
intorno alla causa della morte del Buddha, provocata dall’ingestione di cibo
avariato (forse dei funghi, o della carne).
In particolare, l’aspetto leggendario
sarebbe relativo soprattutto al primo periodo della vita di Shakyamuni, dal
concepimento al Risveglio; più autenticamente storica sarebbe invece la
narrazione dei 45 anni successivi (dal Risveglio fino al Parinirvana), dedicati
all’insegnamento, da cui “basta togliere
alcuni miracoli”[11].
Nelle tre sole pagine che dedica al Buddha
storico, Borges confronta subito la vicenda del Buddha con quella del Cristo,
cosa inevitabile per un occidentale. E riconosce che rispetto agli “indimenticabili tratti patetici e [alle]
circostanze d’insuperabile drammaticità”[12]
della storia di Gesù, quella “del
principe che lascia il suo palazzo e professa una vita austera è molto più
povera”[13].
Ma subito il lettore viene invitato a compiere una riflessione che porta al di
là di un confronto troppo frettoloso e superficiale: “la negazione della personalità è uno dei dogmi essenziali del buddhismo
e […] aver inventato una personalità attraente dal punto di vista umano avrebbe
significato contraddire il proposito fondamentale della sua dottrina”[14].
Il Buddha è infatti “una specie di archetipo che si manifesta nel mondo in diverse epoche e
per mezzo di diverse personalità, le cui caratteristiche non hanno importanza
[…]. Gotama è un anello in una catena infinita che si protende verso il passato
e il futuro”[15].
Invece “la passione di Cristo si verifica
una sola volta ed è il centro della storia dell’umanità”[16].
Molto acutamente, Borges rileva quindi
come lo scarso interesse degli Indiani verso le cronache e la storia derivi dal
fatto che per essi le idee sono più importanti delle date e degli individui. E
le idee stesse, ad esempio le dottrine filosofiche, sono dal loro punto di
vista essenzialmente contemporanee. Saranno poi gli Europei a stabilire un loro
ordine cronologico, a costruire una “storia della filosofia indiana”.
Nel III capitolo, Borges mostra poi come
il buddhismo abbia le sue radici nelle dottrine filosofiche e religiose
preesistenti in India, in particolare nel sistema dualistico Sankhyam (= enumerazione)[17] e nel Vedanta (= culmine, compimento dei Veda). Di entrambi offre una breve sintesi, evidenziando i punti di
contatto tra il monismo panteistico del Vedanta
e alcune dottrine filosofiche occidentali (Parmenide, Zenone, Schopenhauer) o
islamiche, nonché l’ateismo “non
aggressivo” del Sankhyam, che “esclude un Dio onnipotente, ma non le
innumerevoli divinità della mitologia popolare”[18].
A tale proposito, cita un testo secondo cui “Dio non può aver fatto il mondo per interesse, perché non abbisogna di
nulla; né per bontà, giacché nel mondo c’è la sofferenza. Dunque Dio non esiste”[19].
Il che rimanda, per quanto concerne l’Occidente, ad Epicuro e a Voltaire[20].
Dopo aver esaurito in poche righe
l’argomento della cosmologia, a
proposito della quale viene giustamente detto che “non è essenziale nella dottrina predicata dal Buddha”[21],
Borges passa ad analizzare il tema della trasmigrazione
(cap. V), ricollegandosi alle analoghe concezioni che si ritrovano nella
cultura occidentale o medio-orientale: in Pitagora, nell’Orfismo, in Platone,
nelle religioni celtiche, in alcune correnti dell’Ebraismo…
Molto correttamente collega la
trasmigrazione (meglio sarebbe dire la rinascita) agli insegnamenti buddhisti
sul karma, ovvero su quella “opera che incessantemente ordiamo”[22]
con le azioni del corpo, della parola e della mente, e che viene definito come
“un’interpretazione etica della legge di
causalità”[23].
Il tema del karma è senza dubbio uno dei più difficili da affrontare per che
studia il buddhismo e per chi lo pratica, e forse per questo Borges annota che
“il karma è uno dei punti deboli del
buddhismo”[24],
anche perché dal punto di vista buddhista “ogni
uomo è un’illusione, vertiginosamente prodotta da un succedersi di uomini
momentanei e soli”[25].
Borges si riallaccia qui alla filosofia dello scozzese David Hume (1711-1776),
“per il quale l’individuo è un fascio di
percezioni che si succedono con incredibile rapidità”[26]:
è la vacuità, ovvero l’assenza di un
sé separato ed intrinsecamente esistente, insegnamento centrale nella
tradizione buddhista. Quindi, se l’uomo è un insieme, impermanente, privo di
esistenza intrinseca, composto da parti a loro volta impermanenti e non
sostanziali, che cosa trasmigra, rinasce, dopo la morte? È probabilmente questo
il “punto debole” cui accenna Borges.
Nagarjuna in un dipinto tibetano |
L’approccio borgesiano a questi temi
sembra essere rivelatore: nel capitolo sul Mahayana
(il VII, Il Gran Veicolo), Borges
dedica molto spazio a Nagarjuna, il
maestro buddhista del II secolo d.C., che del Mahayana fu il maggior esponente,
e definisce i suoi insegnamenti come una “dottrina
nichilista”, un “idealismo assoluto”
che vede l’universo come una serie continua di apparenze dietro alle quali non
c’è nulla. “Era quasi inevitabile –
afferma lo scrittore argentino – che il
buddhismo arrivasse al nichilismo di Nagarjuna”[27].
Come Zenone di Elea (V sec. a.C.) negava la possibilità del movimento[28],
così “Nagarjuna sembra sia stato
posseduto dalla necessità di negare”[29].
Anche il Nirvana (cap. VI) è visto da Borges nei suoi caratteri negativi,
come già evidenziati dai primi studiosi europei, per i quali era “abisso di ateismo e di nichilismo”, “annientamento”, un eufemismo per “nulla”. A differenza del nirvana induista, che parla di “spegnersi nella divinità”, ed è quindi
sinonimo di eterna beatitudine.
Borges ha intuito che la nozione di nirvana ha contribuito moltissimo a
generare il fascino esercitato dal buddhismo nell’immaginario collettivo
occidentale in questi ultimi due secoli, ma si può forse dire che lo stesso
fascino esercitato su Borges derivi proprio dalla lettura nichilista che egli
fa di aspetti del buddhismo quali ad esempio il pensiero di Nagarjuna, la vacuità,
il nirvana.
Una lettura quanto meno parziale, in
quanto in realtà il termine nirvana
ha sì il significato etimologico di estinzione
per mancanza di combustibile, quindi spegnimento,
cessazione, ma non in senso
nichilista, indicando piuttosto uno “stato
risultante dalla cessazione delle passioni e delle loro cause, […] stato di
pace, liberazione dal samsara, stato non condizionato caratterizzato
dall’assenza di nascita, divenire e morte, che trascende il mondo […]. Non è il
nulla, ma il Buddha stesso non ne diede mai una definizione precisa in quanto
lo stato che trascende il nulla e l’eternità è indicibile e indescrivibile”[30].
La filosofia di Nagarjuna, poi, è chiamata
la Via del Mezzo (Mādhyamika), proprio
perché si pone al centro dei due estremi: la visione eternalista, per la quale
i fenomeni esistono in sé, e quella nichilista, così cara a Borges, per la
quale i fenomeni non esistono. La Via del Mezzo va al di là di ogni opinione e
mantiene un atteggiamento aperto che conduce alla comprensione della vacuità di tutte le cose, all’esperienza
salvifica della realtà ultima dei fenomeni.
La definizione di Nagarjuna come di un
nichilista costituisce quindi un’errata interpretazione dell’insegnamento sulla
vacuità, ma può comunque far comprendere perché il buddhismo abbia così tanto
affascinato Borges.
Nei capitoli successivi Borges parla
dell’evoluzione storica del buddhismo al di fuori dell’India, a partire dal
Tibet. E definisce il buddhismo Mahayana
del Tibet come “lamaismo”, con un
termine ormai caduto in disuso presso gli studiosi.
Dopo aver dedicato poche righe alla Cina,
affronta il tema del buddhismo tantrico,
stranamente senza collegarlo proprio alle tradizioni del Tibet, dove le scuole
tantriche (note nel loro complesso con il termine di Vajrayana, la Via del Diamante) ebbero un grande sviluppo quali
naturali prolungamenti del Mahayana,
i cui punti essenziali dovevano peraltro essere stati completamente acquisiti
dal praticante prima di poter accedere ai metodi del Tantra.
Passando infine al Giappone, Borges si
sofferma, comprensibilmente, sugli aspetti più “esotici” del buddhismo così
come si è evoluto nel paese del Sol Levante, in particolare sullo Zen e su una delle sue metodiche più
note: il koan, “che consiste in una domanda la cui risposta non risponde alle leggi
della logica”[31].
E naturalmente analizza l’influenza
esercitata dallo Zen su diversi
aspetti della vita quotidiana del Giappone tradizionale: la poesia, la pittura
e la calligrafia, l’arte della spada e del tiro con l’arco, l’ikebana, i giardini, la cerimonia del
tè…
Infine, con alcune citazioni tratte dai
testi classici e dedicate all’etica, il volumetto termina. Dopo aver forse
risposto, con gli ovvi limiti oggettivi di un breve testo redatto da un non
specialista, alla domanda su cosa sia il buddhismo, ma lasciando senza alcuna
riposta, per quale motivo non si saprebbe dire, ad una domanda altrettanto
importante: cosa significhi essere
buddhista. Se il buddhismo è una Via (di liberazione dalla sofferenza),
cosa vuol dire, nella pratica, camminare su quella Via?
Nel capitolo VI (Dottrine buddhiste) Borges ha giustamente osservato che la dottrina
del Buddha “non è dogmatica né
speculativa, ma morale e pratica”[32],
e che “una retta comprensione
intellettuale della dottrina è assai meno importante del fatto di assimilarla e
viverla”[33].
Ma non una parola in più è stata da lui dedicata alla pratica della Via, ovvero
agli aspetti pratici dell’Ottuplice
Sentiero, dalla disciplina morale (retta parola, retta azione, retti mezzi
di sussistenza) al raccoglimento meditativo (retto sforzo, retta attenzione,
retta concentrazione), fino alla conoscenza superiore (retto pensiero, retta
comprensione).
Il che, se può soddisfare alcune
superficiali curiosità di un lettore occidentale, lascia però del tutto privo
di risposte chi si chiedesse quale significato la “predicazione di un piccolo principe del Nepal”[34]
di 2500 anni fa possa avere nella vita di un abitante dell’opulenta società
contemporanea.
[1] F. Tentori
Montalto, Introduzione a J.L. Borges, Cos’è il buddismo, Ed.
Tascabili Economici Newton, pag. 9
[2] Id.
[3] A. Pellegrini, J.L.
Borges e il buddhismo, in G. Orofino e F. Sferra (a cura di), Ponti
magici. Buddhismo e letteratura occidentale, Università degli Studi di
Napoli “L’Orientale”, pag. 208
[4] L’autore de La
Luce dell’Asia. Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/sir-edwin-arnold-e-la-luce-dellasia.html
[5] L’opera di
Radhakrishnan è stata pubblicata in Italia da Einaudi (solo il I volume) e poi
da Āśram Vidyā (I e II volume)
[6] A. Pellegrini, J.L.Borges
e il buddhismo, cit., pag. 200
[7] J.L. Borges, Cos’è
il buddismo, cit., pag. 29
[8] Id., pag. 21
[9] Id., pag. 29
[10] Id.
[11] Id.
[12] Id., pag. 30
[13] Id.
[14] Id.
[15] Id.
[16] Id.
[17] Il Sankhyam viene spesso citato in unione
col sistema Yoga, come Sankhya-Yoga
[18] J.L. Borges, Cos’è
il buddismo, cit., pag. 35
[19] Id.
[20] Voltaire fu
profondamente colpito dal terremoto di Lisbona del 1755, che provocò quasi
100mila morti, e che lo spinse a rivedere la propria posizione sui problemi
della sofferenza, della presenza del Male sulla Terra, della bontà di Dio e di
una visione ottimistica dell’Universo. Gli stessi temi verranno ripresi dopo la
Seconda Guerra Mondiale, a seguito della Shoah (si veda ad es. H. Jonas, Il concetto
di Dio dopo Auschwitz, Ed. Il Nuovo Melangolo)
[21] J.L. Borges, Cos’è
il buddismo, cit., pag. 43
[22] Id., pag. 49
[23] Id.
[24] Id., pag. 51
[25] Id.
[26] Id.
[27] Id., pag. 64
[28] Secondo i famosi
paradossi di Zenone, una freccia non raggiungerà mai il bersaglio e Achille non
potrà mai superare in corsa una tartaruga
[29] J.L. Borges, Cos’è
il buddismo, cit., pag. 65
[30] Ph. Cornu, Dizionario
del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 416
[31] J.L. Borges, Cos’è
il buddismo, cit., pag. 82
[32] Id., pag. 56
[33] Id.
[34] Id., pag. 87.
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