Negli anni a cavallo tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vennero tradotti in lingua tedesca i
testi del Canone Pāli, le raccolte
dei più antichi insegnamenti del Buddha. Ne era autore Karl Eugen Neumann (Vienna, 1865–1915), il più importante tra i
pionieri delle traduzioni dei testi buddhisti.
Tra i suoi lettori vi furono due grandi
scrittori in lingua tedesca del XX secolo: Rainer Maria Rilke e Hermann Hesse.
Il confronto tra le loro diverse modalità di “leggere” il buddhismo “può aiutarci a mettere a fuoco due modi
dell’orientalismo letterario. Uno [Rilke] potremmo chiamarlo estetico, e discende soprattutto dall’idea […del
buddhismo] come opera d’arte. L’altro [Hesse] etico, che del Buddha considera non solo il
messaggio, ma soprattutto l’exemplum, la vita”[1].
Rilke |
Rainer
Maria Rilke, sommo poeta boemo di lingua tedesca,
nacque a Praga nel 1875. Indirizzato dal padre alla carriera delle armi,
secondo la tradizione di famiglia, a 16 anni abbandonò l'accademia militare.
Passando da Linz a Praga, poi a Monaco e a Berlino, fece studî irregolari. La
certezza di una vocazione poetica gli venne a Monaco, dove nel 1896 conobbe Lou
Salomé, di 14 anni più anziana, legandosi a lei in un singolare rapporto affettivo.
Determinanti per lo sviluppo della sua personalità furono le esperienze di
viaggio in Toscana e soprattutto in Russia (1898 e 1899), dove fu ricevuto dal
vecchio Tolstoj.
La sensibilità per le arti figurative lo
spinse a vivere per due anni (1900-02) a Worpswede, villaggio di artisti nei
pressi di Brema, dove sposò la scultrice Clara Westhoff, allieva di Auguste
Rodin (1840-1917). Dal 1903 Rilke, che non aveva ancora avuto una stabile
residenza, trovò a Parigi una specie di patria, e in Rodin un interlocutore
privilegiato e un modello per la sua ricerca formale. Ma anche durante gli anni
parigini continuò la serie dei suoi viaggi per tutta l'Europa e anche in
Africa; tra l'altro a Roma (1903-04) e al castello di Duino[2]
presso Trieste (1911-12), dove fu ospite della principessa von Thurn und Taxis.
Allo scoppio della guerra nel 1914, fu trattenuto in Germania, dove prestò
servizio in un ufficio di estrema retrovia. Finita la guerra, distrutto in
Europa il mondo in cui aveva posto fiducia, Rilke si stabilì, dopo un nuovo e
più breve soggiorno a Parigi, nel piccolo castello alpino di Muzot, nel
Vallese, ospite di un nuovo mecenate. Gli ultimi anni furono molto penosi, a
causa del rapido declino fisico; morì di leucemia a Montreux, all'età di 51 anni,
nel 1926[3].
Rilke e il buddhismo
Nel 1908 Rilke ricevette in dono dalla
moglie Clara le traduzioni dei testi buddhisti curate da Neumann e pubblicate a
Monaco nel 1907.
Ma già negli anni precedenti (1905-06),
quando era ospite di Auguste Rodin, Rilke aveva tratto ispirazione per la sua
opera poetica proprio dalla figura del Buddha, anzi dal Buddha come “figura”.
Il Buddha nel giardino di Rodin |
Infatti “dalla finestra della piccola casa nel parco della villa assegnatagli
dallo scultore si vedeva una statua del Buddha scolpita dal maestro”[4].
Nelle lettere che dalla sua stanza Rilke scrisse alla moglie si legge: “mi è dinanzi, in fiore [è il 20
settembre 1905], l’ampia notte stellata,
e sotto, davanti alla finestra, il sentiero di ghiaia sale verso una piccola
altura su cui riposa, fanaticamente taciturna, una statua di Buddha, elargendo
sotto tutti i cieli del giorno e della notte, in silenzioso riserbo, l’indicibile
rotondità del suo gesto. C’est le centre du monde, ho detto a Rodin”[5].
E ancora, nel gennaio 1906: “Io sto in piedi al mio leggio, la finestra è
aperta […] e il Buddha è grande e sapiente, e viene da pensare che la linfa
salga in lui. E si crede di leggerglielo in volto, che per tutta la notte è
stato signore di una sterminata luce lunare. Ieri, nella limpidezza della sera
inoltrata […], il muro del mio giardino era buio, ma oltre il muro tutto il
chiaro di luna del mondo si era raccolto intorno al Buddha, come le luci di un
grande ufficio divino di cui egli occupava il centro, impassibile, ricco,
raggiante di antichissima indifferenza”[6].
Gli accenni al Buddha continuarono
frequentemente nelle lettere dei mesi successivi: uno stormo di uccelli è per Rilke
“come un Buddha di voci, così grande,
imperioso e sovrano, così privo di contraddizione, così al confine della voce,
pienezza e armonia con cui vibra il silenzio, quando si fa grande e quando noi
lo sentiamo”[7].
E le mani delle ballerine cambogiane sono “mani
di Buddha che sanno dormire, che, alla fine di tutto, si posano lisce dita
accostate a dita, per indugiare secoli accanto a grembi, giacendo, il palmo
volto in alto, oppure erte sul polso, in una infinita richiesta di silenzio”[8].
Ma soprattutto, al Buddha in quegli anni
Rilke dedica espressamente ben tre poesie, due intitolate Buddha e la terza (che conclude la raccolta Poesie nuove, di cui fanno parte), Buddha nell’aura (Buddha in
der Glorie), che qui riportiamo[9]:
Buddha
(1905)
Quasi
fosse in ascolto. Quiete: una lontananza...
Ci
fermiamo e non l'udiamo più.
Ed
egli è stella. Ed altre grandi stelle
gli
stanno intorno, che noi non vediamo.
Oh,
egli è Tutto. Ci aspettiamo forse
ch'egli
ci veda? Ne avrebbe bisogno?
E
se qui innanzi a lui ci prosternassimo,
resterebbe
profondo ed inerte come bestia.
Poiché
una forza ci getta ai suoi piedi
che
in lui da milioni d'anni ruota.
Egli
dimentica ciò che apprendiamo
e
apprende quello che ci esclude.
Buddha
(1906)
Già
da lontano sente il pellegrino timido
l'oro
che da lui gronda;
come
se ricchi pentiti vi avessero
versato
i loro tesori nascosti.
Ma
avvicinandosi resta sconvolto
dalla
maestà di queste sopracciglia:
non
delle loro stoviglie son fatti,
né
dei pendagli delle loro donne.
Nessuno
sa quali oggetti si fusero
perché
dal calice di questo fiore
sorgesse
questa statua; più muta,
più
quieta e gialla di una statua d'oro
che
tutt'intorno tocca anche lo spazio
come
se fosse parte di se stessa.
Buddha
nell’aura (1908)
Centro
dei centri, nucleo dei nuclei,
mandorla
che si chiude e si addolcisce –
questo
Tutto fino a tutte le stelle
è
la tua polpa: ti saluto.
Tu
senti che più nulla a te aderisce;
nell'infinito
è la tua buccia
e
là è il vigore del succo che preme.
E
fitti raggi da fuori l'aiutano
perché
i tuoi soli in alto
pieni
e ardenti rovesciano la luce.
Ma
già in te ha avuto inizio
Ciò
che dura oltre i soli.
Tra i tanti temi poetici presenti nei
versi di Rilke dedicati al Buddha, uno emerge: il Buddha è per l’A. un modo di
essere e di rapportarsi con il mondo: “ciò
che in modo esemplare appartiene al Buddha è la passività […] conseguita
attraverso il superamento di una posizione oppositiva nei confronti del mondo
ed il raggiungimento di una condizione di apertura”[10].
Il Buddha non è colui che vede (“Ci aspettiamo forse / ch’egli ci veda?”),
non ne ha bisogno, rimarrebbe inerte anche di fronte alle nostre
prosternazioni. Questo perché il Buddha è al di là di ogni finalità ed
intenzione, proprie invece della soggettività e dell’attività umane. Il Buddha
di Rilke “dimentica ciò che apprendiamo”,
ovvero abbandona quella modalità dell’apprendimento – che è dell’uomo –
finalizzata al possesso (ap-prendere)
di qualcosa che è separato, esterno al soggetto che vede, che conosce.
Il rapporto del Buddha col mondo non è il
rapporto soggetto/oggetto, è un rapporto fondato nella “quiete”, una totale interconnessione (interdipendenza,
inter-essere, si dice nel buddhismo) con la realtà così com’è.
Il Buddha è “stella”, ed è stella tra le altre stelle che non vediamo. È cioè
una cosa tra le cose, senza separazione, essendo al di là dell’ego, della
dicotomia io/tu.
In questo modo è totalmente aperto
all’altro: “è aperto al mondo; egli è
accolto, con la sua singolarità [che permane inalterata], nel mondo ed apre in se stesso uno spazio
puro che può accogliere il mondo”[11].
È ciò che diviene ancor più evidente nella
poesia del 1908: “Qui il Buddha,
riposando in sé […] è al contempo il nocciolo in cui si riversa il Tutto, non
per essere trattenuto, ma per essere accolto e farsi frutto”[12].
Riecheggiano, parrebbe, le parole del
maestro Zen Dōgen (Giappone,
1200-1253) nel suo Genjōkōan: “Studiare la via del Buddha è studiare se
stessi. Studiare se stessi è dimenticare se stessi. E dimenticare se stessi è
percepire se stessi come tutte le cose. Realizzare questo è lasciar cadere
mente e corpo di se stessi e degli altri”[13].
Già da queste osservazioni minimali, è
evidente che se Rilke, in quanto poeta,
non espone espressamente la filosofia del buddhismo (come invece ha cercato di
fare Arnold, ma con esiti discutibili…), l’ha però intimamente assimilata nei
suoi versi, nella sua visione, nel suo porsi nel mondo proprio in quanto poeta.
I grandi temi dell’insussistenza di un sé
separato, dell’interdipendenza dei fenomeni, delle modalità della percezione
del mondo e del conseguente rapportarsi con se stessi e col mondo – tutti i
temi fondanti della tradizione buddhista, sono infatti presenti nei suoi versi
dedicati al Buddha (come in tutta la poetica di Rilke), a partire dalla
semplice osservazione di una statua (ma quando il vedere è semplicemente vedere?).
[1] C. Miglio, Estetica
ed etica. Percorsi buddhisti nella cultura tedesca tra Otto e Novecento,
in: G. Orofino e F. Sferra (a cura di), Ponti magici. Buddhismo e letteratura
occidentale, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, pag. 88-89
[2] Durante il viaggio
verso Duino Rilke fece tappa anche a Savona
[3] Le notizie
biografiche sono tratte dal sito hhtp://www.treccani.it/enciclopedia/rainer-maria-rilke/
[4] Miglio, op. cit.
pag. 93
[5] Id.
[6] Id.
[7] Id., pag. 93-94
[8] Id., pag. 94 nota
43
[9] La versione dei
poemi è quella riportata in: D. Liguori, L’influenza del pensiero orientale in Rainer
Maria Rilke, tesi di Dottorato di ricerca in Estetica e teoria delle
Arti, Università degli Studi di Palermo, pag. 147 e 153
[10] Liguori, op. cit.,
pag. 148
[11] Id., pag. 153
[12] Id.
[13] Dōgen Zenji, Genjōkōan,
in Shōbōgenzō,
Ed. Pisani, pag. 2
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