giovedì 30 luglio 2015

"Vivere per il lamento dei morti" - Per un anniversario

Il 6 agosto 1945 il B-29 “Enola Gay” dell’Aeronautica degli Stati Uniti sganciò sulla città giapponese di Hiroshima la prima bomba atomica della storia, provocando in un solo istante un numero di vittime compreso tra 100 e 200mila.
Il 9 agosto una seconda bomba uccise almeno 60mila persone della città di Nagasaki.
La scelta del Presidente Truman pose fine alla Seconda Guerra Mondiale anche nell’area del Pacifico, e diede inizio alla Guerra Fredda, durante la quale l’opzione nucleare fu una spada di Damocle perennemente sospesa sul capo dell’umanità. E oggi, nel corso di quella che già molti chiamano la Terza Guerra Mondiale, a dispetto di quanti parlarono, con la caduta del Muro di Berlino, di fine della Storia, tale opzione è più che mai attuale, anche perché a disposizione di Stati e di forze politiche che dal 1945 in poi si sono affacciate o hanno varcato la “soglia nucleare”.
Al di là delle opinioni personali di ognuno su quanto accaduto – e su quanto sta accadendo – proponiamo, in memoria delle vittime delle bombe di 70 anni fa e di tutte le “morti atomiche” successive, Cernobyl e Fukushima comprese, la lettura dell’incipit di “Requiem”, un racconto di Tamiki Hara, lo scrittore giapponese che sopravvisse all’attacco atomico del 1945 e che ad esso dedicò gran parte della sua opera, fino alla morte per suicidio, nel 1951.
Il testo è stato pubblicato dal quotidiano “La Stampa” nello speciale del 26 luglio scorso dedicato all’attacco atomico contro il Giappone.
Il racconto può essere letto, insieme con altri, nella raccolta “Il paese dei desideri. Il ricordo di Hiroshima”, pubblicato da Atmosphere Libri.


Tamiki Hara (1905 - 1951)

"Voglio essere presente a me stesso. Voglio sapere con certezza chi sono. Quando non avevo neanche un chic­co di riso nello stomaco, quando era completamente vuoto, vidi me stesso, graci­le, su una salita in mezzo al fogliame fresco. Pensai che quelli erano gli uomini. Presi a ripetermi: non devi vivere per te stesso, devi vivere so­lo per il lamento dei morti. Divenne per me come respirare, come piangere. Quan­do sentii le lacrime accumu­larsi in fondo ai miei occhi, un brivido leggero mi attra­versò i segni delle bruciatu­re e fui avvolto dalla nebbia. Mi parve di vederti, oltre la nebbia, in cielo. Camminai. Le gambe mi sostenevano. Le gambe dell'uomo. Sono sorprendenti, le gambe del­l'uomo. Le gambe degli uo­mini procedevano in fila ver­so le macerie. Sostenevano gli uomini, e gli uomini trasportavano continuamente qualche cosa. Poco per volta, piano piano, gli uomini hanno costruito le loro case.
Le gambe degli uomini. Quella volta portai in spalla un soldato ferito. Le gambe del soldato non potevano compiere più un solo passo, e lui mi pregò di lasciarlo lì. Quella mattina ero esausto. I rimorchi che trasportavano i superstiti correvano sul ponte a gran velocità. Scoprii che il mattino esisteva ancora. Abbandonai il soldato e me ne andai. Le mie gambe. Nell’istante in cui le tenebre mi piombarono ad­dosso, le gambe furono sul punto di cedere, ma mi so­stennero. Le mie gambe. Le mie gambe. Queste mie gam­be. Erano giorni tremendi. Erano giorni assurdi. Le mie gambe avevano corso sul fuo­co. Avevano corso sulle spiag­ge. Avevano percorso le vie del dolore. Vie disperate, infi­nite. Dall'inizio alla fine le ave­vano percorse, quelle vie buie, infinite, piene di disperazione e di dolore. Avevano cammi­nato per vivere. Chiesi al cielo stellato se sarei sopravvissu­to. Non devi vivere per te stes­so, devi vivere per il lamento dei morti. È il vostro lamento a tenermi in vita. È il lamento dei morti a darmi la forza di camminare. Eravate stelle. Eravate fiori. Eravate tutto ciò che conoscevo sin dal pas­sato più remoto. Camminai. Le gambe mi sostenevano. Quando le lacrime si accumu­lavano nei miei occhi, mi sem­brava di sentire gli occhi degli uomini su di me.
Gli occhi degli uomini. Quella volta erano occhi sot­tili come finissime fibre a po­sarsi su di me. Sottili come fi­li di seta sulle loro facce nere e gonfie. Gli occhi dei feriti gravi e deformi allineati sul greto del fiume guardavano increduli in direzione di chi era illeso. Increduli, increduli di fronte a tutto, esausti, tre­molanti, e tremavano e tor­navano a tremare quegli oc­chi, fissi su qualcosa di spa­ventoso. Gli occhi dei bambi­ni morti annegati, occhi sbar­rati come biglie sotto la su­perficie dell'acqua. Braccia e gambe aperte sott'acqua, i tristi enormi visi sulle teste enormi. I bambini stavano di­stesi sul fondo del fiume co­me se fossero pezzi di un campionario della morte. Poi pezzi di campionario com­parvero dappertutto.
I corpi degli uomini. Erano davvero cadaveri di esseri umani? Mani e piedi sul punto di sollevarsi, busti lanciati verso l'Assoluto, dita che con gesti convulsi cercavano di afferrare il cielo... Colli trafit­ti dal fascio luminoso, un lam­po bianco nei denti stretti, un tracimare di viscere... Un istante per essere squarciati, una sfida continua all'istante successivo... Corpi distesi con la faccia nel terreno, di lato, a pancia in su, guardava­no tutti il cielo, con espressio­ne triste, dalle profondità della voragine, dal fondo del­la voragine carbonizzata in cui erano precipitati.


I corpi degli uomini. Roto­lavano vicino ai piedi dei so­pravvissuti. Erano come un groviglio attaccato ai miei piedi. Camminavo senza riu­scire a liberarmi da quel gro­viglio. Camminavo al mattino su una bella strada asfaltata fiancheggiata dai platani in un quartiere di Tokyo rispar­miato dagli incendi. Ogni mat­tina i miei occhi si tingevano del verde dei platani e lo river­savano in altri occhi limpidi. Ogni mattina i miei occhi cer­cavano i segni di campi fioriti, i miei orecchi vibravano al cinguettio dolce dei passeri. Non devi vivere per te stesso, devi vivere solo per il lamento dei morti. Se riesco ancora a provare emozioni, lo devo sol­tanto al vostro lamento.



Ma io riuscivo a sentire sol­tanto il suono dei campanelli dentro di me... Ma che cos'era per me quello spazio stanco, che tremava e tornava a tre­mare, e ancora tremava, tor­nava a tremare, e stanco tre­mava? Divampava il fuoco, si sopiva, poi ancora bruciava, divampava, continuava a in­seguirmi, cos'erano per me quelle fiamme assillanti? Sto per cadere dal treno. Rischio di restare schiacciato tra la folla dello scompartimento. Non ho una casa in cui stare. Le case si rifiutano di acco­gliermi. Sto per cadere, sto per restare schiacciato, e in­tanto vago senza meta. Vago senza meta. Vago senza meta. È dell'uomo il vagare senza meta? Vago senza meta con la mia idea di uomo."
                                                                            
                                                                                         Tamiki Hara




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