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Il 14 e 15 giugno 2014 i media italiani hanno riportato con una certa enfasi la
notizia della presenza del XIV Dalai Lama a Livorno. Ovviamente non si sono
soffermati sui contenuti degli insegnamenti buddhisti impartiti in quei giorni
ad alcune migliaia di persone giunte da tutta Europa, bensì su due fatti: la
consegna a Sua Santità della cittadinanza onoraria da parte del Sindaco appena
eletto nelle liste del movimento politico guidato da un comico genovese, e
soprattutto la manifestazione contro il Dalai Lama inscenata da circa 400
persone appartenenti alla Comunità
Internazionale Shugden (ISC), presunta vittima di persecuzioni religiose e
di violazioni dei diritti umani da parte del Premio Nobel per la Pace e dei
suoi seguaci.
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Livorno 2014 |
Per molte ore infatti gli insegnamenti sono
stati accompagnati dall’eco dello slogan ripetuto come un mantra all’esterno del Pala Modigliani: “Stop Dalai Lama, Stop Lying! Stop Dalai Lama, Stop Lying!”[1].
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Il 4 febbraio 1997 a Dharamsala, nell’India del Nord, a pochi passi dalla
residenza del Dalai Lama in esilio, Geshe Lobsang Gyatso, direttore della
Scuola di Studi Dialettici Buddhisti e due monaci suoi collaboratori sono stati
uccisi a coltellate mentre lavoravano sulla storia del Quinto Dalai Lama. La
polizia indiana identificò i presunti responsabili in alcuni seguaci del culto
di Shugden poi fuggiti in Tibet (e tuttora in libertà…).
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Ancor prima, nel 1986, proprio a Dharamsala, il Dalai Lama aveva pubblicamente
dichiarato: “Ultimamente vi sono stati
problemi connessi con il protettore Gyalchen Shugden. Quanti di voi vivono in
India lo sanno bene e non devo ripeterli. Ma quei tibetani che lo accettano
solo sulla base della sua reputazione di grande protettore dei Gelugpa non
fanno del bene al Tibet, né religiosamente né politicamente”[2].
Ma… chi o che cosa è Shugden? Poiché tale voce curiosamente non sembra comparire nel
meritorio Dizionario del Buddhismo di
Philippe Cornu, si può leggere ciò che dice Donald Lopez, docente di studi
buddhisti negli Usa, secondo cui Dorje
Shugden (Rdo rje Shugs Ldan,
Fulmine Poderoso, o Portatore della Forza del Vajra) “è un’importante
divinità protettrice della scuola Gelug, ma di origini recenti”[3].
Nel complesso pantheon del Buddhismo del
Tibet, il Vajrayana (Veicolo
Adamantino), i Protettori del Dharma,
in sanscrito Dharmapala, sono deità
che hanno il compito di custodire gli insegnamenti e proteggere i praticanti.
Nonostante siano spesso raffigurati con un aspetto irato, terrifico, non sono
dei demoni malvagi, anzi vengono invocati per dissipare gli ostacoli sulla via
spirituale[4].
Tradizionalmente vengono riconosciuti due
tipi di Dharmapala:
- i protettori di saggezza, emanazioni dei
buddha e dei bodhisattva, e
- i protettori mondani: “spesso si tratta di deità locali molto
antiche, di demoni o spiriti potenti che, dopo essere stati soggiogati [dai
grandi maestri buddhisti] hanno offerto
loro la propria essenza vitale”[5]
e hanno giurato di preservare gli insegnamenti. Molti di essi appartengono alle
religioni tibetane pre-buddhiste (genericamente definite Bön). Alcuni sono specificamente legati a taluni luoghi del Tibet,
a singole scuole buddhiste e a particolari monasteri. Ad esempio Pehar, che è molto importante per i Gelugpa e per i Nyingmapa, ed è il protettore ufficiale del governo tibetano, il
quale lo consulta attraverso l’oracolo-medium di Nechung.
Shugden,
originario del Tibet Occidentale, appartiene alla classe dei protettori
mondani, anche se i praticanti del suo culto lo ritengono una emanazione di Manjusri (“Dolce Gloria”), il bodhisattva personificazione del
principio della Saggezza dei buddha.
Lopez ha definito
Shugden “di origini recenti”: l’espressione
è vera se la si intende in relazione alla storia del Buddhismo in Tibet, che inizia
nel VII secolo d.C.
Il mito di Shugden
nasce invece molto più tardi, nel XVII secolo, all’epoca del Dalai Lama Lobsang
Gyatso, il “grande Quinto” (1617-1682), nella cui persona si attuò una piena
convergenza di potere spirituale e potere temporale. Come tutti i Dalai Lama,
apparteneva alla scuola Gelugpa[6],
ma si aprì anche agli insegnamenti dei Nyingmapa,
la scuola “degli Antichi”, fondata da Padmasambhava (“Nato dal Loto”) nell’VIII
secolo dopo che ebbe soggiogato le forze occulte che ostacolavano la diffusione
del Buddhismo nel Tibet. Le aperture del Grande Quinto suscitarono le ire di
molti monaci Gelug, che consideravano
Padmasambhava un eretico.
Quando Lobsang
venne incoronato Dalai Lama, nel 1642, tra i settemila monaci del monastero di
Drepung dove viveva c’erano solo due tulku,
ufficialmente riconosciuti come rinascite di grandi maestri del passato: uno
era lo stesso Lobsang, l’altro era Dragpa Gyaltsen, un dotto monaco di origini
aristocratiche, anch’egli candidato alla carica di Dalai Lama. Venne scelto
Lobsang, e Dragpa fu invece riconosciuto come successore di Panchen Sonam
Dragpa, un grande studioso e maestro del terzo Dalai Lama, vissuto nella
seconda metà del 1500. La cosa non fu accettata da tutti e una profonda rivalità
si instaurò tra i seguaci di Lobsang e quelli di Dragpa, i quali lo
consideravano il solo rimasto a difendere la pura tradizione Gelugpa.
Nel 1656, a soli
38 anni, Dragpa morì, forse suicidandosi ritualmente ingoiando una sciarpa
cerimoniale, forse assassinato con la sciarpa stessa per aver sfidato il Dalai
Lama ad un dibattito filosofico, o forse per malattia.
Secondo
l’autobiografia del Grande Quinto, che si recò per pregare presso Dragpa, già
gravemente malato, “il tulku era come
impossessato da un demone e la sua mente non era chiara, perciò la pratica non
ebbe effetto e il tredicesimo giorno del mese [di luglio] morì”[7].
Durante la
cerimonia di cremazione avvennero però fatti stupefacenti, che 300 anni dopo saranno
così narrati da Trijang Rinpoche, secondo tutore dell’attuale Dalai Lama e
devoto di Shugden: “Applicato il fuoco
alla pira, cominciò il rito. Il fumo si eresse come una colonna, dritto,
bianco, e tre parti distinte volarono via nel cielo. L'attendente di Dragpa
Gyaltsen, quando vide alzarsi quelle nuvole dalla forma pacifica supplicò il
maestro: “Motivati da gelosia e intenzioni cattive ti hanno ucciso, e tu
ancora mostri un aspetto gentile”. Allora con lo scialle da monaco sventolò
l'aria e il fumo si divise. Due parti si diradarono nel cielo, una parte
divenne scura e prese la forma di un pugno chiuso, si abbassò verso terra con
un movimento a spirale muovendosi nella direzione di Tsangpu passando da Dembag
(uno spiazzo sotto al monastero), segno che l'aspetto della saggezza della
mente di Dragpa Gyaltsen andò a chiedere l'aiuto di Setrap [uno spirito
guardiano locale].
Nel
fuoco, il corpo di Dragpa Gyaltsen non bruciò e fu costruito uno stupa
d'argento a base ottagonale per contenerlo, poi lo stupa fu trasportato
provvisoriamente nella Residenza Superiore. I custodi sentirono esplosioni,
voci, lamenti e suoni spaventosi provenire dall'interno, così che nessuno
poteva nemmeno transitare lì vicino. Interpellato l'oracolo di Nechung, il
Reggente fece aprire lo stupa d'argento, estrasse il corpo, lo mise in una
scatola di legno e lo fece gettare nel fiume Kyichu”[8],
dove la corrente lo trascinò via.
Nei giorni successivi il Dalai Lama
ebbe incubi e visioni negative, molti monaci si ammalarono, alcuni morirono.
Tutti questi segni furono attribuiti allo spirito di Dragpa, “sorto nell’aspetto di una divinità violenta”,
come dice Trijang Rinpoche[9].
Si trattava di Shugden, chiamato anche Dholgyal
o Gyalchen, “uno spirito perfido molto potente scaturito da chi ha deliberatamente
mancato di mantenere la parola o promessa al suo lama a causa di risentimento o
dissenso ed è nato da preghiere distorte, così da danneggiare l’insegnamento
del Buddha e gli esseri senzienti”[10].
Sono le parole del Grande Quinto, il quale divenne il bersaglio di Shugden e si
ammalò. Si verificarono altre morti di monaci, carestie, terremoti, fino a che
venne deciso di procedere al Rito del Fuoco, un potente esorcismo per
distruggere lo spirito. Secondo quanto narrato nella biografia di un lama che
partecipò alla puja, “i Messaggeri Operatori del Rito [presero] l’incontrollabile spirito elementare che
vagava di notte, lo legarono alla vita, lo uccisero e lo mangiarono. Tutti i
partecipanti udirono grida e avvertirono odore di bruciato”[11].
Pare invece che in sostanza l’esorcismo non funzionò: il Dalai Lama guarì
completamente, ma la sua stessa biografia afferma che lo spirito si allontanò e
si recò presso il monastero Sakyapa,
dove un maestro gli diede un rifugio e dove gli venne poi costruita una
cappella.
Da lì cominciò la vicenda di Dholgyal/Shugden,
che segnò i secoli successivi della storia del Tibet e, dopo l’invasione cinese,
dei Tibetani in esilio. Il culto a lui dedicato si diffuse rapidamente, i riti
venivano praticati in diversi monasteri, il che era anche favorito dai gravi problemi
che il paese doveva affrontare: dopo
la scomparsa del Grande Quinto e le tortuose vicende che accompagnarono la vita
del sesto [12],
cinque Dalai Lama, dall’ottavo al dodicesimo, morirono da bambini o vennero
comunque uccisi; i Cinesi approfittarono della situazione e intorno al 1720
inviarono soldati in Tibet per proteggerlo dai Mongoli. Questo fatto ancora
oggi è usato dal governo cinese per legittimare le proprie pretese su quei
territori strategicamente molto importanti. Da allora la figura di Shugden
iniziò ad intrecciarsi indissolubilmente con la storia dei rapporti politici
tra Cina e Tibet.
Molti
lama della scuola Gelug ed esponenti
del governo tibetano presero a rivolgersi allo spirito, chiedendogli di
diventare un protettore della loro scuola dalle influenze dei Nyingmapa, e Shugden acconsentì, fino a
diventare uno dei principali protettori dei Gelugpa.
Sua funzione specifica era quella di impedire ogni tipo di mescolanza tra le
due scuole, al punto che ad un Gelugpa
era fatto divieto perfino di toccare i testi Nyingma[13].
Il
riconoscimento “ufficiale” di tale ruolo avvenne nel 1837, quando, alla morte
del X Dalai Lama, l’ambasciatore cinese si recò nel principale tempio di
Shugden per chiederne un parere ed ebbe risposte che ritenne corrette.
L’Imperatore concesse allora il riconoscimento dello spirito come Protettore
della scuola.
L’immagine
di Shugden, la sua dimora e i riti a lui connessi vennero stabiliti con
precisione:
“All’interno del palazzo sono gettati qua e là cadaveri umani e carcasse
di cavalli, e il sangue degli uomini e dei cavalli si unisce a formare un lago.
Pelli umane e pellicce di tigre pendono come tendaggi. Il fumo della 'grande
offerta del fuoco' [carne umana] si
diffonde nelle quattro direzioni del mondo. All’esterno, sulla terrazza, si
dimenano cadaveri resuscitati e rakṣasa
[demoni], e le quattro classi
di scheletri eseguono la loro danza. Da ogni lato pendono tappezzerie fatte di
pelle d’elefante e pelle tolta ai cadaveri. Vi sono 'stendardi della vittoria'
e stendardi circolari fatti con corpi di leone, nappe fatte di visceri
colanti, ghirlande di teste, ornamenti ricavati dai cinque organi sensoriali,
scacciamosche di capelli umani, e altri oggetti spaventosi...
All'interno...
[c'è] lo spaventoso rDo rje shugs ldan [Dorje
Shugden], di colore rosso
scuro, feroce come un selvaggio rakṣasa,
dalla bocca simile all’abisso dello spazio. Scopre quattro zanne,
taglienti come lastre di ghiaccio, tra cui arrotola la lingua alla velocità
della saetta, facendo tremare i tre mondi... La fronte è contratta per l’ira. I
tre occhi iniettati di sangue guardano irati i vighna [ostruttori] nemici. Le fiamme giallo-rosse che escono
dai sopraccigli e dai peli della faccia bruciano completamente le quattro
classi di bdub [demoni]. I capelli giallo-bruni sono ritti sulla
testa, e in cima, al centro, in un mandala
solare, risiede il signore protettore e re della religione, il grande Tsong kha pa in aspetto pacifico.
Muovendo
rapidamente le orecchie, rDo rje shugs
ldan provoca un fortissimo vento che distrugge il male e spazza via i
malfattori, gli spergiuri e i demoni creatori di ostacoli. Dalle narici
prorompono nuvole cariche di pioggia, da cui escono tuoni e fulmini che
percuotono con lampi gialli la terra dei vighna”[14].
Ogniqualvolta
in Tibet si verificavano dei tentativi di creare collegamenti tra scuole
diverse – ad esempio nel XIX secolo, col movimento Ris Med (Rimé, “senza
restrizioni”, “non settario”), o nei primi decenni del XX, con le prime
esperienze di modernizzazione del Paese da parte del XIII Dalai Lama – il culto
di Shugden riprendeva vigore, opponendosi ad ogni apertura e rinnovamento.
Un
importante esponente del culto fu il monaco Pha bong kha pa (Pabonka)[15],
uno dei più grandi maestri tibetani del XX secolo, guru di Trijang, il già citato tutore del XIV Dalai Lama. “Rivolto tanto ai monaci che ai laici, il
movimento [guidato da Pabonka] favoriva
un forte senso di identità comunitaria in un momento in cui quella stessa
identità veniva minacciata dalla spinta modernizzatrice del governo e da
influenze esterne”[16].
Poiché il culto era così diffuso ai più alti livelli della scuola Gelug, fino ai tutori dell’attuale Dalai
Lama, anche quest’ultimo ne fu profondamente influenzato e per molti anni incluse
le preghiere a Shugden nella propria pratica religiosa quotidiana, favorendo la
devozione nei confronti del Protettore da parte del clero. L’oracolo di Shugden
divenne così il secondo per importanza dopo Nechung.
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L'oracolo di Nechung |
Si disse anche che fu
proprio Shugden, nel 1959, a consigliare il giovane Dalai Lama a fuggire in
India prima del definitivo attacco cinese alla sua residenza a Lhasa.
La
diaspora dei Tibetani non contribuì affatto a ricomporre le divisioni: anche
durante l’esilio, molti continuarono a pensare che i problemi del Tibet fossero
dovuti alle eccessive aperture verso le altre scuole e verso il mondo esterno,
e che solo Shugden potesse costituire la soluzione.
Ma
a partire dagli anni ’70 si verificò un profondo cambiamento: il Dalai Lama
ebbe diversi sogni e premonizioni intorno al culto di Shugden, ne studiò a
fondo la storia e la dottrina e nel 1975 pervenne alla decisione di abbandonare
la pratica, scoraggiando chiunque a seguirla. Affermò che Shugden non era “né un buddha né l’incarnazione di Drakpa
Gyaltsen, ma una divinità mondana, forse uno spirito nefasto, il cui culto
alimentava il settarismo nella comunità in esilio, ostacolando la causa dell’indipendenza
tibetana”[17].
In una intervista recente, ha ribadito un elemento fondamentale nel Buddhismo,
ovvero l’aver personalmente sperimentato gli effetti di una pratica: “Se ho deciso di sconsigliarne il culto
[di Shugden] è perché ho sperimentato a
mia volta i problemi che possono sorgere affidandosi a questi esseri e ho avuto
numerose esperienze durante i sogni e le divinazioni [..]. Se prendi come vero rifugio l’Oracolo o una
divinità che non sia trascendente, oltre i limiti dell’attaccamento, il tuo
legame con i Tre Gioielli, il Buddha, i suoi insegnamenti e la comunità
religiosa, è perso”[18].
Già
nel 1973 Zemey Rinpoche, discepolo di Trijang, aveva pubblicato un “Libro Giallo”, nel quale raccontava in
dettaglio le disgrazie di cui furono vittime i monaci che avevano mescolato le
pratiche Gelug con quelle di altre
scuole, provocando la reazione di Shugden. Ma il testo venne condannato dal
Dalai Lama, il quale “non tornò mai sulle
sue decisioni, e fece sapere che se i suoi consigli non fossero stati ascoltati
avrebbe negato a coloro che fossero rimasti legati a Dorje Shugden la
possibilità di presenziare ai suoi insegnamenti”[19]:
nel 1996, durante le celebrazioni del Capodanno tibetano (Losar) in India, chiese a tutti i devoti di Shugden di abbandonare
la cerimonia, a causa del legame karmico che si instaura durante le iniziazioni
tra il lama e l’iniziato. In caso contrario la sua stessa salute ne sarebbe
stata danneggiata.
La
decisione del Dalai Lama provocò naturalmente gravi lacerazioni nelle gerarchie
e nella comunità Gelugpa. Ne nacque una
controversia che non solo non è terminata, ma che si è progressivamente
inasprita. “Alcuni si spinsero al punto
di dichiarare che il Dalai Lama non era il vero Dalai Lama, e che quarant’anni
prima era stato scelto il bambino sbagliato”[20].
I devoti di Shugden, guidati da Geshe Kelsang Gyatso, un monaco trasferitosi in
Inghilterra (la setta è presente e molto attiva anche in Occidente), accusarono
Sua Santità di violare la libertà religiosa, di essere intollerante, di
provocare la persecuzione dei devoti di Shugden nei monasteri e nei villaggi.
Infine,
come si è detto, nel 1997 dalle violenze verbali si passò a quelle fisiche,
quando Geshe Lobsang Gyatso, acceso oppositore del culto di Dorje Shugden, fu
ucciso a Dharamsala con due discepoli, e la setta fu sospettata dell’omicidio.
Ciononostante, i seguaci di Shugden continuano a presentarsi nel ruolo delle
vittime di una vera e propria persecuzione, che “avrebbe fatto perdere il lavoro a molti tibetani in India e fatto
espellere molti monaci dai monasteri”[21].
Un atteggiamento vittimistico, è da dire, piuttosto tipico nelle organizzazioni
con caratteristiche settarie.
Da
parte sua, la Cina, che nella sua storia è sempre stata molto attenta a quanto
avviene sul Tetto del Mondo, non ha perso le ghiotte occasioni di intervento
che l’affaire Shugden le ha offerto,
ben consapevole che l’invasione del 1950 e del 1959 e le successive violente
repressioni di ogni richiesta di autonomia e di ogni forma di dissenso hanno
tutt’altro che risolto il problema Tibet. Dopo aver fatto nominare Panchen
Lama, la seconda autorità spirituale tibetana dopo il Dalai Lama, una persona
gradita al Partito, ha sponsorizzato la causa dei devoti di Shugden: “oggi le nuove generazioni di tulku, lama,
geshe e monaci viventi nella Regione Autonoma del Tibet ricevono un’educazione
sempre più regolarmente improntata sulla tradizione di Dorje Shugden”[22],
e “nella Repubblica Popolare sono stati
approvati stanziamenti extra destinati alla costruzione di nuovi templi [a
lui] dedicati, all’estero sono state
finanziate le attività di proselitismo per promuover[ne] il culto”[23].
Dal loro canto, i seguaci del Protettore creano consenso verso il regime cinese
e cercano di screditare la figura del Dalai Lama agli occhi dei Tibetani – nel
Tibet occupato e in esilio – e di fronte all’opinione pubblica internazionale.
Non si può dire quanto questo sia il frutto di scelte consapevoli o meno, ma
resta il fatto che “il culto di Shugden è
oggi l’arma con cui Pechino cerca di dividere la comunità tibetana”[24],
per giungere infine ad eliminare ogni traccia del lignaggio dei Dalai Lama,
oppure a scegliere un Dalai Lama “fantoccio” del regime comunista.
L’affaire Shugden ad oggi è lontano
dall’essere chiuso, il culto è ben presente nella comunità tibetana e si è
radicato anche tra i praticanti occidentali del Buddhismo Vajrayana. Le proteste pubbliche contro la persona del Dalai Lama
da parte dei seguaci di Shugden non sono affatto cessate, come pure le prese di
posizione a favore delle sue decisioni[25].
La vicenda continuerà ad affiancare e a segnare la storia attuale del popolo
tibetano e della sua cultura, il cui esito è ancora tutto da scrivere.
DA
LEGGERE
Per
chi volesse approfondire i temi legati alla vicenda Shugden, è imprescindibile
un ottimo volume del 2008: Il demone e il Dalai Lama – Tra Tibet e Cina,
mistica di un triplice delitto, pubblicato da Baldini Castoldi Dalai
Editore.
L’autore,
Raimondo Bultrini, è un
documentarista e giornalista specializzato sull’Asia e sul Buddhismo,
collaboratore del gruppo La
Repubblica/L’Espresso. Nel suo libro ha ripercorso la storia del Protettore
Shugden partendo dal triplice omicidio di Dharamsala e, mescolando abilmente
stile narrativo e taglio giornalistico, interviste e saggistica storica, ha
ricostruito in maniera documentata e di piacevole lettura l’intricata storia
che abbiamo cercato di riassumere. La quale non è, come si potrebbe
erroneamente ritenere, una curiosa vicenda del tutto interna al mondo tibetano
e/o buddhista. In realtà, come Bultrini stesso osserva, “le implicazioni del caso Shugden meritano di essere approfondite
proprio perché rappresentano un esempio della direzione verso la quale possono
portare le relazioni tra il futuro grande potere planetario, la Cina, il Tibet
e il resto del mondo”.
CONSIDERAZIONI
MARGINALI
Sorge
a questo punto una domanda, che apre un campo di ricerca tutto da esplorare: la
vicenda Shugden, soprattutto nelle modalità con cui si è manifestata nei tempi
recenti, può definirsi come un caso di “fondamentalismo buddhista”?
Ha
scritto F. Maroaldi su La Repubblica:
“Il fondamentalismo islamico rappresenta
da anni il principale pericolo della convivenza planetaria. Del fondamentalismo
induista si sente parlare sempre più spesso [..]. Neppure ebraismo e
cristianesimo possono dichiararsi indenni da febbri integraliste [..]. Fin qui,
l’unica religione che pareva non correre tale rischio era il buddhismo”[26],
ma il culto di Shugden sembra smontare tale immagine stereotipata e falsamente
idilliaca di una tradizione plurimillenaria.
Ferma
restando la necessità di pervenire ad una esatta definizione di concetti quali fondamentalismo ed integralismo, che non sono del tutto sinonimi, e tenuto altresì
conto del fatto che il fondamentalismo non è un fenomeno solo religioso, ma
coinvolge innumerevoli aspetti della vita umana, chi scrive ritiene che molti
eventi della storia più o meno recente del Buddhismo debbano essere
attentamente studiati non solo dagli specialisti, ma anche dai praticanti,
soprattutto occidentali, che spesso tendono ad ignorarli o a considerarli
estranei, ininfluenti rispetto alla pratica personale e collettiva. Come se
fossero sufficienti la distanza temporale o geografica, o la redazione di una
lettera di “scuse” da parte di qualche istituzione religiosa per considerare
chiusa la questione.
Solo
a titolo di esempio, oltre all’affaire
Shugden, si possono menzionare il consenso e il supporto fornito all’imperialismo
giapponese nel XX secolo da parte di moltissimi monasteri Zen; la politica
persecutoria del governo cingalese appoggiato dalla maggioranza buddhista
contro le minoranze induiste, musulmane e cristiane; la disputa tra il governo
thai e quello cambogiano per il possesso di un tempio khmer; la persecuzione
dei musulmani in Myanmar ecc.
Esempi
da studiare, come fece con Shugden il Dalai Lama, che non ha poi esitato ad
abbandonare una pratica secolare. E da approfondire bene, sotto tutti i punti
di vista, storico, politico, culturale, ricercandone le cause nella storia dei
popoli e delle istituzioni civili e religiose, nelle strutture sociali ed
economiche, nelle stesse tradizioni ed insegnamenti del Buddhismo, dei
buddhismi.
Almeno
sotto un certo aspetto, una risposta provvisoria è già possibile: sì, un fondamentalismo buddhista non solo è
possibile, ma esiste, e va ricercato in sé stessi, in quanto, ancor prima di un
fatto storico, esso è un modo di essere della mente, che si manifesta
nell’ignoranza, intesa nel suo significato comune, come assenza di studio
intellettuale; nella mancanza di spirito critico; nell’illusione di poter
delegare ad altri il proprio cammino evolutivo; nella paura delle
“contaminazioni”; nel desiderio di appartenenza, di ortodossia/ortoprassi, di
adesione ad un modello “autentico” (il vero-buddhismo, il vero-zen, il
vero-maestro, il vero-*).
[1] Cfr. tra gli
altri: Dalai Lama cittadinanza e contestazione, su La Repubblica del 15.6.2014.
[2] Cit. in D.S.
Lopez, Prigionieri di Shangri-La, Ed. Ubaldini, pag. 180.
[3] Id., pag. 177.
[4] Cfr. Ph. Cornu, Dizionario
del Buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 159.
[5] Id., pag. 162.
[6] La scuola Gelugpa, detta anche dei “Berretti
Gialli”, fu fondata nel XIV secolo dal lama riformatore Tsong Khapa. A partire
dal XVII secolo si diffuse in tutto il Tibet.
[7] Cit. in R.
Bultrini, Il demone e il Dalai Lama, Ed. Baldini Castoldi Dalai, pag.
261.
[8] Id., pag. 261-262.
[9] Id., pag. 260.
[10] Id., pag. 263.
[11] Id., pag. 267.
[12] Si veda il post Un
sesto, forse due, e un Settimo, in: http://zenvadoligure.blogspot.it/
[13] Cfr. Prigionieri
di Shangri-La, pag. 178.
[14] Cit. in: Prigionieri
di Shangri-La, pag. 178.
[15] Pabonka (Ciampa
Tenzin Trinley Gyatso, 1878-1941 o 1943) fu il principale maestro dei due
tutori dell’attuale Dalai Lama. Fu autore de La Liberazione nel Palmo della Tua Mano, un testo fondamentale
della tradizione Lam Rim (Stadi del
Sentiero), iniziata col maestro Atisha (982-1054) e proseguita con Lama Tsong
Khapa. È pubblicato in italiano presso le Edizioni Chiara Luce.
[16] D.S. Lopez, pag.
179.
[17] Id.
[18] Dall’intervista
rilasciata a R. Bultrini, in: Il demone e il Dalai Lama, pag. 171.
[19] Voce “Dorje
Shugden” in: https://it.wikipedia.org/wiki/Dorje_Shugden
[20] D.S. Lopez,
pag.180.
[21] M. Bunting, su: The Guardian del 6.7.1996, cit. in D.S.
Lopez, pag. 182.
[22] In: https://it.wikipedia.org/wiki/Dorje_Shugden.
[23] C. Astarita, Come
si diventa un’ex divinità, in: http://www.rivistastudio.com/standard/come-si-diventa-unex-divinita/
[24] Id.
[25] Si veda la “Dichiarazione” sottoscritta da
moltissimi centri di pratica italiani in: http://www.taracittamani.it/dichiarazione-il-culto-di-dogyalshugden/
[26] F. Maroaldi, Il
demone del Dalai Lama, su: La
Repubblica dell’8.10.2008.