martedì 7 aprile 2020

Il Dharma ai tempi del virus - 6 - Il Kali Yuga, una burla induista?


Una nozione, quella di Età Oscura, o Età del Ferro, o Kali Yuga, sulla quale troppo poco si riflette nell’Occidente della Modernità, anche da parte di coloro che abbagliati dalla luce dell’Asia non hanno sufficientemente considerato che ad ogni levar del sole segue inevitabilmente il suo volgersi all’occaso.
Una valida introduzione al tema, così attuale in questi mesi di crisi, la fornisce René Guénon nella prima parte del suo scritto del 1927 La crisi del mondo moderno.



L'ETA' OSCURA

La dottrina indù insegna che la durata di un ciclo dell'umanità terrestre, al quale essa dà il nome di manvantara, si divide in quattro età, che segnano altrettante fasi di un oscuramento progressivo della spiritualità primordiale. Si tratta degli stessi periodi che, da parte loro, le tradizioni dell'antichità occidentale designarono come le età dell'oro, dell'argento, del bronzo e del ferro. Noi ci troviamo presentemente nella quarta età, nel kali-yuga o «età oscura», e noi vi siamo, si dice, già da più di seimila anni, cioè da una data decisamente anteriore a tutte quelle conosciute dalla storia «classica». A partire da allora, verità già accessibili a tutti sono divenute sempre più nascoste e difficili a raggiungere. Coloro che le posseggono sono sempre meno numerosi e se il tesoro della saggezza «non-umana», anteriore ad ogni età, non può mai perdersi, esso si avvolge tuttavia di veli sempre più impenetrabili, che lo nascondono agli sguardi e sotto i quali è estremamente difficile scoprirlo, per questo che, sotto simboli diversi, dappertutto si è parlato di qualcosa che si è perduto, almeno in apparenza e per il mondo esteriore, e che va ritrovato da coloro che aspirano alla conoscenza vera; ma è stato anche detto che quel che è divenuto così nascosto ridiverrà visibile alla fine di questo ciclo: fine che, in virtù della continuità che collega insieme tutte le cose, sarà in pari tempo il principio di un ciclo nuovo.
Tuttavia ci si domanderà senza dubbio perché lo sviluppo ciclico deve compiersi in un tale senso discendente, dal superiore verso l'inferiore, cosa che, come lo si rileverà senza fatica, è la negazione stessa dell'idea di «progresso» quale i moderni la intendono. Il fatto è che lo sviluppo di ogni manifestazione implica necessariamente un allontanamento sempre maggiore dal principio da cui essa procede. Partendo dal punto più alto, essa tende per forza al basso e, come i corpi pesanti, vi tende con una velocità sempre crescente, finché essa trova un punto d'arresto. Questa caduta potrebbe esser caratterizzata come una materializzazione progressiva, il principio avendo la sua espressione in una pura spiritualità; diciamo la sua espressione, e non il principio stesso, per il fatto che quest'ultimo sta di là da ogni antitesi e cosi non può esser designato con nessun termine implicante qualsiasi opposizione. D'altronde, parole come «spirito» e «materia», che qui per comodità prendiamo in prestito dalla lingua occidentale, per noi hanno solo un valore simbolico. Esse potrebbero corrispondere davvero a ciò di cui si tratta solo a condizione di scartare le interpretazioni speciali che ne dà la filosofia moderna, nella quale «spiritualismo» e «materialismo», ai nostri occhi, non sono che due forme complementari implicantisi a vicenda e parimenti trascurabili per chiunque voglia andar di là da tali punti di vista contingenti. D'altronde, qui noi non ci proponiamo di trattare di metafisica pura, per cui, senza mai perder di vista i principi essenziali, e prendendo le precauzioni necessarie per prevenire ogni equivoco, noi possiamo permetterci l'uso di termini che, per quanto inadeguati, sembrano atti a far comprendere più facilmente le cose, nella misura in cui ciò sia possibile senza snaturarle.
Quel che abbiamo detto or ora sullo sviluppo della manifestazione ci presenta una veduta che, pur essendo esatta nell'insieme, è tuttavia troppo semplificata e schematica là dove essa può far credere che tale sviluppo si attui in linea retta, in un senso unico e senza oscillazioni di sorta. La realtà è assai più complessa. Come già dicemmo, bisogna infatti considerare in tutte le cose due tendenze opposte, discendente l'una, e l'altra ascendente, o, se ci si vuol servire di una diversa imagine, l'una centrifuga e l'altra centripeta. Dal predominare dell'una tendenza o dell'altra procedono due fasi complementari della manifestazione, una fase di allontanamento dal principio e un'altra di ritorno verso il principio, fasi spesso paragonate simbolicamente ai movimenti del cuore o alle due fasi della respirazione. Benché abitualmente queste due fasi vengano descritte come successive, bisogna pensare che, in realtà, le due tendenze ad esse corrispondenti agiscono sempre simultaneamente, seppure in diversa proporzione; e accade talvolta che in certi momenti critici, nei quali la tendenza discendente sembra esser sul punto di predominare definitivamente nel moto generale del mondo, interviene un'azione speciale per rinforzare la tendenza contraria, tanto da ristabilire un certo equilibrio, sia pure relativo e quale possono permetterlo le condizioni del momento. Il risultato è allora una rettificazione parziale, per via della quale il movimento di caduta può sembrare momentaneamente arrestato o neutralizzato (1).

È facile capire che questi dati tradizionali, che qui abbiamo potuto indicare solo in sintesi, danno luogo a prospettive assai diverse dai vari saggi di «filosofia della storia», cui si danno i moderni, e di ben altra vastità e profondità. Ma noi non intendiamo risalire alle origini del presente ciclo, anzi nemmeno agli inizi dello stesso kali-yuga. Le nostre considerazioni si restringono, almeno nel loro lato di-retto, ad un dominio assai più limitato, alle ultime fasi del kali-yuga. All'interno di ciascuno dei grandi periodi di cui abbiamo parlato si possono infatti distinguere diverse fasi secondarie, costituenti altrettante suddivisioni; e ciascuna parte essendo in qualche modo analoga al tutto, tali suddivisioni riproducono - per così dire, ad una scala più ridotta - lo sviluppo generale del ciclo maggiore, nel quale si integrano. Ma anche una ricerca completa delle modalità d'applicazione di questa legge ai diversi casi particolari ci porterebbe ben oltre i limiti propri al presente studio. Per concludere queste osservazioni preliminari ricorderemo solo qualcuna delle ultime epoche particolarmente critiche attraversate dall'umanità, quelle rientranti nel periodo che ci si è abituati a chiamare «storico», perché è effettivamente il solo ad esser veramente accessibile alla storia ordinaria o « profana »; e ciò ci condurrà in via del tutto naturale a quel che costituirà l'oggetto del nostro studio, l'ultima di tali epoche critiche altro non essendo che quella costituente i cosiddetti tempi moderni.
Vi è un fatto abbastanza strano, che sembra non aver mai avuto l'attenzione che si merita: cioè, che il periodo propriamente «storico», nel senso ora indicato, risale esattamente al VI secolo prima dell'era cristiana: quasi come se, là, nel tempo si incontrasse una barriera insuscettibile ad essere sormontata con i mezzi d'osservazione di cui dispongono i comuni ricercatori. A partir da tale epoca si ha infatti dovunque una cronologia abbastanza precisa e ben accertata; per tutto quel che è invece anteriore non si hanno, in genere, che approssimazioni assai vaghe, e le date proposte per stessi avvenimenti differiscono spesso di diversi secoli. È assai caratteristico che ciò valga perfino per quelle regioni, ove si hanno ben più che sparse vestigia, come per esempio l'Egitto; e ancor più sorprendente è che anche di fronte ad un caso eccezionale e privilegiato, come quello della Cina, la quale possiede, per epoche ben più lontane, annali datati mediante osservazioni astronomiche che dovrebbero escludere ogni dubbio, i moderni non per questo cessano di qualificare come « leggendarie » tali epoche, quasi come se si trattasse di un dominio ove essi non credono legittima alcuna certezza e ove essi stessi s'interdicono di ottenerne una. La cosiddetta antichità «classica» non è dunque, a dir vero, che una antichità affatto recente e perfino assai più vicina ai tempi moderni che non all'antichità vera, poiché essa non risale nemmeno fino alla metà del kali-yuga, la cui durata, secondo la dottrina indù, non è essa stessa che la decima parte di quella del ciclo complessivo o manvantara. Dal che si può sufficientemente giudicare fino a che punto i moderni hanno motivo di esser fieri delle loro conoscenze storiche!
Per giustificarsi, essi risponderanno senza dubbio che il resto non è che periodo «leggendario», onde ritengono di non doverne rendere conto. Ma una tale risposta è solo la confessione della loro ignoranza e di una incomprensione, che essa sola può spiegare il loro disprezzo per la tradizione. Lo spirito specificamente moderno non è, infatti, come mostreremo più in là, nient'altro che lo spirito antitradizionale.
Quale ne sia pur stata la causa, nel VI secolo prima dell'era cristiana, si produssero dei mutamenti considerevoli in quasi tutti i popoli. Questi mutamenti presentano caratteri diversi a seconda dei paesi. In alcuni casi, si tratta di un nuovo adattamento della tradizione a condizioni diverse da quelle esistenti precedentemente, adattamento che si realizzò in un senso rigorosamente ortodosso. É quel che ebbe luogo in Cina, ove la dottrina costituita originariamente in un tutto unico fu allora divisa in due parti nettamente distinte: il Taoismo, riservato ad una élite, e comprendente la metafisica pura e le scienze tradizionali d'ordine propriamente speculativo; il Confucianesimo, comune a tutti indistintamente e avente per dominio proprio le applicazioni pratiche, soprattutto sociali. Fra i Persiani sembra che vi sia stata parimenti una riadattazione del Mazdeismo, poiché una tale epoca fu quella dell'ultimo Zoroastro (2). In India si vide invece nascere il Buddhismo, cioè una rivolta contro lo spirito tradizionale spingentesi fino alla denegazione di ogni autorità, fino ad una vera anarchia, nel senso etimologico di «mancanza di principio», nell'ordine intellettuale e in quello sociale (3). Alquanto curioso è, nel riguardo, il fatto che in India non si possa trovare alcun monumento più antico di tale epoca, e gli orientalisti, che vogliono far cominciar tutto dal Buddhismo, di cui essi esagerano singolarmente la portata, hanno cercato di trar partito da questa constatazione in pro della loro tesi. La spiegazione di tale fatto è assai semplice. È che tutte le costruzioni più antiche erano in legno e quindi sono naturalmente scomparse senza lasciar traccia (4); resta tuttavia vero, che simili mutamenti nel modo di costruire corrispondono necessariamente ad una modificazione profonda delle condizioni generali dell'esistenza del popolo, nel quale essi si verificano.
Avvicinandoci all'Occidente, vediamo che la stessa epoca fu per gli Ebrei quella della schiavitù babilonese. Ed uno dei fatti più sorprendenti da constatare è che il breve periodo di settant'anni fu sufficiente per far perdere loro perfino la scrittura, poiché essi in seguito dovettero ricostruire i libri sacri con lettere affatto diverse da quelle precedentemente usate. Si potrebbero citare molti altri avvenimenti connettentisi press'a poco alla stessa data: ricorderemo soltanto che, per Roma, essa segnò l'inizio del periodo propriamente «storico», successo all'epoca «leggendaria» dei re, e che è anche noto, benché in forma un po' vaga, come allora si produssero importanti movimenti fra i popoli celtici. Ma, senza insistere oltre su ciò, riferiamoci a quanto concerne la Grecia. Anche per essa il VI secolo fu il punto di partenza della cosiddetta civiltà «classica», la sola alla quale i moderni riconoscano il carattere «storico», tutto quel che esistette prima essendo tanto poco conosciuto da poter venir considerato come «leggendario», anche se le più recenti scoperte archeologiche non permettono più di dubitare che, almeno, a tale fase pre-classica corrispose una civiltà assai reale. Noi abbiamo anzi motivi per credere che spiritualmente questa prima civiltà ellenica fu assai più interessante di quella che la segui e che i suoi rapporti con tale successiva civiltà non son privi di analogia con quelli esistenti fra l'Europa del Medioevo e l'Europa moderna. Tuttavia bisogna rilevare che la scissione allora non fu così radicale come nel secondo caso, giacché, almeno in parte, si ebbe una riadattazione effettuata nell'ordine tradizionale, soprattutto nel dominio dei «Misteri»; al che va ricondotto il pitagorismo, il quale fu essenzialmente una restaurazione in forma nuova del precedente orfismo e che, per i suoi legami evidenti col culto delfico dell'Apollo iperboreo, può perfino venir considerato come una filiazione continua e regolare di una delle più antiche tradizioni dell'umanità. Ma d'altra parte apparve presto qualcosa di mai prima visto, che doveva esercitare in seguito una influenza nefasta su tutto il mondo occidentale: vogliamo dire di quel modo speciale di pensare, che prese e conservò il nome di «filosofia». E questo punto è tale, da meritare che noi vi ci fermiamo brevemente
La parola «filosofia», in sé stessa, può essere presa in un senso assai legittimo, che fu certamente il suo senso primitivo, specie se è vero che, come si dice, Pitagora lo usò per primo. Etimologicamente, essa non significa altro che «amore per la sapienza»; essa dunque designa anzitutto una disposizione preliminare richiesta per pervenire alla sapienza, ma può anche designare, in una estensione naturalissima del significato, la ricerca che, nascendo da questa stessa disposizione, deve condurre alla conoscenza. Perciò si tratta solo di uno stadio preliminare e preparatorio, di un avviamento alla sapienza, corrispondente ad un grado inferiore di quest'ultima (5). La deviazione prodottasi in seguito consiste nello scambiare un tale grado transitorio con lo scopo stesso, nel pretendere di sostituire la «filosofia» alla sapienza, il che implica l'oblio o il disconoscimento della natura vera della seconda. É cosi che prese nascita quel che noi possiamo chiamare Ia filosofia «profana», cioè una pretesa sapienza puramente umana, quindi d'ordine semplicemente razionale, prendente il posto della vera sapienza tradizionale, superrazionale e «non-umana». Tuttavia qualcosa di quest'ultima sussistette ancora durante tutta l'antichità. A provarlo, sta anzitutto il persistere dei « Misteri », il carattere essenzialmente « iniziatico » dei quali non può essere contestato, ed altresì il fatto, che l'insegnamento degli stessi filosofi il più delle volte presentò simultaneamente un lato «exoterico», cioè esteriore, e un lato « esoterico », cioè interno; quest'ultimo permetteva di riconnettersi ad un punto di vista superiore, che peraltro ebbe a manifestarsi qualche secolo dopo in modo assai netto, benché, forse, sotto certi aspetti, incompleto, con gli Alessandrini. Affinché la filosofia «profana» si costituisse definitivamente come tale, occorreva che il solo «exoterismo» restasse e che ci si portasse fino alla negazione pura e semplice di ogni «esoterismo». È il punto al quale, nei tempi moderni, doveva condurre il movimento iniziato dai Greci; le tendenze già affermate da questi poterono allora esser portate fino alle loro estreme conseguenze e l'importanza eccessiva accordata dai Greci al pensiero razionale doveva accentuarsi fino a giungere al «razionalismo», attitudine specificamente moderna che consiste non più nel solo ignorare tutto ciò che è d'ordine superrazionale, ma nel negarlo senz'altro. Non procederemo oltre in queste anticipazioni, giacché avremo da tornare su simili conseguenze e da seguirne lo sviluppo in una altra parte della nostra esposizione.
Dal punto di vista che qui importa, in quanto è stato or ora detto, va sottolineato un punto, e cioè che alcune delle fonti del mondo moderno vanno ricercate nell'antichità «classica». Il mondo moderno non ha dunque del tutto torto quando si rifà alla civiltà greco-latina e pretende di esserne la continuazione. Vi è tuttavia da dire che si tratta solo di una continuazione lontana e alquanto infedele, poiché in quegli antichi tempi nell'ordine intellettuale e spirituale vi furono, malgrado tutto, molte cose, di cui non si può trovare nessun equivalente fra i moderni: e, in ogni caso, si tratta di due gradi assai diversi nell'oscuramento progressivo della conoscenza vera. Si potrebbe credere che la decadenza della civiltà antica abbia condotto in modo graduale e senza soluzione di continuità ad uno stato più o meno simile a quello che oggi vediamo: ma in realtà le cose non sono andate cosi, nel periodo intermedio essendovi stata per l'Occidente un'altra epoca criticata, la quale fu simultaneamente una di quelle epoche di rettificazione, cui più su abbiamo accennato.
È l'epoca dell'inizio e dell'espandersi del Cristianesimo, coincidente da un lato con la dispersione del popolo giudaico e, dall'altro, con l'ultima fase della civiltà greco-latina. Noi possiamo sorvolare questi avvenimenti, malgrado la loro importanza, perché sono più noti di quelli di cui finora si é detto, e perché il loro sincronismo é stato maggiormente rilevato, perfino dagli storici più superficiali. Sono stati anche indicati abbastanza spesso gli aspetti che la decadenza antica e l'epoca attuale hanno in comune e, senza voler spingere troppo oltre il parallelismo, si deve pur riconoscere la presenza effettiva di rassomiglianze assai spiccate. La filosofia puramente «profana» in quei tempi aveva guadagnato terreno; l'apparire dello scetticismo da un lato, il successo del «moralismo» stoico e epicureo dall'altra, mostrano abbastanza fino a che livello l'intellettualità fosse scesa. In pari tempo le antiche dottrine sacre, che nessuno comprendeva più, erano degenerate, per via di questa stessa incomprensione, in un «paganesimo» nel senso vero del termine, esse cioè non eran più che «superstizioni», cose che, avendo perduto il loro significato profondo, sopravvivevano a sé stesse in manifestazioni affatto esterioristiche. Vi furono anche dei tentativi di reazione contro questa decadenza: lo stesso ellenismo tentò di rivivificarsi con l'aiuto di elementi tratti da quelle dottrine orientali, con le quali esso poté venire in contatto: ma ciò non era più sufficiente, la civiltà greco-latina doveva finire e la rettificazione doveva venire da un'altra parte, compiersi in un'altra forma. Il Cristianesimo realizzò questa trasformazione; e, notiamolo di passata, l'analogia che si può constatare sotto un certo riguardo fra quei tempi e i nostri é forse uno degli elementi determinanti il «messianismo» disordinato che attualmente si fa largo. Dopo il periodo torbido delle invasioni barbare, necessario per compiere la distruzione dell'antico stato di cose, un ordine normale fu restaurato per una durata di qualche secolo. Fu il Medioevo, così disconosciuto dai moderni, i quali sono incapaci di comprenderne il contenuto spirituale, tanto che quest'epoca appare loro certamente assai più estranea e lontana che non l'antichità «classica».
Il vero Medioevo per noi si svolge fra il regno di Carlo Magno e il principio del XIV secolo. Con quest'ultima data s'inizia una nuova decadenza che, attraverso diverse tappe, andrà sempre più accentuandosi fino ad oggi. Il vero punto di partenza della crisi moderna è questo; è l'inizio della disgregazione della «Cristianità», essenzialmente identica alla civiltà occidentale del Medioevo; è l'origine del costituirsi delle «nazionalità» materializzate e centralistiche, parallelo alla fine del regime feudale, che a questa stessa «Cristianità» era strettamente connesso. Bisogna riportare dunque l'età moderna almeno a circa due secoli prima del termine solito; la Rinascenza e la Riforma sono soprattutto delle risultanti, resesi possibili solo in virtù di una preliminare decadenza. Ben lungi dall'essere una rettificazione, esse segnarono peraltro una caduta assai più profonda, poiché esse realizzarono un distacco definitivo dallo spirito tradizionale, l'una nel dominio delle scienze e delle arti, l'altra nello stesso dominio religioso, che era quello in cui un tale distacco poteva sembrare più inconcepibile.
Come lo abbiamo già detto in altre occasioni, ciò che si chiama la Rinascenza fu in realtà la morte di molte cose. Col pretesto di tornare alla civiltà greco-romana, non si prese di essa che quel che vi era di piú esteriore, poiché questo soltanto aveva potuto venir chiaramente espresso nei testi scritti; e siffatta restituzione incompleta presentò d'altronde, necessariamente, un carattere quanto mai artificiale, poiché si trattava di forme che da secoli avevano cessato di vivere la loro vera vita. Quanto alle scienze tradizionali del Medioevo, esse, dopo aver avuto in quest'epoca qualche ultima manifestazione, disparvero in blocco, quasi come quelle di civiltà lontane distrutte da qualche cataclisma; e, questa volta, nulla doveva sostituirle. Non restò più che la filosofia e la scienza «profana», cioè la negazione della intellettualità vera, la limitazione della conoscenza al piano più inferiore, lo studio empirico e analitico di fatti non più ricondotti ad alcun principio, la dispersione in una moltitudine indefinita di dettagli insignificanti, l'accumulamento di ipotesi infondate distruggentisi incessantemente a vicenda, e vedute frammentarie che a nulla possono condurre, salvo che a quelle applicazioni pratiche, che costituiscono la sola effettiva superiorità della civiltà moderna: superiorità, invero, poco invidiabile e che nello svilupparsi fino a soffocarne ogni altra preoccupazione ha conferito a tale civiltà quel carattere puramente materiale, che fa di essa una vera mostruosità.
Del tutto straordinaria è la rapidità con cui la civiltà del Medioevo cadde nell'oblio più completo. Già gli ambienti del XVII secolo non ne avevano più la menoma idea e i monumenti sussistenti non rappresentarono più nulla ai loro occhi, sia nell'ordine intellettuale che nello stesso ordine estetico. Dal che si può giudicare quanto la mentalità si fosse mutata nell'intervallo. Noi non ci daremo, qui, ad una ricerca dei fattori, senza dubbio assai complessi, che concorsero a produrre un tale mutamento; mutamento così radicale, che sembra difficile ammettere che esso poté compiersi spontaneamente, senza l'intervento di una volontà direttrice, la cui natura esatta resta necessariamente alquanto enigmatica. A tale riguardo, vi sono delle circostanze stranissime, quali la volgarizzazione in un dato momento, e la presentazione come scoperte nuove, di cose in realtà già da lungo tempo note, ma la cui conoscenza, per via di certi inconvenienti rischianti di non compensare i vantaggi, fino a quel tempo non era stata diffusa nel dominio pubblico (6). E’ assai inverosimile che la leggenda facente del Medioevo un'epoca «oscura» d'ignoranza e di barbarie sia nata e si sia accreditata da sé stessa e che quella effettiva falsificazione della storia, a cui i moderni si son dati, sia stata intrapresa senza nessuna idea preconcetta. Ma noi non procederemo oltre nell'esame di questa questione, poiché, quale sia il modo in cui una tale opera si sia realizzata, quel che, per il momento, più ci importa, è constatarne il risultato.
Una parola messa in onore dalla Rinascenza riassume, anticipandolo, l'intero programma della civiltà moderna: «umanismo». Si tratta infatti di tutto ridurre a proporzioni puramente umane, di prescindere da ogni principio d'ordine superiore e, si potrebbe dire simbolicamente, di distogliersi dal cielo col pretesto di conquistare la terra. I Greci, di cui si pretese seguire l'esempio, non si erano mai spinti così lontano in tal senso, nemmeno nel tempo della loro massima decadenza intellettuale, e, almeno, le preoccupazioni utilitarie in essi non erano venute al primo piano, cosi come presto doveva accadere fra i moderni. L'«umanismo» è già una prima forma di quel che sarà il «laicismo» contemporaneo. Volendo ricondurre tutto alla misura dell'uomo, preso come fine a sé stesso, si è finiti con lo scendere, gradino per gradino, fino al livello di quel che vi è di più inferiore, e col cercar soltanto la soddisfazione dei bisogni inerenti al lato materiale della natura umana; ricerca, del resto, davvero illusoria, poiché essa crea sempre più bisogni artificiali, che non può soddisfare.
Il mondo moderno giungerà fino al fondo di questa china fatale, ovvero, come è accaduto nella decadenza del mondo greco-latino, si produrrà ancora una rettificazione prima che esso finisca nell'abisso verso cui si trova trascinato? Sembrerebbe invero che un arresto a metà strada non sia più possibile e che, secondo tutte le indicazioni fornite dalle dottrine tradizionali, si sia veramente entrati nella fase finale del kali-yuga, nel periodo più oscuro di questa «età oscura», in uno stato di dissoluzione da cui non è possibile uscire se non con un brusco rivolgimento, poiché una semplice rettificazione non è più sufficiente e un totale rinnovamento appare necessario. Il disordine e la confusione, dal punto di vista superiore, che qui vogliamo assumere, regnano in tutti i domini, sono giunti ad un grado che sorpassa di molto quanto si era già visto in precedenza e, partendo dall'Occidente, essi minacciano ora d'invadere l'intero mondo. Noi sappiamo bene che il loro trionfo non potrà mai essere che apparente e passeggero, ma ciò nondimeno esso resta il segno della più grave fra tutte le crisi attraversate dall'umanità nel corso del suo ciclo attuale. Non siamo forse quasi giunti a quell'epoca temibile annunciata dai libri sacri indù, «nei quali le caste saranno mescolate e la stessa famiglia non esisterà più»? Non bisogna dissimulare la gravità della situazione; è d'uopo considerarla quale è, senza alcun «ottimismo» ma anche senza nessun «pessimismo», poiché, come si è detto precedentemente, la fine del mondo antico sarà anche l'inizio di un mondo nuovo.
Vi è un problema che, intanto, si impone: quale è la ragion d'essere di un periodo, come quello che viviamo? Infatti, per anormali che siano le condizioni presenti se considerate in sé stesse, esse debbono pur rientrare nell'ordine generale delle cose, in quell'ordine che, secondo una formula estrema-orientale, e fatto della somma di tutti i disordini. Quest'epoca, per penosa e torbida che sia, deve avere, al pari di tutte le altre, un suo posto nell'insieme dello sviluppo umano, e d'altronde il fatto stesso di essere stata prevista dalle dottrine tradizionali e, al riguardo, una indicazione sufficiente. Quel che abbiamo detto sullo svolgimento generale di un cielo di manifestazione, procedente nel senso di una materializzazione progressiva, dà immediatamente la spiegazione di un tale stato e mostra chiaramente che quel che è anormale e disordinato da un certo particolare punto di vista, tuttavia è solo la conseguenza di una legge percepibile da un punto di vista più alto e vasto. Senza insistervi, rileveremo che il passaggio da un ciclo ad un altro, come ogni cambiamento di stato, non può compiersi che nell'oscurità. É questa un'altra legge importantissima, le cui applicazioni sono molteplici: una esposizione alquanto dettagliata di essa, per ciò stesso, ci condurrebbe troppo lontano (7).
Non è tutto: l'epoca moderna deve corrispondere necessariamente allo sviluppo di certe possibilità che erano incluse fin dal principio nella potenzialità del ciclo attuale. Per inferiore che sia il rango di tali possibilità nella gerarchia complessiva, pure esse dovevano ben esser chiamate a manifestarsi come le altre, secondo l'ordine ad esse assegnato. Sotto questo riguardo, ciò che secondo la tradizione caratterizza l'ultima fase del ciclo è, per casi dire, lo sfruttamento di quanto era stato trascurato o respinto nel corso delle fasi precedenti. Infatti proprio ciò traspare dalla civiltà moderna, la quale in un certo modo vive solo di quel che le civiltà precedenti non vollero per sé stesse. Per rendersene conto, basta vedere in qual conto i veri rappresentanti delle civiltà mantenutesi finora in Oriente in fedeltà ad un tipo tradizionale tengono le scienze occidentali e le loro applicazioni industriali. Siffatte conoscenze inferiori, così vane per chi possiede una conoscenza di un altro ordine, dovevano tuttavia venire «realizzate» ed esse non potevano esserlo che in uno stadio in cui l'intellettualità vera era scomparsa. Tali ricerche di una portata soltanto pratica, nel senso più stretto del termine, dovevano esser compiute, ma esse non lo potevano che all'estremità opposta della spiritualità primordiale, mediante uomini sprofondati nella materia fino al punto di non concepire più null'altro e divenienti tanto più schiavi di questa materia, per quanto più essi vollero servirsene, cosa che li ha condotti ad una agitazione crescente, senza regola e senza scopo, alla dispersione nella molteplicità pura, fino alla dissoluzione finale.
Nelle sue grandi linee e ridotta all'essenziale, tale è la vera spiegazione del mondo moderno. Ma, dichiariamolo recisamente, questa spiegazione non va per nulla scambiata con una giustificazione. Un male inevitabile non cessa per questo di essere un male. Ed anche se dal male deve venire un bene, ciò non toglie nulla al suo carattere. Noi qui usiamo naturalmente i termini «bene» e «male» solo per farci meglio intendere e al di fuori di ogni intenzione propriamente «morale». I disordini parziali non possono essere evitati, poiché essi sono elementi necessari all'ordine totale. Ciò malgrado, un'epoca di disordine è in sé stessa qualcosa di simile ad una mostruosità che, pur essendo la conseguenza di certe leggi naturali organiche, non per questo cessa di rappresentare una deviazione e una specie di errore; o qualcosa di simile ad un cataclisma che, pur risultando dal corso normale delle cose, in sé considerato, appare pur sempre come uno sconvolgimento e una anomalia.
La civiltà moderna, come ogni cosa, ha di necessità una sua ragion d'essere e, se con essa ha da chiudersi un ciclo, può dirsi che essa è proprio quel che doveva essere, che essa ha trovato il suo tempo e il suo luogo. Non per questo ad essa deve applicarsi con minore severità un detto evangelico troppo spesso mal compreso: «Occorre che lo scandalo vi sia: ma guai a coloro che faranno accadere lo scandalo!».



(1) Ciò riconduce alla funzione di «conservazione divina» che, nella tradizione indù, è rappresentata da Vishnu, e più particolarmente alla dottrina degli avatara o «discese» del principio divino del mondo manifestato: sono accenni, cui naturalmente qui non possiamo dare nessuno sviluppo.
 (2) Va notato che il nome Zoroastro designa in realtà non un personaggio particolare, ma una funzione profetica e legislatrice ad un tempo. Vi furono parecchi Zoroastri che vissero in epoche differentissime. E’ perfino probabile che questa funzione abbia avuto un carattere collettivo, così come quella di Vyàsa in India: allo stesso modo che quel che in Egitto fu attribuito a Thoth o Ermete ha rappresentato l'opera di tuttala casta sacerdotale.
(3) È opportuno rilevare che nell'ultimo periodo il Guénon ha rettificato alquanto simili giudizi sul buddhismo, che appaiono quanto mai unilaterali e superficiali (N. d. T.).
(4) E’ un caso che non si restringe all’India ma si riscontra anche in Occidente. E proprio per la stessa ragione che non si trova alcuna vestigia delle città galliche, la cui esistenza è tuttavia incontestabile, essendo affermata dalle testimonianze di contemporanei. Anche in questo caso gli storici moderni hanno approfittato dell'assenza dei monumenti per descrivere i Galli come dei selvaggi viventi nelle foreste.
(5) Il rapporto qui è più o meno lo stesso di quello esistente, secondo la dottrina taoista, fra lo stato dell’«uomo dotato » e quello dell'«uomo trascendente » o «uomo vero».
 (6) Citeremo solo due esempi di fatti del genere destinati ad avere le più gravi conseguenze: la pretesa invenzione della stampa, già conosciuta dai Cinesi prima dell'era cristiana, e la scoperta «ufficiale» dell'America, con la quale durante tutto il Medioevo esistettero comunicazioni molto più frequenti di quel che non si sospetti.
(7) Nei Misteri di Eleusi questa legge veniva rappresentata col simbolismo del chicco di grano. Gli alchimisti la figuravano con la «putrefazione» e il «color nero» che segna l'inizio della «Grande Opera». Ciò che i mistici cristiani chiamano la «notte oscura dell'anima» non ne è che l'applicazione allo sviluppo spirituale dell'essere elevantesi agli stati superiori: e facile sarebbe indicare molte altre concordanze