In
questo articolo pubblicato dal Corriere
della Sera il 5 aprile, il noto giornalista Antonio Polito riprende il tema del “sacro” nella società moderna,
a partire da una vicenda di cronaca, di per sé insignificante se si guarda ai
personaggi che ne sono protagonisti.
Può invece
essere interessante la lettura dell’editoriale in relazione al post precedente,
nel quale si faceva cenno alle caratteristiche della crisi del mondo moderno
vista all’interno di una concezione ciclica del tempo e della storia,
concezione che non è affatto propria della Modernità.
Il
tutto, va da sé, senza minimamente entrare nel merito di una polemica tutta
“politica”, nel senso più deteriore del termine. E fermo restando altresì che
la posizione di Polito sul significato del sacro, del rito, del mito, del
simbolo, ci pare assolutamente riduttiva, in quanto si ferma alla classica
visione sociologistica della questione, tipica delle concezioni materialistiche
dell’uomo e del mondo dominanti in questa epoca.
Ha suscitato scandalo la proposta di
Salvini di riaprire le chiese a Pasqua. Non altrettanto scandalo aveva
suscitato l’idea di Renzi di riaprire le librerie, né quella della
Confindustria di tenere aperte le imprese. Il leader della Lega mescola certo
con troppa superficialità il profano della politica con il sacro della
preghiera. E le esigenze di distanziamento sociale rendono evidentemente
impossibile ciò che chiede. Ma le reazioni che ha ricevuto, quasi sdegnate,
fanno riflettere. La paradossale verità è che oggi cultura e industria ci
appaiono strumenti di rinascita e riscatto più idonei della religione. Il
processo di secolarizzazione, anche nel Paese più cattolico d’Europa, ha ormai
espunto la fede dal dibattito pubblico, come se fosse un sentimento privato,
rispettato sì, ma in definitiva inutile al corpo sociale.
Invece il sacro è sempre stato un
formidabile strumento di tenuta e coesione delle società umane, e forse è
addirittura nato per questo scopo. Émile Durkheim, il fondatore della
sociologia, definiva la religione «una cosa eminentemente sociale», il modo con
cui le comunità degli uomini, attraverso credenze e riti, costruivano la
propria rappresentazione collettiva.
Non è dunque neanche indispensabile
credere per capire perché, di fronte alla forza della natura maligna, a una
catastrofe, a un’epidemia, gli esseri umani di tutti i tempi si siano sempre
raccolti intorno a un rito religioso, in preda al timore di Dio e sperando nel
suo aiuto. Il caso, o forse la Provvidenza, ci mettono oggi proprio davanti
agli occhi la potente forza simbolica del sacro. La settimana santa e i suoi
riti accompagnano infatti con una singolare corrispondenza cronologica le
vicende della pandemia. La Quaresima era cominciata insieme con la quarantena:
il governo chiuse Codogno tre giorni prima del Mercoledì delle Ceneri. Possiamo
sperare allora che la fine di questo periodo di penitenza annunci anche
l’inizio della fine della nostra Passione, e che si apra la settimana decisiva
per la discesa della famigerata curva? E si può immaginare una metafora più
calzante della Resurrezione per il nostro disperato bisogno di un nuovo inizio?
Prima ancora di Cristo, ci pensavano del resto le feste pagane a celebrare, a
questo punto dell’anno, il rito primaverile della rinascita della terra; e la
Pasqua ebraica ricorda anch’essa una liberazione: quella del popolo di Dio
dalla prigionia in Egitto.
I miti e i riti servono agli uomini. Anche
ai contemporanei, di solito così sicuri di sé ma oggi all’improvviso sconvolti
dalla scoperta di non essere invincibili, di dover convivere sulla Terra con
specie molto più antiche ed efficienti nel combattere la battaglia per la
sopravvivenza, come i virus. Dunque teniamo pure le chiese chiuse, se non si
può prendere la comunione con la mascherina e scambiarsi il segno della pace
durante la messa. Ma ricordiamo anche che questa è forse la prima volta
dall’editto di Costantino che in Italia si celebrerà la Pasqua a porte chiuse.
Seguiremo la Via Crucis in streaming, invece che nelle mille processioni
popolari del Venerdì Santo. Pregheremo magari «in bagno o in cucina», come ci
suggerisce Fiorello. Ma ci basta sentire ogni giorno il suono delle campane, di
nuovo riconoscibile nel silenzio assordante delle nostre città, per capire che
non sarà la stessa cosa, perché «ecclesia» vuol dire comunità.