domenica 27 dicembre 2015

Dio, kamikaze e neurotrasmettitori


Un articolo piuttosto interessante, a firma di Giuliano Aluffi, pubblicato nel Venerdì allegato a La Repubblica del 24 dicembre.
Superata, un poco a fatica, la lettura del titolo (“La religione è oppio? No, dopamina”) e del sommario (“Sentirsi in contatto con Dio rende temerari. Fino ai terribili ed estremi casi dei kamikaze. La scienza cerca spiegazioni. E segnala il ruolo importante di un neuromediatore”), accettato il senso di impotenza semantica che ci attanaglia ogni volta che i media usano a sproposito il termine kamikaze (cioè quasi sempre), ci si imbatte negli esiti di una ricerca condotta negli USA, secondo la quale i cervelli che producono maggior quantità di dopamina (1) sarebbero più inclini al “pensiero religioso e superstizioso”, ovvero a vedere “schemi” anche inesistenti nelle relazioni tra i fenomeni, ipotizzando forze e cause “dietro” alle cose:
  

Non è un caso che Deus nobiscum, grido di battaglia nel tardo impero romano, sia di­ventato motto di altre culture militari, per esempio dei prussiani - e in seguito dei nazisti - nella traduzione tedesca Gott mit uns. La fede, infatti, può rendere incuranti del pericolo. A confer­marlo non è solo, nelle forme più estreme, la cronaca recente - con terroristi fonda­mentalisti che diventano kamikaze o sono comunque pronti a farsi uccidere, a Parigi come a San Bernardino - ma anche la scienza. In particolare uno studio in­titolato With God on our side: Religious primes reduce the envisioned physical formidability of a menacing adversary (traducibile come “Con Dio al nostro fianco: i condizionamenti religiosi ridu­cono il timore per la minaccia fisica dell'avversario”), pubblicato sulla rivi­sta Cognition da Colin Holbrook, Daniel Fessler e Jeremy Pollack del Center for Behaviour, Evolution and Culture della University of California di Los Angeles.
“Un esperimento condotto su 253 adulti ci ha confermato che pensare a Dio rende temerari” spiega Holbrook al Ve­nerdì. “Abbiamo diviso il nostro campio­ne in due gruppi: al primo abbiamo fatto leggere un testo con riferimenti a Dio, al secondo un testo neutro. Poi abbiamo mostrato a tutti la fotografia di un uomo minaccioso, chiedendo di valutarne la statura e la forza fisica. Il gruppo esposto a stimoli religiosi ha giudicato l'uomo più piccolo e debole rispetto all'altro”. In un secondo test, invece della presenza divi­na, a un gruppo si è suggerita quella di un amico in carne e ossa: e anche in questo caso l'avversario in foto è sembrato meno temibile. “L'idea che Dio sia con noi pro­duce quindi effetti simili alla presenza di un alleato fisico” commenta Holbrook. “Il cervello non tratta in modo diverso le immaginarie presenze soprannaturali e le persone reali. Lo dicono anche le neu­roscienze: quando proviamo a pensare al volere di Dio, si attivano le stesse aree cerebrali che usiamo se cerchiamo di indovinare il pensiero dei nostri simili”.
Non c'è quindi un'area specifica dell'i­stinto religioso che le semplificazioni giornalistiche definirebbero “i neuroni di Dio”: “A oggi non abbiamo trovato una zona del cervello corrispondente alla fe­de. Per le emozioni relative a Dio o alla religione usiamo le stesse aree coinvolte nelle emozioni per i parenti o gli amici” ci conferma Andrew Newberg, direttore della ricerca medica alla Thomas Jeffer­son University di Philadelphia e autore di numerosi studi e libri sul tema (tra questi The Mystical Mind). “Quello che distingue meditazione ed esperienza mistica dai pensieri di altro genere è solo l'intensità con cui usiamo una stessa parte del cer­vello. Prendiamo poi il senso di connes­sione con gli altri: è associato a un calo del senso del sé e quindi a una minore attivi­tà nel lobo parietale. Se parlo con un amico o un collega, quell'area sarà mediamente attiva. Se sono con il partner, ossia con qualcuno con cui ho maggiore con­nessione, il mio lobo parietale sarà un po' meno attivo, e ancora di meno lo sarà se ho un'esperienza mistica e mi sento tutt'uno con Dio”.

 Pensare al divino non spe­gne solo il senso del sé, ma anche il nostro Gps interno: “Abbiamo sottoposto a riso­nanza magnetica sia monaci buddisti in meditazione che suore francescane in preghie­ra: entrambi hanno un calo di attività nell'area dell'orienta­mento spaziale (lobi superiori parietali), come se fossero fuori dal tem­po e dallo spazio” dice Newberg.
Se il pensiero religioso non sembra avere una sua propria sede nel cervello, appare invece correlato all'abbondanza di un neuromediatore: la dopamina. Peter Brugger e Christine Mohr, neuroscienziati dell'Università di Bristol, hanno mo­strato che le persone contraddistinte da alti livelli di dopamina sono più inclini al pensiero superstizioso e religioso, ossia tendono ad attribuire più significato de­gli altri alle coincidenze, e a vedere “sche­mi” anche dove non esistono. Non solo: aumentare artificialmente il livello di dopamina nel cervello degli scettici - co­me hanno fatto Brugger e Mohr - li rende più superstiziosi. Succede perché la do­pamina ha l'effetto di rendere i neuroni più pronti a emettere impulsi e formare sinapsi in risposta al possibile riconosci­mento di uno “schema”. Abbassando la soglia di sforzo necessario alle connes­sioni tra i neuroni, la dopamina ci rende inclini a identificare le relazioni tra le cose - e a vederne anche più di quante ce ne siano in realtà - e a ipotizzare l'esisten­za di forze e “cause” dietro ciò che accade: così una pura coincidenza può apparirci come un segno divino.
La dopamina, inoltre, facilita l'apprendimento dandoci un senso di piacere quando pensiamo di aver riconosciuto uno schema. Una circostanza che rappresenta un indubbio vantaggio evolutivo: cogliere associazioni e relazioni tra le cose che avvengono, ipotizzare cause e prevedere effetti sono capacità fondamentali per la sopravvivenza. Se le possiedo non ho bisogno di essere aggredito da un predatore per capirne la pericolosità: per tenermi lontano dagli orsi mi basta ricordare quello che è successo al mio vicino di caverna. Un altro meccanismo molto utile per sopravvivere è la tendenza a ritrarsi quando si colgono i segni di una malattia contagiosa o di un cibo contaminato. “È’ un processo cognitivo che la selezione naturale ha radicato in noi nel corso di centinaia di migliaia di anni: è come se "sapessimo" da sempre che le malattie si possono trasmettere da per­sona a persona tramite il contatto” osser­va Holbrook. “E questo porta all'idea che attraverso il tatto si trasmettano sostan­ze invisibili. Un altro concetto che si estende al campo della superstizione e della religione: molti credono così che toccare le reliquie o la statua di un santo faccia acquisire, per una sorta di "conta­gio positivo", la sua protezione”.
La credenza nel soprannaturale può anche essere considerata frutto di un conflitto tra più processi cognitivi di ba­se: pensiamo all'enigma della morte: gli antropologi Clark Barrett e Tanya Benne hanno mostrato che fin dall'età di quattro anni associamo al concetto di mor­te la cessazione della capacità di agire. Ma d'altra parte, quando pensiamo a una per­sona cara deceduta tendiamo ad attribuirle ancora indivi­dualità e pensieri: questa ten­denza, secondo lo psicologo Jesse Bering, nasce dal fatto che come esseri coscienti abbiamo esperienza di cosa significhi essere privi di percezione (se per esempio chiudiamo gli occhi) ma ci è impossibile sperimentare e immaginare cosa sia il non essere coscienti. “Questo conflitto interno - dice Holbrook - genera l'idea che i nostri cari siano, in qualche modo, an­cora coscienti in un Altrove”.

Dopamina
Anche il mito della creazione del mon­do si può spiegare come effetto collatera­le dell'affermarsi di convinzioni utili per la sopravvivenza: “Le stesse facoltà che ci avvantaggiano permettendoci di usare degli strumenti radicano nella no­stra mente l'idea della finalità. Ci suggeriscono, ad esempio, l'idea che gli occhi esistano per permetterci di vedere e, più in generale, che tutto ciò che esista abbia un fine” spie­ga Holbrook. “Così ci risulta facile con­vincerci che la natura ci sia perché ri­sponde al desiderio di un creatore”.
Quello di Creatore, del resto, è un con­cetto trasversale, presente nella stra­grande maggioranza delle tradizioni. “Le religioni hanno molti punti in comune perché sono elaborazioni culturali degli stessi meccanismi cognitivi di base, che sono universali” commenta Holbrook. E forse è per questo che i credenti risultano così impermeabili alle idee degli atei: “Un discorso basato solo sulla ragione non può scalfire più di tanto un processo mentale fondato su meccanismi cognitivi intuitivi. Per giunta condivisi, inconscia­mente, anche da atei e agnostici”. Questo Holbrook ha potuto constatarlo di perso­na: “Nel nostro esperimento leggere un testo su Dio rende meno timorosi di un avversario sia i credenti che gli atei” spie­ga lo psicologo. “Sorprendente? Nemme­no troppo: già diversi studi mostrano che agnostici e atei hanno impulsi verso cre­denze soprannaturali simili a quelli di tutti gli altri. L'unica differenza è che la loro mente si sforza attivamente di resi­stere a questa propensione”.

Quale unica glossa marginale critica, vogliamo proporre una lettura molto più faticosa (480 pagine) ma ben più significativa, opera di uno studioso italiano:

Franco Fabbro, Neuropsicologia dell’esperienza religiosa, Ed. Astrolabio


  
(1) Secondo quanto si legge nel sito:
http://www.news-medical.net/health/Dopamine-Functions-(Italian).aspx,
"la dopamina è un neurotrasmettitore rilasciato dal cervello che svolge una serie di ruoli in esseri umani ed in altri animali. Alcune delle sue funzioni notevoli sono: movimento, memoria, ricompensa piacevole, comportamento e cognizione, attenzione, inibizione di produzione della prolactina, sonno, umore, apprendimento.
L'eccesso e la carenza di questo prodotto chimico vitale è la causa di parecchi stati di malattia. La Malattia del Parkinson e la tossicodipendenza sono alcuni degli esempi dei problemi connessi con i livelli anormali della dopamina
".