Quella
che segue è la traduzione dal francese (ad opera del responsabile di questo
blog) della Introduzione al Sūtra in
Quarantadue Sezioni scritta da Charles de Harlez nel 1899.
Questo
testo precede la versione in lingua francese dello stesso sūtra, che nello
stesso anno de Harlez tradusse dal cinese ed annotò.
Le
note tra parentesi tonda sono dell’Autore, quelle tra parentesi quadra sono le
mie.
I Quarantadue
Insegnamenti
di
Buddha
ovvero
Il Sutra in XLII
Sezioni
(Sze-Shi-Erh-Tchang-King)
Testo cinese
con traduzione, introduzione e note
a cura di
Ch.
de Harlez
-------
Introduzione
Il King
(o Sūtra) in Quarantadue Sezioni (1)
[a]
è sicuramente, malgrado la sua brevità, uno dei più degni di nota della
letteratura buddhista dell’impero cinese. Esso è rimarchevole per diversi
motivi. Innanzitutto ha molto probabilmente una data certa; gli annali cinesi
ne attribuiscono la redazione all’anno 67 della nostra era. È quindi possibile constatare
grazie alla sua testimonianza che in quel periodo quella certa dottrina, quella
certa idea era dominante presso i buddhisti del Nord.
Inoltre è un’opera cinese originale; quanto
meno non è stato possibile fino ad oggi scoprire nessun testo sanscrito di cui
potrebbe essere la traduzione. Il titolo stesso non appartiene affatto alla
tipologia indiana. Infine, esso è servito ad introdurre il buddhismo in Cina ed
è stato il primo mezzo di istruzione, il primo manuale religioso per la
diffusione in Cina della religione di Śākyamuni, se si può definire “religione”
una dottrina che prescinde da ogni divinità.
Gli annali cinesi, in genere molto precisi
quando si tratta di avvenimenti storici, riferiscono che il nostro King fu composto dallo Śramaṇa buddhista
Kāśyapa Madanga, condotto dall’India insieme con molti altri dagli emissari
dell’imperatore Ming-ti (61 d.C.). Ovvero esso sarebbe stato redatto in cinese
sotto la dettatura dell’asceta buddhista. Questi si stabilì in Cina, si dedicò
alla diffusione degli insegnamenti buddhisti e morì a Lo-Yang.
Un colophon apposto alla fine di uno dei
testi del nostro libro afferma che i saggi indiani portarono con loro, sul
dorso di un cavallo bianco, il libro delle quarantadue sezioni ed altri di due
scuole.
Ma il colophon è stato redatto in epoca
moderna e non riporta le memorie storiche propriamente dette, poiché indica
come avvenimenti storici le leggende che fanno risalire il buddhismo al decimo
secolo prima della nostra era.
Come che sia, lo Sze-Shi-Erh-Tchang-King ha attraversato i secoli, conservato con
cura nei monasteri e costantemente considerato come un’opera di grande
importanza, un pen shou o libro
fondamentale. Esso non esistette in lingua cinese fino all’epoca della dinastia
manciù. Ma l’imperatore Kien-Long, la cui attenzione era stata attirata verso
quel manuale, lo fece tradurre in manciù sotto la sua direzione. Questo ne
favorì una versione tibetana ad opera di due eruditi Lama dai nomi sanscriti di
Dhyānāris-Tavyāsa e Subhagaçreyadhwaja, recante l’inspiegato titolo di Keb tchou. Ad essa se ne aggiunse una
terza in mongolo composta da un sapiente chiamato Prajnodayavyāsa, unicamente a
titolo personale.
Purtroppo il testo stesso non ci è giunto
nella sua purezza originaria.
O almeno è ciò che pensa l’erudito
tibetologo M. Léon Feer [b],
e questo, mi pare, a ragion veduta.
Ne esistono in effetti due distinti
esemplari, entrambi presenti in due copie presso la Bibliothèque Nationale di
Parigi: uno contiene il solo testo cinese, l’altro il testo con le tre versioni
di cui abbiamo parlato.
Sembrerebbe anche, secondo l’osservazione
di M. Feer, che il sinologo inglese M. Beal ne abbia posseduto un terzo, diverso
dai due citati, come si evince dalla sua traduzione di alcuni passaggi, se la
si può considerare corretta.
Il Sūtra
in quarantadue sezioni è stato conosciuto in Europa alla metà del XVIII
secolo, ed è grazie ad esso che gli eruditi occidentali hanno avuto a
disposizione i primi testi buddhisti autentici. Ma quegli inizi non furono
felici.
Come ricorda M.L. Feer, fu de Guigne [c] colui che per
primo lo segnalò all’attenzione del mondo occidentale in una memoria presentata
il 24 luglio 1753 all’Académie des Inscriptions et Belles Lettres con il titolo
Recherches sur les philosophes appelés
Samanéens (2).
Successivamente presentò una traduzione
dei passaggi principali nella sua storia degli Unni (3),
ma tale traduzione non fu che il lavoro di una persona, peraltro molto erudita,
che attribuiva il libretto buddhista agli adepti di una delle prime sette
cristiane: a tal punto tutta la dottrina di Gautama era poco conosciuta in quel
periodo.
“Coloro che si avvicineranno a questa
opera – egli disse – non vi troveranno che una forma di cristianesimo così come
la insegnavano gli eresiarchi dei primi secoli dopo avervi mescolato le idee di
Pitagora sulla metempsicosi e alcuni altri principi recepiti in India” (Si veda
il t. II p. 233).
Ecco d’altra parte un esempio della sua
traduzione:
“Fo [d]
chiese ad uno Śramaṇa in che cosa consistesse la vita. Nel bere e nel mangiare,
rispose lo Śramaṇa. Fo gli disse: Non hai ancora penetrato l’insegnamento. Poi,
voltatosi verso un altro al quale pose la stessa domanda e che gli rispose che
la vita consisteva nel respirare, Fo affermò: Tu comprendi il mio insegnamento”.
Il lettore confronti con questa la
traduzione della sezione, e sarà egli stesso a giudicare [e].
I grandi sinologi della prima metà di
questo secolo, Abel Remusat, Klaproth e Stanislas Julien, segnalarono tutti
l’importanza del nostro Sūtra, senza darne una traduzione. La intrapresero nel
1848 i Padri Lazzaristi Hū e Gabet [f]
e fu pubblicata nel Journal Asiatique; ma se si presta loro fede fu redatta su
basi tibetane e mongole, e la loro opera è giustamente definita da L. Feer come
scientificamente molto insufficiente.
A questi tentativi più o meno infelici
seguirono due traduzioni dal tibetano, una in tedesco a cura di A. Schiefmer,
presentata all’Accademia delle scienze di San Pietroburgo il 9 settembre 1851 (4), l’altra di L.
Feer, pubblicata nella collezione di articoli di M.E. Leroux (5).
Nel frattempo il sinologo inglese Samuel
Beal aveva ripreso il testo cinese e ne aveva pubblicato due successive
traduzioni in inglese: una nel Journal of the Royal Asiatic Society of Great
Britain and Ireland (1862) e la seconda nel suo bel libro intitolato: A Catena of buddhist scriptures (6).
Per apprezzare il valore di questo duplice
lavoro basta ricordare che il primo era infarcito di punti interrogativi che
indicavano le incertezze dell’autore e il suo imbarazzo di fronte ai punti
oscuri del suo testo. Quanto al secondo, scioglie in parte quei dubbi così
numerosi, ma in un modo ben lontano dall’essere sempre soddisfacente. Si può
anzi cominciare a pensare che talvolta l’erudito inglese traduca un testo di
una lezione del tutto particolare che egli è il solo a possedere.
Si veda ad esempio la traduzione della
sezione 29:
“29) Un uomo religioso, sopprimendo i
desideri dei sensi, deve aver cura di sé come una stoppia pronta per essere
bruciata quando giungerà il grande fuoco alla fine del Kalpa.
L’uomo religioso considerando passioni e
desideri sotto questo aspetto dovrà necessariamente allontanarli da sé”.
“33) C’era uno Śramaṇa il quale, durante
la notte, recitava le scritture con una voce lamentosa e roca, desiderando fare
penitenza per il pensiero di ritornare al peccato…” (7).
Non è il caso di stupirsene. Le parole del
testo sono spesso equivoche, e Beal non aveva a disposizione per orientarsi la
testimonianza dei traduttori cinesi, che ci è invece offerta grazie alla
versione manciù. In effetti essa non è l’opera di un singolo illuminato
esclusivamente dalla sua personale conoscenza, bensì di un gruppo di eruditi
scelti e diretti dal più sapiente tra loro, l’imperatore Kao-tsong-shun o
K’ien-Long stesso. Questo fatto ci è confermato dal colophon finale di cui
abbiamo parlato in precedenza e che riporta queste parole: Kin ming.
Questa versione merita quindi una fiducia
ed una attenzione del tutto particolari, ed è grazie al fatto che i nostri
studi ci permettono di farvi ricorso che noi abbiamo creduto di poter
pubblicare una traduzione fondata su una incontestabile autorità. Del resto,
confido di presentare i due testi ai miei lettori, i quali potranno così
giudicare con cognizione di causa.
Il manciù, in effetti, non segue sempre il
cinese pedissequamente, parola per parola, poiché esso possiede le sue
specifiche regole di costruzione; ma colui che ha frequentemente confrontato le
due lingue non fa fatica ad immaginare come deve essere in cinese l’una o
l’altra espressione di una costruzione idiomatica in manciù e a constatarne la
corrispondenza. Così si può considerare la versione manciù come letterale.
La breve vicenda che abbiamo rievocato farà
conoscere a sufficienza il valore di quel piccolo trattato che J. Edkins ha
giustamente definito come un’opera importante: A small but important work (8);
non ci rimane che esaminarne il testo e il suo contenuto.
A questo punto si presenta per primo il
problema dell’autenticità, che sarà facilmente risolto, poiché nessuno, né tra
i letterati cinesi né tra i più eruditi sinologi europei, ha mai sollevato il
minimo dubbio a questo proposito.
L. Feer la riconosce come noi, ma la
definisce “relativa”, in quanto non esiste alcun testo indiano di cui questo
trattato sarebbe la traduzione.
È singolare la diversità dei punti di
vista dai quali si pongono le differenti personalità: per me questo è un motivo
per considerare quella autenticità come assoluta, poiché il testo che
possediamo è proprio l’opera originaria e non è affatto transitata attraverso
il canale, sempre rischioso, di una traduzione.
Non si può dubitare del fatto che il testo
attuale sia in sostanza quello che fu diffuso in Cina intorno all’anno 70,
essendo in presenza di una tradizione storica priva di errori.
Questo fatto è indiscutibile, afferma
Beal, poiché è riportato negli annali del paese e un tempio è stato edificato
in ricordo dell’avvenimento, una estesa narrazione del quale si trova in
un’opera molto nota ed autentica: L’histoire
des Temples de Lo-Yang.
Il colophon di cui abbiamo già parlato
racconta l’evento nei termini da noi riportati in precedenza. Esso presuppone
un testo sanscrito originario, ma si spiega altresì con la semplice ipotesi
secondo cui quel libro, come altri, è composto di estratti tradotti da opere
diverse.
Poiché l’autenticità del Sūtra in quarantadue sezioni è certa, ci
si domanda se il testo sia rimasto intatto dopo la sua lontana origine. La
risposta è certamente negativa per alcuni testi, poiché esistono due o tre
versioni che presentano variazioni di un certo rilievo.
M. Feer si spinge oltre, e ritiene il
tutto profondamente modificato e interpolato. Il motivo del suo giudizio si
trova nel contenuto stesso dell’opera, che corrisponderebbe molto poco al suo
titolo.
In effetti vi si trovano, si dice, più
delle quarantadue sezioni che sono indicate nel titolo; se ne contano
quarantaquattro e più. È pur vero che per questo non si deve supporre che ogni
nuova sezione riporti la classica intestazione “Il Buddha disse”, cosa che non è forse indispensabile.
Inoltre in due o tre sezioni i brevi
discorsi del Buddha sono interrotti da narrazioni aneddotiche, e nella seconda
non si trova una diretta applicazione della massima che le precede.
È ciò che avviene nella sezione XXX, la
storia della fanciulla all’appuntamento. Inoltre la sezione XXXIII non inizia
con la formula tradizionale “Il Buddha
disse”. Tutto questo non indica un disordine che nasce dal rimaneggiamento
del testo?
Senza dubbio può essere così; ma per noi
questa ipotesi non è per nulla necessaria. In realtà i termini tradizionali “But yuet” si ripresentano per quarantuno
volte come preannuncio di una massima o di una serie di sentenze. La stessa
sezione XXXIII non costituisce un’autentica eccezione. In effetti si apre con
l’esposizione di un fatto che fornisce al Buddha l’occasione per formulare il
suo insegnamento e all’autore per introdurre la consueta espressione rituale.
In modo tale che essa si trova ovunque all’inizio delle massime e per
quarantuno volte, conformemente al titolo dell’opera.
Se queste parole si ripetono in alcune
sezioni, è perché coloro che ascoltano il Buddha replicano o lo interrogano,
per cui il “But yuet” precede in quel
punto solo una risposta accessoria e non un nuovo argomento.
Quanto agli esempi riportati in due o tre
punti, essi non sono che applicazioni pratiche del pensiero del Maestro. È il
caso della medesima sezione XXX, poiché si tratta in quel frangente della
soppressione dei desideri e l’esempio della giovane ne esplicita un caso
particolare.
Può essere ugualmente scartata l’ipotesi
secondo cui quelle storie sarebbero state aggiunte a posteriori. In ogni caso
essa non inficia per nulla l’autenticità di tutte le altre parti del testo. D’altronde
essa si impone a maggior ragione in quanto narrazioni di quel tipo fanno parte
integrante del testo principale ed anzi più di una volta aprono le sezioni (si
veda la sezione XXXV: La tentazione) [g].
Nella sezione XII è la domanda di un Bhikṣu ad introdurre il breve sermone del
Buddha. Mi pare quindi che in tutto questo non vi sia nulla che implichi una
alterazione del testo.
Quanto alla differenza tra le versioni,
essa consiste fondamentalmente nella maggiore o minore brevità e in alcune
varianti espressive. Il che indicherebbe secondo me una redazione mnemonica da
parte dell’autore della più breve tra le due, e non proverebbe nulla a carico
dell’integrità della più estesa. Quest’ultima ha ancora a suo favore la
circostanza secondo cui è stata considerata dal gruppo dei letterati, guidati
dall’imperatore K’ien-Long, come la principale, l’autentica, quella che
meritava la consacrazione ufficiale e gli onori della traduzione. È quella che
compare nei manoscritti tetraglotti in cinese, manciù, tibetano e mongolo. Ed è
quella, naturalmente, che abbiamo scelto per offrirne una traduzione ai nostri
lettori, preferendola all’altra che possiede solo il testo cinese e un testo
abbreviato. Avremmo ancor più motivi per farlo per la chiarezza di quest’ultimo
testo, le versioni mongole e specialmente la versione manciù sarebbero state
inutili; sarebbe stata una sorgente di luce delle più preziose interamente
perduta (9).
Un’altra questione posta da L. Feer è
quella dell’origine del titolo del nostro Sūtra. Il titolo è originario o è
stato aggiunto a posteriori dopo il rimaneggiamento del testo?
Secondo me, è indubbio che si tratti del
titolo originario. Come ho mostrato, il Sūtra è diviso in quarantadue brevi
sermoni del Buddha, e non si potrebbe trovare un altro criterio di
suddivisione. Inoltre questo numero aveva un significato tradizionale presso i
buddhisti del Nord. Una leggenda che circolava tra loro racconta che Indra, il
grande dio dei Veda, un giorno fece visita al Buddha che sedeva su una roccia e
“lo interrogò su quarantadue argomenti. Il saggio tracciò le sue risposte ad
una ad una sulla roccia con un dito” (10).
Questo è quanto riferito dal pellegrino buddhista Fa-kien, che visitò l’India
nel 399-400 d.C. e che ci ha lasciato una testimonianza del suo viaggio nota
con il nome di But Koue-ki, o Annali dei Regni Buddhisti, conosciuta
grazie alle traduzioni che ne hanno fatto Abel Remusat, Legge e Beal.
Fa-kien afferma che nella sua epoca
esistevano ancora tracce di quelle iscrizioni. Su quel sito era stato edificato
un monastero, i cui resti sono oggi ancora visibili. Senza dubbio non è il
nostro Sūtra ad essere stato scritto sulla roccia, ma la coincidenza del numero
lascia credere che la scelta del titolo dell’opera non sia stata del tutto
arbitraria.
Il contenuto dello Sze-Shi-Erh-Tchang-King è ben lungi dall’essere in un perfetto
ordine. Esso inizia con una messa in scena del tipo classico, in cui si vede il
Buddha che è interrogato da alcuni asceti e risponde alla richiesta di
risolvere le loro difficoltà. Questa introduzione è più di una volta
dimenticata nel seguito per fare posto ad altre situazioni. Inoltre gli
argomenti sono disposti alla rinfusa e le ripetizioni sono frequenti.
Quest’ultimo difetto non è raro nei testi buddhisti, ma l’abbandono della messa
in scena lo è di più. L’introduzione sarà forse stata aggiunta al testo già
redatto? Nulla ci spinge a pensare in questo senso, ma non abbiamo gli
strumenti per risolvere questo problema.
Per concludere, diciamo qualche parola
sulle condizioni materiali del nostro testo.
Si tratta di un quaderno formato da 82
fogli squadrati, lunghi e piatti, larghi 34 e alti 14 centimetri, di carta
bianca, spessa e semplice, contrariamente alle abitudini cinesi; il testo è
xilografato o autografato su quattro linee, ognuna della quali diversa: in
tibetano, manciù, mongolo, cinese.
I caratteri cinesi e tibetani si
susseguono su una linea orizzontale, da sinistra verso destra.
Le parole manciù e mongole tracciate
verticalmente procedono verso destra.
Il tutto comprende 162 pagine, poiché i
lati esterni dei fogli 1 e 82 sono ricoperti da un cartoncino giallo. Il Sūtra
ne occupa 148 facciate; le ultime otto con un frammento della 73^ riportano il
colophon. Questa edizione tetraglotta non è un’opera imperiale; è dovuta alla
generosità di un ricco e devoto buddhista di nome Heng-lin, di cui il colophon
ricorda l’azione compassionevole. Infine, la prima pagina è ornata da due
immagini del Buddha poste a destra e a sinistra.
Il testo si trova presso la Bibliothèque
nationale di Parigi, come pure l’altra versione in solo cinese. Un ulteriore
esemplare è conservato presso la Biblioteca di San Pietroburgo. Questi, insieme
con il mio, sono i tre soli che esistono in Europa, a quanto mi consta. Non mi
addentrerò in ulteriori dettagli. Quanto precede è ampiamente sufficiente per
le finalità assegnate a questo lavoro ed io devo, ahimè, risparmiare le mie
energie.
Non mi occupo dei testi in tibetano e
mongolo; quanto al primo, M. Schiefner e M.L. Feer hanno esaurito l’argomento
ed inoltre esso è troppo diverso da quello cinese per poterlo chiarire in
maniera sicura. Il mongolo è solo un’ombra di quello tibetano e non richiede
una particolare spiegazione (11).
È cosa diversa per il manciù, che rende
generalmente con esattezza il significato del cinese. Per questo l’ho seguito
il più fedelmente possibile, e faccio conto di pubblicarne la trascrizione in
calce all’originale, se il mio stato di salute me lo permetterà [h].
Ma l’uomo propone e non dispone.
Notiamo ancora che il testo cinese
tracciato a mano sul legno è assai imperfetto; alcuni caratteri tagliati o in
parte cancellati comportano qualche difficoltà, ma non in maniera
insormontabile.
Infine, devo annotare che i titoli delle
sezioni non esistono nei testi, laddove tutto si sussegue senza alcuna
punteggiatura. Li ho creati ed inseriti io per facilitare la lettura.
Note di Ch. De Harlez
(1)
È il termine che i Cinesi usano per tradurre il sanscrito Sūtra, che indica, come è noto, i testi che riportano i sermoni del
Buddha, i detti del Maestro collegati tra loro. Utilizziamo questo termine
perché è poco probabile che esistesse un Sūtra del genere.
(2)
È in questo modo che rende e recepisce śramaṇa,
l’asceta indiano.
(3)
Si veda la parte II, pp. 227 e seg.
(4)
Si veda il Bulletin historique et philosophique, t. IX, col. 66-76
(dell’Accademia imperiale di Russia).
(5)
Bibliothèque orientale elzévirienne, t. XXI; E. Leroux, Parigi 1878. Le Dhammapada avec introduction et notes par
Ferdinand Hū, suivi du Sutra en quarante-deux articles, traduit du tibétain
avec introduction et notes par L. Feer. Inutile dire che quest’opera è
degna dell’erudizione del suo autore.
(6) A Catena of buddhist scriptures from the Chinese.
Londra, 1871, Trubner a. Paternoster, pp. 190 e seg.
(7)
Si veda A Catena of buddhist scriptures,
p. 189.
(8)
Si veda Chinese Buddhism, p. 88.
(9)
Vero è che secondo M. Beal la sua versione sarebbe stata redatta da un bonzo di
nome Chang-Ka, sotto K’ien-Long; ma è per noi molto difficile prestar fede a
questa affermazione che non è confermata da nulla, e di cui il nostro colophon
indica la falsità. D’altra parte il testo di M. Beal differisce dal nostro,
come ha notato lo stesso L. Feer.
(10) But Koue-ki, cap. XXXIV init.
(11)
Aggiungiamo che le note con cui M. Feer ha arricchito il suo eccellente
libretto non hanno nulla in comune con le mie. I loro oggetti sono tutti
diversi.
Da questo punto il testo
di de Harlez prosegue con la traduzione delle quarantadue sezioni del Sūtra in
lingua francese.
Come già detto, una
versione in italiano può essere letta e studiata qui:
http://www.superzeko.net/dharma_di_aliberth_da_rivedere/sutra10.htm.
Si tratta della versione
italiana del testo cinese tradotto in inglese da S. Beal, citato nella
Introduzione di de Harlez.
Note mie.
[a] È
lo stesso termine (oggi nella forma jīng)
che si trova nel titolo di classici cinesi quali lo Yìjīng, il Libro
dei Mutamenti, o il Dàodéjīng, il Libro della Via e della Virtù. Nella traduzione
dell’Introduzione ho mantenuto i nomi cinesi o sanscriti come sono stati
scritti da De Harlez (tranne quelli più noti, ad es. Śākyamuni, Śramaṇa…).
[b] 1830-1902. Orientalista francese, fu studente del
corso di sanscrito tenuto da De Foucaux.
[c] Si tratta probabilmente dell’orientalista francese
Joseph de Guignes (1721-1800).
[d] In cinese, il Buddha.
[e] De Harlez si riferisce probabilmente alla sezione
n. 37, leggibile in versione italiana sul sito: http://www.superzeko.net/dharma_di_aliberth_da_rivedere/sutra10.htm.
[f] La Congregazione della missione, i cui membri sono
detti lazzaristi o signori della missione, venne fondata nel 1625 a Parigi da
san Vincenzo de' Paoli per la predicazione tra la gente di campagna; nel 1632
la compagnia prese sede nell'antico priorato di Saint-Lazare (donde il nome di
"lazzaristi") e il 12 gennaio 1633 fu approvata da papa Urbano VIII. Nel
1846 i padri lazzaristi Huc (citato da De Harlez come Hū) e Gabet esplorarono
il Tibet, prima che l’ingresso nel paese fosse proibito agli Europei.
[g] In realtà si tratta della sezione XXV.
[h] Si rammenti che questo lavoro di de Harlez è del
1899, l’anno della sua morte.