martedì 23 ottobre 2012

De Bello

Lo sguardo del Buddha di fronte alla guerra

Più cerchi di sottomettere i nemici esterni, più numerosi diventeranno:
se invece disciplini la tua mente non avrai più neanche un nemico.

(Milarepa)

Gli insegnamenti del Buddha non costituiscono un corpus dottrinario, all’interno del quale cercare le risposte definitive alle più svariate domande. Il buddhismo non vuole prendere posizione su argomenti di carattere generale, essendo essenzialmente una disciplina che affronta un problema pratico, la sofferenza degli esseri senzienti.
Non esiste pertanto una “dottrina” buddhista sulla guerra. Si può anzi dire che non ve ne sia bisogno, tanto è evidente l’importanza, nel Sentiero buddhista, della compassione (karuna), dell’amichevolezza (maitry), della non-violenza attiva (ahimsa) – non come astratti principi filosofici, ma come concreto stile di vita.
Il Buddha Shakyamuni nel corso della sua vita diede insegnamenti a monaci e laici, asceti e prostitute, briganti e ricchi proprietari. E non rifiutò di rispondere alle domande di re, come Bimbisara del Magadha, di prìncipi, come i Licchavi, di militari, come il generale Siha. Con essi parlò di politica, di potere, di guerra. Talvolta intervenne di persona, come nel caso della disputa tra due popoli per l’uso delle acque del fiume Rohini.
Quando parlò di guerra, lo fece dal punto di vista della sofferenza degli esseri senzienti, e non con i sottili distinguo della politica e della teologia tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, sante e no. Parlò di violenza e di pace con grande semplicità, come poi fecero Cristo, Gandhi, Thich Nhat Hanh, il XIV Dalai Lama.
Per quattro motivi, fondamentalmente, il buddhismo rifiuta in maniera del tutto naturale la guerra, tutti molto concreti:

a) genera l’uccisione di ogni forma di esseri senzienti (ad es. non si parla mai dello sterminio degli animali nel corso delle guerre)
b) nasce dall’odio e genera nuovo odio. E l’odio, l’avversione, è una delle radici della sofferenza (con l’attaccamento e l’ignoranza)
c) provoca turbamento e intolleranza
d) tutto ciò per cui gli uomini combattono (ideali, religione, patria, razza, ricchezza, territori..) è impermanente, privo di sostanza, illusorio.

Si propongono qui di seguito alcuni passi dei testi del Canone che affrontano l’argomento della guerra e della violenza.
Nel primo, il Sangama Sutra, il Buddha ascolta dai monaci il racconto di una guerra in cui il re Ajatasatru aveva sconfitto Pasenadi, re del Kosala. Il Buddha afferma che il quel momento Pasenadi sta provando grande dolore per la sconfitta, e dice: “Genera odio il vincitore, prova dolore lo sconfitto; colui che ha rinunciato alla vittoria e alla sconfitta dimora calmo nella gioia”.
In una seconda battaglia, il re Pasenadi sconfigge Ajatasatru, prima vittorioso, lo imprigiona ma poi lo grazia. E il Buddha così commenta: “Depreda l’uomo finchè gli fa comodo, e quando altri lo depredano egli, depredato, depreda a sua volta. Così pensa lo stolto finchè il male non lo raggiunge; ma quando il male lo raggiunge, allora lo stolto prova dolore. All’uccisore tocca un uccisore, al vincitore un vincitore, all’offensore un offensore, all’astioso un astioso. Per il volgere del karma il depredato depreda”.

In un’altra occasione, narrata nel Pabbatupama Sutra, il re Pasenadi dice al Buddha di essere molto impegnato “in quelli che sono i compiti dei re, dei guerrieri incoronati ebbri di potere, posseduti dalla brama dei godimenti”. E il Buddha gli chiede: che cosa si dovrebbe fare se un uomo giungesse da est, uno da ovest, e da nord, e da sud, e annunciassero che quattro grandi valanghe stanno annientando tutti gli esseri? Di fronte a ciò, risponde il re, si potrebbe solo avere un comportamento “conforme al Dharma, un retto comportamento, un retto operare, un operare meritorio”. Queste valanghe, chiarisce il Buddha, sono invecchiamento e morte: “Come una roccia di una grande montagna che tocca il cielo precipita in forma di valanga da tutti i lati, travolgendo la pianura nelle quattro direzioni, così arrivano la vecchiaia e la morte, annientando tutti gli esseri senza distinzione. Nobili, sacerdoti, commercianti, fuori-casta, nessuno può sfuggire o tenerle a bada. Il pericolo imminente seppellisce ogni essere. Dunque non c’è posto né profitto per la guerra. La vittoria non può essere conseguita con l’uso degli elefanti, né dei cavalli, né dei carri, né dei fanti, né delle preghiere, né del denaro. Piuttosto il saggio miri alla salvezza, abbia fiducia nel Buddha, nel Dharma e nel Samgha. Colui che vive rettamente nel corpo, nella parola e nella mente è lodato in questa vita e trova la felicità autentica nelle vita prossima”.

Nell’Attadanda Sutra il Buddha dispiega il suo sguardo compassionevole sull’umanità in conflitto: “Quando la si coltiva, la pianta della violenza genera paura e sofferenza. Guardate gli uomini che lottano tra loro. Vi parlerò ora del turbamento che ho provato osservando gli uomini dibattersi come pesci in una piccola pozza, in competizione gli uni con gli altri. Non vedendo altro che conflitti, ho provato grande dolore. Ma è allora che scorsi una freccia conficcata qui, nel cuore, difficile da vedere. Oppresso da questa freccia, l’uomo corre da ogni parte. Ma se semplicemente la si estrae, allora non si corre più, non si cade più”.

Nel Dhammapada, infine, gli insegnamenti del Buddha sulla violenza trovano la loro più alta sintesi: “Mai, invero, si placano quaggiù gli odii con l’odiare: col non-odiare si placano. Questa è legge eterna” (I,5). “Fra chi vince in battaglia mille volte mille nemici e chi soltanto vince se stesso, costui è il migliore dei vincitori di ogni battaglia” (VIII,103). “La vittoria alimenta inimicizia, perché chi è vinto giace dolente. Chi ha abbandonato vittoria e sconfitta, costui ristà tranquillo e felice” (XV,201).

Ma soprattutto, in ogni momento si abbia fermo l’insegnamento impartito dal Buddha negli ultimi giorni della sua esistenza terrena: “Perciò, Ananda, siate delle isole per voi stessi, dei rifugi per voi stessi, e non cercate nessun rifugio esterno; il Dhamma la vostra isola, il Dhamma il vostro rifugio, non cercate altro rifugio. E come, Ananda, un monaco è un'isola per sé, un rifugio per sé, e non cerca nessun altro rifugio; il Dhamma la sua isola, il Dhamma il suo rifugio, non cerca nessun altro rifugio?
Quando dimora nella contemplazione del corpo nel corpo, in stato di comprensione chiara ed attenta, dopo avere sormontato il desiderio ed il dispiacere rispetto al mondo; quando dimora nella contemplazione delle sensazioni nelle sensazioni, della mente nella mente, degli oggetti mentali negli oggetti mentali, in stato di comprensione chiara ed attenta, dopo avere sormontato il desiderio ed il dispiacere rispetto al mondo, allora, in verità, è un'isola per sé, un rifugio per sé, non cerca rifugio esterno; avendo il Dhamma come sua isola, il Dhamma come suo rifugio, non cerca altro rifugio. Questi miei monaci, Ananda, adesso o dopo la mia dipartita, saranno così un'isola per loro stessi, un rifugio per loro stessi, non cercheranno altro rifugio; chi, avendo il Dhamma come sua isola e rifugio, non cercherà altro rifugio: perciò diventeranno più saggi, se hanno il desiderio di conoscere” (dal Maha-parinibbana Sutta, II, 33.34.35)


m. mauro tonko, febbraio 2011

Nessun commento:

Posta un commento